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www.ildialogo.org GLI ANNI DI PIOMBO,di Giovanni Sarubbi

Editoriali
GLI ANNI DI PIOMBO

di Giovanni Sarubbi

Ho raccolto qui i miei “buongiorno quotidiani” sull'argomento degli anni di piombo che ho pubblicato dal 20 al 25 novembre scorso e a cui ho aggiunto l'ultima parte su Antonio Annarumma, la giovane guardia di PS uccisa a Milano il 19 novembre 1969. Ho scritto questo ultimo pezzo dopo aver partecipato lo scorso venerdì 29 novembre 2019 ad un convegno promosso dal comune di Monteforte Irpino per celebrare la figura di Antonio Annarumma che in questo comune è nato. Erano presenti tra l'altro l'ex prefetto Achille Serra che era a Milano proprio il 19 dicembre del 1969. A lui ho posto le questioni che sollevo nella ultima parte di questo articolo. Nessuno ha potuto smentire quello che io ho affermato. Alla fine salutando il prefetto Serra gli ho ricordato che "noi anziani abbiamo il dovere della verità". Ed è questo lo spirito con cui propongo ai lettori de "il dialogo" questa riflessione sugli anni di piombo. Grazie e buon lettura (G.S.)
Giovanni Sarubbi
N
egli anni ‘60 e ‘70 non era facile partecipare ad una qualsiasi manifestazione politica o sindacale che fosse. Ricordo il mio primo sciopero. Anno scolastico 1966-1967. Avevo 15 anni. Frequentavo la II classe di un istituto tecnico in quel di San Giorgio a Cremano(NA). Scioperammo contro l’abolizione degli esami di riparazione a settembre. Sciopero spontaneo, senza preavviso. Facemmo un corteo attraversando tutta la città. Come dal nulla comparvero i poliziotti. Mi sembrarono una moltitudine. Non ne avevo mai visto nessuno ed erano armati come per andare alla guerra. Ci circondarono e ci costrinsero a disperderci quando giungemmo davanti alla “Caserma Cavalleri” sede della Scuola Specializzati Trasmissioni di San Giorgio a Cremano. Eravamo ragazzi e non opponemmo resistenza. Io e altri due ragazzi che eravamo i più attivi alla testa del corteo, fummo presi e identificati. Ci portarono al provveditorato dove ci sottoposero ad una sorta di interrogatorio. Volevano sapere le ragioni del nostro protestare. Ricordo il mio sconforto. Non capivo il perché di tutto quello che ci stava capitando. Lo capii nei giorni successivi quando mio padre fu chiamato dai poliziotti che gli raccontarono quello che io avevo fatto. Volevano intimidirmi e costringermi a “rigare dritto”. Tutto sommato il mio primo impatto con la polizia non fu violento. Non andò bene ad altri studenti in altri luoghi della provincia di Napoli che furono brutalmente caricati e dispersi.
 

 
LA POLIZIA DI SCELBA
Con “anni di piombo” si indica il periodo storico compreso tra il 1969 e il 1984 caratterizzato da scontri di piazza e terrorismo. In realtà gli “anni di piombo” iniziarono con la strage di Portella della Ginestra del 1° Maggio 1947, 38 vittime, tutti contadini poveri, 11 morti fra cui una bambina di 8 anni e 27 feriti. È in quegli anni, sotto la guida del ministro dell’Interno Mario Scelba, che prende corpo una gestione dell’ordine pubblico concepita come una guerra contro chiunque desse vita a manifestazioni politiche o sindacali. Fu Scelba, chiamato a capo del Ministero dell’Interno agli inizi del 1947, a creare il “reparto celere” fortemente ideologizzato in cui si implementava la mistica dell’ordine. I reparti della Celere vennero concentrati nelle regioni cosiddette “rosse” e nelle città industriali, nella capitale e nelle zone calde del conflitto sociale. Nel 1947 iniziò la “Guerra Fredda” voluta dal presidente USA Harry Truman, quello che aveva deciso il bombardamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki. Comunisti e socialisti furono cacciati dal Governo guidato da De Gasperi. E Scelba cacciò tutti i partigiani dalla polizia che, secondo le sue parole, non avrebbero accettato “quella inflessibile determinazione che avrebbe reso necessaria la possibilità di sparare”. Sparare sulle folle inermi o caricarle con le camionette o i gipponi lanciati a tutta velocità sulla folla. Ed è quello che avvenne più e più volte a Genova e a Reggio Emilia nel 1960 e negli anni successivi.
 

