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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org ANNEGANO COI MIGRANTI NEL MEDITERRANEO I DIRITTI UMANI TRAMONTANO L’EUROPA E L’OCCIDENTE COSA ABBIAMO IMPARATO DALLA STORIA?,A cura diRaffaello Saffioti

Editoriale
ANNEGANO COI MIGRANTI NEL MEDITERRANEO I DIRITTI UMANI TRAMONTANO L’EUROPA E L’OCCIDENTE COSA ABBIAMO IMPARATO DALLA STORIA?

VADEMECUM SU “LA TRAGEDIA DEI MIGRANTI E IL DECLINO DELL’EUROPA”


A cura di
Raffaello Saffioti

AUTORI
DOMENICO GALLO ROSELLINA BALBI LUCA CAVALLI SFORZA ANDREA STAID DON LORENZO MILANI CICERONE CARLO CASSOLA YOLANDE MUKAGASANA PAPA FRANCESCO ALDO CAPITINI CARLA FALCONI JOHN FITZGERALD KENNEDY BERTOLT BRECHT ANNA FRANK LILIANA SEGRE ERNESTO BALDUCCI ERRI DE LUCA MARIO GOZZINI
INTRODUZIONE
Perché questo “vademecum”?
Il bisogno di pensare con il cuore.
“Il Mar Mediterraneo è diventato un cimitero”.
“Il nuovo Olocausto si chiama immigrazione”.
Il vademecum, coi suoi 20 testi, di autori di epoche diverse e di diverso orientamento culturale, esprime l’esigenza di porre il problema del fenomeno migratorio come problema storico, dal punto di vista culturale, prima che politico. Vuole rispondere alla domanda fondamentale: cosa abbiamo imparato dalla storia?
L’obiettivo del vademecum spiega il criterio di scelta dei testi che lo compongono, collegati da un filo unitario.
Stiamo vivendo in un tempo difficile, del quale non è facile misurare la gravità. Un ruolo importante lo giocano i mezzi d’informazione nel formare e orientare l’opinione pubblica. Non è facile distinguere le notizie vere da quelle false, circolanti anche nei social network.
Nell’ottantesimo anniversario delle leggi razziali, firmate da Mussolini, considerate “macchia indelebile della nostra storia”, c’è da allarmarsi perché stiamo assistendo all’avanzata di forze xenofobe e criptofasciste. Si parla di una “deriva culturale”. Che fare? Come rispondere? Quali strumenti usare?
Sono da privilegiare gli strumenti della cultura, per contrastare quella che è stata definita “povertà critica”.
Il fenomeno migratorio sta dividendo la società italiana. Divide anche la Chiesa cattolica, come dimostra l’ultimo editoriale dell’amico Direttore, Giovanni Sarubbi, col titolo “Vattene Salvini” (vedi link). La democrazia è messa alla prova. I migranti sono diventati un facile bersaglio, verso il quale si scarica “il malessere che sale dalla pancia della società”, deviandolo dai suoi veri problemi.
Nella “Giornata mondiale contro la tratta degli esseri umani” non è mancata la condanna di ogni forma di schiavitù, come quella che è favorita dal fenomeno migratorio, con gli immigrati considerati “nuovi schiavi”.
Ma il fenomeno migratorio non è nuovo. “Possibile che la storia non ci abbia insegnato nulla?”: è il titolo dell’editoriale del Direttore, (del 10 giugno 2018, vedi link), che ha ripreso il tema della “lezione della storia” con un altro editoriale, col titolo “Collaborazionismo? No grazie!” (del 23 luglio 2018, vedi link).
Come si spiega l’avanzare delle forze xenofobe e criptofasciste nella società italiana, governata in un sistema democratico? Si può spiegare anche con il nesso che esiste tra democrazia ed educazione, ed è un nesso di reciprocità. Sappiamo, infatti, che la democrazia non può durare, né svilupparsi, senza l’educazione. Di conseguenza non possiamo ignorare le responsabilità delle varie agenzie educative, compresa la scuola, istituzione educativa per definizione.
Se c’è crisi della democrazia, è anche crisi dell’educazione.
Non possiamo non ricordare l’opera del filosofo e pedagogista statunitense JOHN DEWEY (1859-1952), Democrazia ed educazione (1916), divenuto un classico, appunto, dell’educazione. [1]
Ci sono delle analogie tra quanto accade oggi e quanto è accaduto in Italia e in Europa nel secolo scorso, con l’avvento del fascismo e del nazismo. In ogni tempo, e sotto ogni regime, sia democratico che dittatoriale, chi governa ha bisogno del consenso dei governati, come lo hanno avuto il fascismo e il nazismo, che con due guerre mondiali hanno caratterizzato il secolo scorso. Ma il 900 è stato anche il secolo dei Padri e Maestri della nonviolenza moderna. Da Gandhi, Martin Luther King, Aldo Capitini, Danilo Dolci, ed altri, abbiamo imparato il valore della nonviolenza attiva e la forza della coscienza. Quest’anno, ricordiamo, è il cinquantenario della morte di due di essi: Martin Luther King e Aldo Capitini. Da questi Maestri abbiamo imparato, in particolare, le tecniche della nonviolenza per resistere e opporsi al male, e tra di esse ricordiamo l’obiezione di coscienza e la non collaborazione.[2]
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, la storia è andata avanti ed è nata l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), che ha approvato la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, adottata e proclamata con Risoluzione del 10 dicembre 1948.
Il 1° gennaio dello stesso anno è entrata in vigore la Costituzione della Repubblica italiana, che all’articolo 2 ha riconosciuto “i diritti inviolabili dell’uomo”.
Don Lorenzo Milani nella “Lettera ai Giudici” (del 18 ottobre 1965) scrisse:
“… io ho fiducia nelle leggi degli uomini. Nel breve corso della mia vita mi pare che abbiano progredito a vista d’occhio.
Condannano oggi tante cose cattive che ieri sancivano. Oggi condannano la pena di morte, l’assolutismo, la monarchia, la censura, le colonie, il razzismo, l’inferiorità della donna, la prostituzione, il lavoro dei ragazzi. Onorano lo sciopero, i sindacati, i partiti”.
Ogni uomo di buona volontà è chiamato a imparare la lezione della storia e a rispondere, di conseguenza, collocandosi sul fronte della coscienza.[3]
Palmi, 30 luglio 2018
R. S.

I

COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA (1948)
Articolo 2
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Articolo 10 (comma 3)
Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.
II
DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI (1948)
Articolo 1
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.
Articolo 2 (comma 1)
Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.
Articolo 3
Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.
III
DOMENICO GALLO
“Europa, non passa lo straniero”
Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio / dei primi fanti il ventiquattro maggio / l’esercito marciava per raggiungere la frontiera / per far contro il nemico una barriera / il Piave mormorò: non passa lo straniero!
Dopo il tragicomico Consiglio Europeo del 28 giugno nel corso del quale i Capi di Stato e di Governo dei 27 Paesi dell’Unione Europea hanno discusso accanitamente tutta la notte per trovare una risposta comune alla gestione dei flussi migratori, riuscendo ad accordarsi solo sulla proibizione alle navi delle ONG di effettuare salvataggi in mare nel Canale di Sicilia, il processo di disfacimento dell’Unione politica ha fatto ulteriori passi in avanti.
Adesso la canzone del Piave la cantano tutti in coro, da Salvini a Macron, alla Merkel, (con il suo ministro dell’interno, Seehofer), a Orban, ai polacchi, al neo Presidente dell’Unione Europea, il Cancelliere Sebastian Kurz, spronato dai neo nazisti suoi alleati di governo. Di fronte alla decisione tedesca di installare delle “zone di transito per i respingimenti dei migranti”, cioè dei campi di concentramento per i migranti, verosimilmente al confine con l’Austria, Vienna ha annunciato: “siamo pronti a misure di protezione dei nostri confini meridionali”. Tradotto in soldoni significa ripristinare quelle frontiere fra i paesi europei che il trattato di Schengen aveva abolito per garantire la libera circolazione nello spazio comune europeo.
La convivenza dei popoli europei integrati nell’Unione Europea si basa su una tavola di valori. Come recita il Preambolo della Carta dei diritti fondamentali, questi valori, indivisibili ed universali, che fondano l’Unione sono la dignità umana, l’eguaglianza, la libertà e la solidarietà.
La querelle sull’immigrazione dimostra che è in atto un ripudio generale del principio di solidarietà. Cancellare ogni forma di solidarietà all’esterno, verso il popolo dei rifugiati che bussa alle porte dell’Europa, fa venir meno anche la solidarietà all’interno fra i Paesi che compongono l’Unione.
Se l’Europa deve diventare una fortezza perché non deve passare lo straniero, anche ogni Paese deve diventare fortezza per gli altri Paesi. Ogni Paese ha la sua linea del Piave e la sua guerra da combattere contro gli altri Paesi europei per fermare lo straniero. Del resto ci sono state presentate in pompa magna le operazioni dell’esercito austriaco che si esercitava a blindare la frontiera e a respingere l’assalto dei migranti, impersonati da comparse teatrali.
Orbene la canzone del Piave è una canzone di guerra e la retorica che attribuisce i mali di un popolo agli stranieri è stata già sperimentata con successo negli anni 30 del secolo scorso dal partito nazista, che è riuscito a costruirsi un consistente consenso popolare facendo credere al popolo tedesco che la ragione dei suoi mali fossero gli ebrei.
In realtà in Europa sull’onda dell’avanzata di forze xenofobe e criptofasciste si sta costruendo una colossale mitologia sostitutiva. Si costruisce un facile capro espiatorio e si celebrano sacrifici umani (i profughi annegati o ricacciati nell’inferno libico) per deviare verso un nemico immaginario il malessere che sale dalla pancia della società, per sfogare l’insoddisfazione di quanti sono rimasti senza lavoro, di quanti vedono la loro vita appesa al filo della precarietà, dei giovani che non possono coltivare i loro talenti, e non riescono ad avere più un futuro in cui credere. Poiché le élites politiche che governano i singoli paesi e la stessa Unione Europea non hanno la capacità di far fronte ai problemi reali e di trovare delle risposte da coltivare lungo i sentieri della solidarietà, della eguaglianza, della giustizia e della pace, ecco che si sviluppa la mitologia sostitutiva: tutti uniti per fermare lo straniero. In un’Europa dove, secondo le statistiche, vi sono 75 milioni di poveri, forse il Consiglio Europeo avrebbe fatto meglio a preoccuparsi di questa vera emergenza sociale invece di rinchiudersi nello psicodramma delle frontiere. Contrastare la povertà, invece che offrire ai poveri la soddisfazione di bastonare quelli che sono ancora più poveri.