 
ERA COME UNA GUERRA
Negli anni ‘60 quando partecipavi ad una manifestazione ti rendevi conto immediatamente di essere in guerra. I reparti celere facevano impressione. Erano lì per menare e anche per sparare, come aveva scritto Scelba. E se vieni caricato se puoi scappi o se costretto ti difendi. Ed è lo Stato che aveva dichiarato guerra ai suoi cittadini rei soltanto di chiedere lavoro, case, ospedali, trasporti pubblici. E finché ci sarà sfruttamento del lavoro, ci saranno scioperi e manifestazioni che non possono essere represse a prescindere. Eppure questo era ciò che accadeva nei cosiddetti “anni di piombo”. Eravamo in guerra e non lo sapevamo. E le cariche si facevano con le camionette o i gipponi lanciati a tutta velocità contro i cortei nei cosiddetti “caroselli di Scelba”, dal nome del ministro degli interni che li ideò.
A bordo c’erano giovani del sud, disoccupati che si erano arruolati in quello che era un corpo militare addestrato per fare la guerra alle manifestazioni di piazza. E quando qualcuno di essi, nel corso di queste vere e proprie azioni di guerra, veniva ferito o ucciso li si trasformava in eroi o martiri. Ma loro cercavano solo un lavoro e uno stipendio fisso che gli consentisse di mettere su casa. Non sapevano nulla di eroismo o martirio. Mandati alla guerra e a morire per combattere contro povera gente, come erano loro stessi, che lottavano per la casa per salari degni di un vivere civile, per i servizi pubblici essenziali. Ed è lo Stato il responsabile di quei morti.

 
I FATTI DI GENOVA DEL 1960
Il 1960 è l’anno dei 4 mesi di governo del democristiano Tambroni appoggiato dai fascisti del Movimento Sociale Italiano(MSI), diretti eredi del nazifascismo, che sono fuorilegge per la Costituzione. Nel mese di maggio il MSI convocò provocatoriamente il suo congresso nella città di Genova, medaglia d’oro della Resistenza, fieramente antifascista, con tantissimi partigiani e operai assassinati e deportati. La notizia scatenò l’indignazione dei genovesi. Migliaia di giovani, che la stampa etichettò come “i ragazzi con le magliette a strisce” per il tipo di maglietta che decisero di indossare, diedero vita a imponenti manifestazioni antifasciste che da Genova si estesero in tutta Italia. Grandi manifestazioni pacifiche che furono represse violentemente dalle forze di polizia. Ci furono scontri a Roma, Reggio Emilia, Catania, Palermo, Parma, Modena e Napoli. 11 gli operai e i contadini uccisi dalla polizia, migliaia i feriti, centinaia gli arrestati. Feriti e picchiati anche alcuni deputati davanti al Parlamento. Un contadino ucciso il 5 luglio a Licata; 5 operai uccisi il 7 luglio a Reggio Emilia; un giovane disoccupato massacrato a manganellate l’8 luglio a Catania e altri 4 morti a Palermo. A sostegno di questi ragazzi, la cui iniziativa colse di sorpresa gli stessi partiti di sinistra PCI e PSI, scesero in piazza tutti i vecchi partigiani a cominciare da Sandro Pertini che tenne a Genova un discorso memorabile(Leggilo qui). E vinsero. Il congresso del MSI non si tenne e il governo Tambroni si dimise il 19 Luglio.