(dal periodico mensile “koinonia”, n. 7, luglio 2018, p. 41)
IV
ROSELLINA BALBI
Se ciascuno di noi facesse davvero i conti con se stesso, a proposito del razzismo, questo confronto (…) potrebbe rappresentare, se non il principio della fine, almeno la fine del principio.
(da Rosellina Balbi, All’erta siam razzisti, Arnoldo Mondadori Editore, 1990)
V
LUCA CAVALLI SFORZA
“Il razzismo non ha fondamento scientifico”
Il razzismo è l’intolleranza per le persone che sono un po’ diverse da noi. Certo, ci sono differenze visibili, poche e non importanti, come per esempio il colore della pelle, che aiutano a stabilire la diversità. Soprattutto però vi sono differenze di costumi, largamente superficiali, che sono il risultato dell’apprendimento, dipendono dalla società in cui viviamo. Il nostro aspetto del resto coinvolge una frazione relativamente piccola del codice genetico della razza umana. Ecco perché individui che discordano su pochi geni, relativi al colore della pelle per esempio, possono invece avere in comune caratteristiche genetiche molto più complesse, anche se non visibili.
La realtà è che l’educazione è rimasta molto indietro. Bisogna quindi far circolare più cultura. Che tra l’altro determina la diversità umana, più largamente della genetica ed è stata il motore trainante dell’evoluzione.
Be’ l’evoluzione culturale è ciò che realmente differenzia i gruppi umani. Le differenze genetiche tra le popolazioni infatti sono molto modeste. Non c’è stato tempo né motivo per creare grosse differenze genetiche nei 60mila anni in cui una singola, piccola popolazione africana si è diffusa in tutto il mondo. Le grandi differenze sono tra individui mentre quelle tra popolazioni sono una piccola percentuale. Cose superficiali come la forma del corpo, il colore della pelle, che rispondono a necessità ambientali. Ciò che conta quindi non sono le novità biologiche, cioè le mutazioni genetiche, ma le novità culturali, cioè le invenzioni che hanno cambiato profondamente la nostra vita. Ecco perché l’evoluzione culturale determina l’evoluzione genetica.
La cultura è costituita da tutto ciò che può essere appreso: la fabbricazione di utensili, la scrittura, l’arte, le conoscenze scientifiche, il modo di vestire. Cultura è l’accumulo globale di conoscenze e di innovazioni, derivante dalla somma di contributi individuali trasmessi attraverso le generazioni e diffusi al nostro gruppo sociale, che influenza e cambia continuamente la nostra vita. E’ l’elemento differenziante l’uomo da tutti gli altri animali, è la straordinaria quantità di conoscenze accumulate nel corso dei millenni, il cui apprendimento ha contribuito in modo determinante a forgiare il nostro comportamento. Ogni generazione aggiunge qualcosa all’eredità ricevuta. E il presente comprende solo cogliendo nel profondo ogni tappa di questo cammino.
(Risposte di Luca Cavalli Sforza alle domande di Simona Regina, da “Il Piccolo di Trieste” del 28 maggio 2009)
VI
ANDREA STAID
“Siamo tutti meticci?”
L’identità è un problema fondamentale nella vita dell’uomo, tutti ci chiediamo chi siamo noi, chi sono gli altri e perché.
Per antirazzismo meticcio intendo le lotte per uguali diritti nel rispetto delle differenti culture, percorsi da condividere fra uomini e donne delle etnie più diverse. Bisogna avere il coraggio di creare identità mutevoli, in transito, aperte al cambiamento.
Sicuramente nella società post-moderna è molto più facile capire il meticciato, il cosiddetto fenomeno di globalizzazione ha portato con sé diversi mutamenti, non solo sul piano economico, politico, ma anche e soprattutto per ciò che concerne l’aspetto sociale e culturale. Grazie alla mobilità internazionale e quindi alle maggiori possibilità di raggiungere in poco tempo parti diverse del globo e grazie alla naturale propensione dell’uomo a viaggiare con il proprio inseparabile bagaglio culturale, oggi le nostre società sono sempre più, comunità meticce. I panorami sociali, etnici, culturali, politici, ed economici si fanno sempre più confusi e sovrapposti, le linee di confine spezzettate e irregolari.
Da sempre la storia umana è fatta di mescolanze, di culture che migrano, cambiano, che si ibridano. La storia del Mediterraneo è un crogiolo culturale, è la storia di millenni di migrazioni, sotto forma di invasioni, conquiste, scontri, persecuzioni, massacri, saccheggi e deportazioni, ma anche di scambi, confronti, trasformazioni reciproche di popoli, persino durante i conflitti. La differenza, rispetto al passato, è che oggi il fenomeno della «mescolanza» ha assunto proporzioni planetarie. L’accelerazione e l’espansione dei flussi migratori ha come effetto la globalizzazione degli incontri-scontri tra le culture. Questo richiede uno sforzo di analisi, dal momento che rappresenta la congiuntura epocale che determina la specificità dei processi di meticciato con cui oggi abbiamo a che fare.
Per costruire la mia ricerca sono partito da una constatazione: i migranti sono umani al di là delle appartenenze, quindi mi stupirebbe se non si creasse sfruttamento tra di loro. E’ proprio pensarli come qualcosa di diverso da «noi» che crea il razzismo. La domanda che dovremmo porci è perché ci stupiamo se si creano reti di dominio tra migranti e non ci stupiamo di secoli di relazioni di dominio nella nostra società?
La mia speranza è quella di un mondo che sappia accogliere, ascoltare e capire le differenze e che tali differenze culturali diventino la ricchezza della società. Non dobbiamo assolutizzare mai l’identità culturale, ma fare in modo che le proprie diverse espressioni identitarie siano filtrate alla luce della libertà e dell’autonomia propria e di ogni altro essere umano. Prefigurare dunque un mondo aperto, senza muri e pregiudizi, pronto al mescolamento culturale per un divenire quel luogo dove l’unica patria sia il mondo intero, con al suo interno una miriade di culture differenti pronte al cambiamento, all’ascolto e all’incontro. La creazione di una relazione sociale tesa a soddisfare un’esigenza, un interesse, dove sia importante accettare di trasformarsi nell’interazione egualitaria con gli altri e prevedere la possibilità di diventare una persona anche molto differente da quella originaria. Un mondo di eguali per diritti ma differenti per culture, una società di donne e uomini liberi di creare la loro specificità culturale.
VII
DON LORENZO MILANI
“Lettera ai cappellani militari toscani che hanno sottoscritto il comunicato dell’11 febbraio 1965”
Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni.
Se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri.
VIII
CICERONE
La storia è testimonianza del passato, luce di verità, vita della memoria, maestra di vita, annunciatrice dei tempi antichi.
(Cicerone, De oratore, II, 9)
IX
CARLO CASSOLA
“La lezione della storia”
La principale lezione della storia è che fatti chiarissimi per i posteri sono ignorati da chi si trova a viverli. In altre parole, la principale lezione della storia è la cecità dei contemporanei.
Lo dice anche Hegel che i contemporanei non possono avere intelligenza di quello che succede. Ma lo dice per scoraggiare le critiche ai governanti, i quali sarebbero sorretti da una misteriosa intelligenza universale, che opererebbe per il loro tramite.
Purtroppo questa misteriosa intelligenza universale è una balla. Dico purtroppo, perché sarebbe magnifico che ci fosse. Potremmo lasciar fare a lei, o lasciar fare ai politici, che è lo stesso. Le cose, invece, dobbiamo farcele da noi, se vogliamo che siano fatte bene: nessuno può farle invece nostra. Non ci resta dunque che smettere di essere ciechi.
Nell’archivio del passato, non ci sono esempi di catastrofi totali. A parte il mitico diluvio universale, che tuttavia non fu una catastrofe totale, se Noè si salvò e poté ripopolare la terra.
Non sempre, dunque, la storia può esserci maestra di vita: ogni tanto càpita anche qualcosa di nuovo. Il 6 agosto 1945 è appunto capitato qualcosa di radicalmente nuovo, che ha cambiato la stessa condizione umana: al punto da far pensare che sia finita un’epoca nella vicenda umana (la storia) e ne sia cominciata un’altra (l’era atomica).
(Carlo Cassola, La lezione della storia, Rizzoli Editore, Milano, 1978)
X
YOLANDE MUKAGASANA
“L’Europa ha dimenticato il 1945”
Ho visto la sofferenza a Pistoia. Ho visto la sofferenza dei giovani africani neri.
… L’Europa ha dimenticato molto rapidamente il 1945: è quello che ho potuto constatare. Altrimenti non avrei visto con i miei occhi delle lettere anonime, di cui una con la croce uncinata e che dice testualmente «noi vi stermineremo».
Questo mi ricorda il mio paese, il Rwanda del 1994.
… Come può mai accadere che l’odio oscuri la nostra intelligenza?
… Il mondo si perde senza saperlo, non c’è migliore assicurazione-vita della solidarietà.
Il mondo occidentale non ha ancora capito che ogni umano è prima di tutto Africano. Il mondo non ha ancora capito che il futuro del mondo è la terra dei suoi antenati, l’Africa.
(Yolande Mukagasana, “L’Europa ha dimenticato il 1945”, nel bimestrale “qualevita”, n. 176, aprile 2018)
XI
PAPA FRANCESCO
Le migrazioni sono sempre esistite nella tradizione giudeo-cristiana, la storia della salvezza è essenzialmente storia di migrazioni. La libertà di movimento, come quella di lasciare il proprio Paese e di farvi ritorno appartiene ai diritti fondamentali dell’uomo. Occorre dunque uscire da una diffusa retorica sull’argomento e partire dalla considerazione essenziale che davanti a noi ci sono anzitutto PERSONE.
(dal bimestrale “qualevita”, n. 176, aprile 2018)
XII
ALDO CAPITINI
“La forza preziosa dei piccoli gruppi”
… le frontiere vanno superate, e la parola “straniero” è da considerare come appartenente al passato. Ogni comunità vive nell’orizzonte di tutti, e perciò non è troppo grande, ed è collegata con le altre federativamente. Ma se vi sono spostamenti di genti, esse non sono da sterminare, ma da accogliere, tenendo pronte strutture e provvedimenti che rendano possibile questa apertura.
Perugia, 6 ottobre 1968
(Aldo Capitini, Il potere di tutti, La Nuova Italia, 1969, p. 446)
XIII
CARLA FALCONI
“Le chiamavano invasioni barbariche”
A scuola, ai tempi di quelli che oggi hanno circa 50 anni, in quarta elementare si studiavano le invasioni barbariche. Era la storia di popolazioni che dalle fredde steppe dell’Europa dell’Est si spostavano verso i confini di un impero romano ormai fiacco e indebolito dal peso dei suoi stessi secoli di storia.
Migravano, si spostavano, alla ricerca di nuove terre. Alcuni storici, rimasti inascoltati da quelli che scrivono i libri per le elementari, hanno dimostrato che non si trattò tanto di vere e proprie invasioni barbariche ma di migrazioni barbariche (il termine usato dagli studiosi tedeschi per chi non si fidasse è volkerwanderung, migrazioni di popoli) ed è forse in memoria di queste invasioni sepolte nei sussidiari che qualcuno agita lo spettro di quelle orde che per tre secoli (dal 166 al 476) attraversano quello che noi sentiamo come la nostra parte di mondo.
Andrebbe spiegato che la storia del mondo è la storia di persone che si muovono, che si spostano, che si incontrano o si scontrano, che i confini geografici sono solo una convenzione. Che la storia li cambia o comunque li oltrepassa.
Le ex-invasioni barbariche, lette come un episodio della millenaria storia euro-asiatica o come l’incontro-scontro tra sedentari e nomadi spinti da ragioni di carattere climatico-demografico-economico, furono infatti solo una parte di quel fenomeno molto più grande delle migrazioni barbariche che contribuirono a costruire il mondo romano germanico che è alla base dell’Europa di oggi, anche l’Europa di Victor Orban e di tutti quelli che come lui credono che basterà costruire barricate di filo spinato.
Dal Nordafrica e dall’Asia i migranti si sono messi in cammino da un ventennio e continueranno per altri venti anni e non sarà né uno scontro tra civiltà né una guerra tra ricchi e poveri, ma piuttosto l’incontro di due tipi di disperazione: quella di un’Europa spaventata e decadente che vede crollare le sue certezze economiche e sociali e quella dei migranti disposti a rischiare la vita nella stiva di un barcone pur di arrivare. Noi e loro siamo impegnati nella stessa lotta per la sopravvivenza.
Noi preoccupati di perdere ciò che abbiamo ottenuto fino ad oggi, loro decisi ad avere ciò che non hanno mai avuto. Nessuno sa davvero cosa accadrà. Ma loro continueranno ad arrivare. Annegheranno in mare, cadranno lungo le rotte del loro cammino, verranno sfruttati nei nostri campi o nelle nostre fabbriche, troveranno accoglienza, casa, lavoro, metteranno radici, faranno fortuna, non torneranno più indietro, molti si perderanno lungo il faticoso cammino dell’integrazione ma la storia da sempre funziona così: senza troppe certezze.
L’unica certezza è rappresentata dagli obiettivi e la forza disperata con cui i migranti attraversano quello che noi consideriamo il “nostro” mare e la “nostra” Europa, dimostra che loro possiedono ancora quella speranza che noi abbiamo dimenticato. Ecco loro ci insegnano la speranza, noi chissà.
(Carla Falconi, HUFFPOST, IL BLOG, 01-010-2015)
XIV
JOHN FITZGERALD KENNEDY
“Io sono un immigrato”
L’11 maggio 1831 Tocqueville, giovane aristocratico francese, sbarcò nel caotico porto di New York. Aveva attraversato l’oceano per cercare di capire le implicazioni che il nuovo esperimento democratico in corso sulla sponda opposta dell’Atlantico avrebbe avuto sulla civiltà europea. Per i successivi nove mesi, Tocqueville e il suo amico Gustave de Beaumont percorsero in lungo e in largo la parte orientale del continente, da Boston a Green Bay, da New Orleans fino al Québec, alla ricerca dell’essenza della società americana.
In poco più di 350 anni, si è sviluppata una nazione di quasi 200 milioni di abitanti, popolata per la quasi totalità da individui provenienti da altre nazioni o i cui antenati erano emigrati da altri paesi. Come ha dichiarato il presidente Franklin Delano Roosevelt al congresso delle Daughters of the American Revolution: «Ricordate sempre che tutti noi, io e voi in special modo, discendiamo da immigrati e rivoluzionari».
Tutti i grandi movimenti sociali lasciano un’impronta, e la massiccia migrazione di persone nel Nuovo mondo non ha fatto eccezione. L’interazione tra culture differenti, la forza degli ideali che spinsero gli immigrati a venire fin qui, le opportunità che una nuova vita schiudeva, tutto ciò ha conferito all’America un’essenza e un carattere che la rendono inconfondibile e straordinaria agli occhi della gente oggi, come era stato nella prima metà del Diciannovesimo secolo per Tocqueville.
Il contributo degli immigrati è visibile in ogni aspetto della vita della nostra nazione: nella religione, nella politica, negli affari, nelle arti, nell’istruzione, perfino nello sport e nello spettacolo. Non vi è settore che non sia stato investito dal nostro passato di immigrati. Ovunque gli immigrati hanno arricchito e rafforzato il tessuto della vita americana. Come ha detto Walt Whitman:
  • Questi Stati sono il poema più ampio, /
  • Qui non vi è solo una nazione ma /
  • una brulicante Nazione di nazioni.
Per conoscere l’America, dunque, è necessario comprendere questa rivoluzione sociale squisitamente americana. E’ necessario capire perché più di 42 milioni di persone hanno rinunciato a una vita consolidata per ricominciare da zero in un paese straniero. Dobbiamo capire in che modo essi andarono incontro a questo paese e in che modo questo paese andò incontro a loro e, cosa ancor più importante, dobbiamo capire cosa implica tutto ciò per il nostro presente e per il nostro futuro.
Sul finire del Diciannovesimo secolo l’emigrazione verso l’America subì un cambiamento notevole. Cominciarono infatti ad arrivare, in gran numero, italiani, russi, polacchi, cechi, ungheresi, rumeni, bulgari, austriaci e greci, creando nuovi problemi e dando origine a nuove tensioni.
Le leggi sull’immigrazione dovrebbero essere generose, dovrebbero essere eque, dovrebbero essere flessibili. Con leggi siffatte potremo guardare al mondo, e al nostro passato, con le mani pulite e la coscienza tranquilla. Una tale politica non sarebbe che una conferma dei nostri antichi principi. Esprimerebbe la nostra adesione alle parole di George Washington: «Il grembo dell’America è pronto ad accogliere non solo lo straniero ricco e rispettabile, ma anche gli oppressi e i perseguitati di ogni nazione e religione; a costoro dovremmo garantire la partecipazione ai nostri diritti e privilegi, se con la loro moralità e condotta decorosa si mostrano degni di goderne».
(da “la Repubblica”, 30.08.2009 – Il testo è inserito nel libro La nuova frontiera, Donzelli Editore
2009)
XV
BERTOLT BRECHT
“Della qualifica di emigrante”
Sempre mi è parso erroneo il nome che ci han dato: emigranti.
Questo significa: espatriati. Ma noi
non siamo espatriati volontariamente
altro paese scegliendo. E nemmeno siamo espatriati
in un paese, per restarvi, possibilmente per sempre.
Siamo fuggiti, invece. Espulsi noi siamo, banditi.
E non casa, ma esilio dev’essere il paese che ci ha accolti.
Così, inquieti, prendiamo stanza, se possibile presso ai confini,
aspettando il giorno del ritorno, qualsiasi minimo cambiamento
oltre il confine spiando, ogni nuovo venuto
febbrilmente interrogando, nulla dimenticando e a nulla
rinunciando
e neanche perdonando nulla di quel che è successo, nulla
perdonando.
Ah, il silenzio del Sund non ci inganna! Noi udiamo le grida,
fin qui, dai loro campi. Noi stessi siamo
quasi come voci dei misfatti, che varchino
i confini. Ognuno di noi
che va attraverso la folla con le sue scarpe consunte
testimonia della vergogna che ora macchia il nostro paese.
Ma nessuno di noi
rimarrà qui. L’ultima parola
non è stata detta ancora.
(1937)
(Bertolt Brecht, Poesie e canzoni, Einaudi Editore, 1961, p. 135)
XVI
“La contenibile ascesa di Arturo Ui”
E voi, imparate che occorre vedere
e non guardare in aria; occorre agire
e non parlare. Questo mostro stava,
una volta, per governare il mondo!
I popoli lo spensero, ma ora
non cantiamo vittoria troppo presto:
il grembo da cui nacque è ancor fecondo.
(Bertolt Brecht, Teatro, Einaudi Editore, 1975, vol. III, Epilogo, p. 1878)
XVII
ANNA FRANK
“Diario”
Mercoledì, 3 maggio 1944
Cara Kitty,
[…]
Come ben ti puoi immaginare, qui dicono sovente, disperati: - A che cosa serve mai la guerra? Perché gli uomini non possono vivere in pace? Perché devastare tutto?
La domanda è comprensibile, ma finora nessuno ha ancora trovato una risposta soddisfacente. […] Perché si spendono ogni giorno milioni per la guerra e nemmeno un centesimo per l’assistenza medica, per gli artisti, per i poveri?
Perché gli uomini debbono soffrire la fame, quando in altre parti del mondo si lasciano marcire i cibi sovrabbondanti? Perché gli uomini sono così pazzi?
Non credo affatto che la guerra sia soltanto colpa dei grandi uomini, dei governanti e dei capitalisti. No, la piccola gente la fa altrettanto volentieri, altrimenti i popoli si sarebbero rivoltati da tempo. C’è negli uomini un impulso alla distruzione, alla strage, all’assassinio, alla furia, e fino a quando tutta l’umanità, senza eccezioni, non avrà subito una grande metamorfosi, la guerra imperverserà: tutto ciò che è stato ricostruito o coltivato sarà distrutto e rovinato di nuovo; e l’umanità dovrà ricominciare da capo.
Sono stata sovente abbattuta, ma mai disperata; considero questa vita clandestina come una avventura pericolosa, ma romantica e interessante. Mi consolo delle privazioni divertendomi a descriverle nel mio diario. Mi sono proposta di condurre una vita differente da quella delle altre ragazze e, più tardi, da quella delle solite donne di casa. Questo è il bell’inizio della vita interessante; e perciò, perciò soltanto, nei momenti più pericolosi, debbo ridere del lato umoristico della situazione.
Sono giovane e posseggo molte virtù ancora nascoste, sono giovane e forte e vivo questa grande avventura, ci sono in mezzo e non posso passar la giornata a lamentarmi. La natura mi ha favorito dandomi un carattere felice, gioviale ed energico. Ogni giorno sento che la mia mente matura, che la liberazione si avvicina, che la natura è bella, che la gente attorno a me è buona, che quest’avventura è interessante. Perché dunque dovrei disperarmi?
La tua Anna
Sabato, 15 luglio 1944
Cara Kitty,
[…] E’ un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto si volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno l’ordine, la pace e la serenità.
Intanto debbo conservare intatti i miei ideali verrà un tempo in cui saranno forse ancora attuabili.
La tua Anna
(da Anna Frank, Diario, l’Unità - Einaudi, 1992, pp. 228-229, 268-269)
XVIII
LILIANA SEGRE
“La vita è stupenda”
Noi testimoni della Shoah stiamo morendo tutti, ormai siamo rimasti pochissimi, le dita di una mano, e quando saremo morti proprio tutti, il mare si chiuderà completamente sopra di noi nell’indifferenza e nella dimenticanza. Come si sta adesso facendo con quei corpi che annegano per cercare la libertà e nessuno più di tanto se ne occupa. Io – devo dire la verità – ho voluto sempre vivere ma non sono in vita perché ho voluto vivere dal momento che tutti volevano vivere. La spinta a vivere è connaturata in noi. Da quando usciamo da quell’utero gridando, fino all’ultimo momento della vita, uno è in vita. E io a questi ragazzi a cui parlo regolarmente dico sempre: ‘Ragazzi la vita è stupenda. Amate la vita e non perdete un minuto di questa vita, che la vita non è solo l’orrore di Auschwitz per fortuna, perché se no non si chiamerebbe vita e infatti quella si chiamava morte’. La vita può avere dei risvolti stupendi. La spinta che c’è dentro ogni essere umano alla vita è grandissimo. E’ come il girasole che si volta verso il sole e lo cerca: è la natura che glielo dice.
(dal bimestrale “qualevita”, n. 176, aprile 2018, p. 6)
XIX
ERNESTO BALDUCCI
“Storia del pensiero umano”
Come è possibile trasmettere nella scuola la porzione più preziosa dell’eredità culturale del passato, quella filosofica, senza che questo significhi rendere un servizio all’eurocentrismo, che è stato la premessa ideologica di tanti crimini compiuti in nome della civiltà? Non esiste, infatti, soltanto un razzismo etnologico, esiste, come suo risvolto latente, un razzismo intellettuale, che consiste nella identificazione, teorica o pratica, tra il pensiero occidentale e il pensiero senza aggettivi.
Si continua ad insegnare la filosofia, perfino nelle università e a pubblicare storie della filosofia col sottinteso che altre filosofie non si danno se non quella nata sulle sponde della Ionia e giunta a piena maturazione nello spazio euroatlantico.
«L’autentica filosofia comincia in occidente. Solo in occidente nasce la libertà dell’autocoscienza, la coscienza naturale tramonta e quindi lo spirito si approfondisce in se stesso. Nel fasto dell’oriente l’individuo scompare, solo in occidente la luce diviene lampo del pensiero che penetra in se stesso e ivi si crea il suo mondo».
So bene che nessuno, oggi, se la sentirebbe di ripetere questa perentoria sentenza di Georg Hegel. E tuttavia il pregiudizio che fuori dei confini occidentali il pensiero sia rimasto immobilizzato nella ‘coscienza naturale’, e sia restato perciò alle soglie della filosofia, permane. Per rendersene conto basta sfogliare un qualsiasi manuale, compresi quei rari che gettano qualche benevolo sguardo oltre i confini della mappa filosofica disegnata da Hegel. Anzi, basta percorrere i programmi ministeriali, che sono ancora quelli dell’hegeliano Giovanni Gentile.
Se ho voluto precisare che il pensiero di cui ho tentato di scrivere la storia è il ‘pensiero umano’, è appunto per richiamare subito alla mente che il soggetto di tutta la storia è l’uomo pensante, quale che sia la civiltà a cui appartiene, purché abbia lasciato documenti del suo pensiero e purché abbia assunto a tema delle sue riflessioni le grandi questioni dell’esistenza, quelle che di loro natura appartengono all’ambito della filosofia.
Non che mi sia stato possibile rispondere in pieno a questa intenzione storiografica. A parte i miei limiti di competenza, me lo impediva l’obbligo di rispettare nella loro sostanza le prescrizioni dei programmi ministeriali. Sono convinto comunque che, anche se relativa, la mia «trasgressione» ha un suo importante valore didattico: può servire a dare agli alunni la percezione che il primo peccato contro la ragione è di ritenere che i diversi da noi non hanno l’uso di ragione e di trascurare il fatto che quella dell’homo sapiens è davvero una storia unitaria, fin dalle sue origini. Le nuove generazioni, che si avviano a vivere la loro esistenza privata e pubblica in una dimensione planetaria, hanno il diritto di essere preparate dalla scuola a questo compito, nuovissimo, ma insieme già inscritto nella storia della specie, prima che avesse inizio la vicenda delle «egemonie culturali» a base etnocentrica.
Fiesole, 1 gennaio 1986
(Ernesto Balducci, Storia del pensiero umano, vol. 1, Prefazione, Edizioni Cremonese, 1986)
XX
ERRI DE LUCA
“Preghiera laica” al Mediterraneo
Mare nostro che non sei nei cieli
e abbracci i confini dell’isola e del mondo
sia benedetto il tuo sale
sia benedetto il tuo fondale
accogli le gremite imbarcazioni
senza una strada sopra le tue onde
i pescatori usciti nella notte
le loro reti tra le tue creature
che tornano al mattino
con la pesca dei naufraghi salvati
Mare nostro che non sei nei cieli
all’alba sei colore del frumento
al tramonto dell’uva di vendemmia,
Ti abbiamo seminato di annegati
più di qualunque età delle tempeste
tu sei più giusto della terra ferma
pure quando sollevi onde a muraglia
poi le abbassi a tappeto
Custodisci le vite, le visite cadute
come foglie sul viale
Fai da autunno per loro
da carezza, da abbraccio, da bacio in fronte
di padre e madre prima di partire
(da: stranieriinitalia.it)
***
APPENDICE
MARIO GOZZINI
“L’uomo inedito”
(sul libro di ERNESTO BALDUCCI, La terra del tramonto. Saggio sulla transizione, Edizioni Cultura della Pace, Firenze 1992)
***
Il libro di Balducci non è semplicemente un richiamo di forte passione civile alla coscienza della devastazione, di quell’eccidio prolungato e feroce che sormonta, almeno sotto il profilo quantitativo, lo sterminio nazista degli ebrei. Il libro è soprattutto la ricerca e l’analisi delle cause profonde dell’eccidio, della incapacità radicale dimostrata dall’uomo occidentale a stabilire con l’altro, con l’indio, un rapporto dialettico fra diversi, destinato ad un arricchimento reciproco e non a sottostare al dilemma violento cui l’uomo occidentale non riuscì a sottrarsi, il diverso o si assimila e diventa come noi o va annientato.
… il tema generale del libro, che ha per sottotitolo Saggio sulla transizione, è il processo ideale, culturale, sociopsicologico all’Occidente irretito nella presunzione del proprio primato e nella indebita estrapolazione (ed esportazione) universalistica della propria (presunta) civiltà. Il sottotitolo […] esprime efficacemente il sottotema del tema principale, o noi riusciamo a varcare le colonne d’Ercole della cultura cui siamo storicamente, anzi geneticamente legati – la cultura etnocentrica del dominio: l’uomo ha senso in quanto domina gli altri e la natura -, e ci apriamo a un rapporto con gli altri, i diversi, più disponibile a ricevere, più, in una parola, reciproco, o altrimenti siamo destinati a soccombere, a essere sopraffatti, in ultima analisi a sparire. La “transizione”, in quel modo intesa, è l’alternativa possibile alla catastrofe.
[…] Balducci avanza una metafora di grande suggestione e di alta provenienza, dalla mistica medievale a Ernst Bloch, metafora che potremmo anche assumere come suo testamento spirituale, come il messaggio ultimo che ci ha lasciato: la distinzione fra “uomo edito” e “uomo inedito”. Una distinzione che si potrebbe anche tradurre, in linguaggio teologico contemporaneo, nel modo seguente: il già e il non ancora. Il già, l’uomo edito è la presunzione che il patrimonio culturale di cui si dispone sia l’ultima spiaggia, una realizzazione compiuta e non oltrepassabile, donde l’aggressività per il diverso (il barbaro, il selvaggio) e il disprezzo reciproco fra le culture, ciascuna delle quali si illude di conoscere e rappresentare l’essenza umana. Il non ancora, l’uomo inedito è la relativizzazione, fino alla scomparsa, di quel presumere, di quell’illudersi, di quell’aggressività; è la disponibilità al nuovo nella reciprocità del rapporto con le altre culture, è la speranza nella reciproca fecondazione fra noi e loro.
E’ chiaro che si tratta di due poli dialettici e che la massima responsabilità negativa è quella di irrigidirsi sul primo polo come l’unico possibile, chiudendosi ad ogni possibilità ulteriore: responsabilità, appunto, in qualche modo catastrofica o apocalittica.
[…] Il libro potrebbe avere per sottotitolo anche quest’altro: “Saggio sulla crisi della modernità”. Va disgregandosi “l’autocoscienza che abilitava l’uomo occidentale a narrare la propria storia come fosse la Storia e a trapiantare ovunque le sue istituzioni come se fossero il punto d’arrivo prestabilito per ogni essere razionale”.
Crisi in quanto “il destino singolare della modernità si manifesta nel presentimento di non avere dopo di sé un’altra epoca come quelle che, in prospettiva occidentale, sono venute dopo l’antichità greco-romana e dopo il medioevo”.
Crisi perché siamo pervenuti a un punto aporetico “il cui segno è l’impossibilità, scientificamente dimostrata, di estendere a tutti gli uomini il modello di vita portato a compimento dalla modernità”.
Così Balducci formula l’antinomia del vicolo cieco in cui ci troviamo: “la cultura dell’uomo moderno è universale perché di tappa in tappa ha maturato frutti che sono per tutti gli uomini; la cultura moderna non è universale perché la sua diffusione ha portato con sé la negazione, spesso violenta, delle altre culture.
(da “L’Indice”- Giugno1992- N. 6, pag. 4)
***
A cura di Raffaello Saffioti
Centro Gandhi – PALMI
raffaello.saffioti@gmail.com

NOTE
[1] JOHN DEWEY, Democrazia e educazione, La Nuova Italia Editrice, Scandicci (Firenze), 1992.
[2] Da segnalare: ALDO CAPITINI, Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli, Milano, 1967.
[3] Da segnalare: MARTIN LUTHER KING, Il fronte della coscienza, SEI, Torino, 1968.



Martedì 31 Luglio,2018 Ore: 12:06
 
 
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