Pertini a Genova il 28 giugno 1960
LA REPRESSIONE DEL MOVIMENTO SINDACALE
Dal 1947 al 1981, anno della smilitarizzazione, la polizia in Italia è stata quella che gli storici hanno chiamato «La tutela a mano armata del capitale sul lavoro». Era finalizzata ad impedire qualsiasi manifestazione sindacale. Ricordiamo la strage di Melissa in Calabria del 1949 quando nel corso di occupazioni di terre la polizia uccise tre persone. Il 9 gennaio 1950 a Modena la polizia sparò sugli operai in sciopero uccidendone 6. In Sicilia ad Adrano venne ucciso Girolamo Rosano nel gennaio del 1951; nello stesso mese a Piana degli Albanesi la polizia uccise Damiano Lo Greco; a Comiso, un edile, Paolo Vitale, venne ucciso dalla polizia nel 1956 nel corso di uno sciopero. Nessuno è mai stato condannato per queste morti.(Per un elenco completo vedi link)
Ma non c’era solo questo. C’era anche chi nei servizi segreti pianificava quella che poi sarebbe diventata la “strategia della tensione”. «Bisogna creare gruppi di attivisti, di giovani, di squadre che possono usare tutti i sistemi, anche quelli non ortodossi, della intimidazione, della minaccia, del ricatto, della lotta di piazza, dell’assalto, del sabotaggio, del terrorismo».
Sono le parole che il 12 settembre 1963 il colonnello Renzo Rocca, responsabile dell’Ufficio Rei del Sifar (il Servizio segreto militare), inviò al generale Giovanni Allavena (il cui nome era nelle liste della P2) allora capo del reparto D (controspionaggio) del Servizio. E nel 1964 ci fu il tentato golpe del generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo.


 
IL FASCISMO NON È MAI MORTO

Per i primi trent’anni della nostra repubblica abbiamo dovuto contrastare il fascismo che in tutti i modi tentava di ritornare al potere. La Costituzione antifascista era appena entrata in vigore il 1 gennaio 1948 e dopo appena un mese ci furono i primi morti per mano della polizia di Scelba e dei fascisti in Puglia. 83 morti fra operai e contadini furono il risultato della repressione poliziesca dal 1948 al 1950. E poi nel 1953 si cercò di stravolgere la Costituzione con una legge elettorale maggioritaria, la cosiddetta “legge truffa”, un facsimile di quella fascista. E poi il governo Tambroni e il tentato golpe del 1964. Centinaia di migliaia di giovani hanno sconfitto quei tentativi e hanno difeso la Costituzione.
Ma l’attacco alla democrazia è continuato con le stragi, a cominciare da quella di Piazza Fontana e poi col terrorismo. Stragi di Stato sono state definite, per la complicità riscontrata fra i servizi segreti e i fascisti che le hanno realizzate. Si voleva impedire che i principi sociali della nostra Costituzione potessero trovare attuazione sotto la spinta del grande movimento di massa mondiale del periodo 1968-1969. Ed è sempre istruttivo ed illuminante leggere la famosa intervista di Kossiga del 2008 che racconta chi è stato il responsabile degli anni di piombo e di tutti i morti che hanno insanguinato le nostre città (vedi link). "Le bombe nelle piazze, le bombe nei vagoni, le mettono i fascisti, le pagano i padroni", diceva una vecchia canzone di quel periodo. E si continua ancora su quella strada. Noi non dimentichiamo.
LA MORTE DI ANTONIO ANNARUMMA
La morte di Antonio Annarumma, guardia di PS, avvenne a Milano il 19 novembre del 1969. È considerato il primo morto degli anni di piombo ma in realtà, come abbiamo visto non è così.
Le vicende di quel giorno non sono mai state chiarite fino in fondo. Per capire le responsabilità di quella morte, ma anche il ferimento di 55 agenti di PS e di 5 carabinieri, oltre che di un numero imprecisato di manifestanti, dobbiamo partire dalla sentenza del tribunale di Milano che giudicò gli 11 arrestati fra i manifestanti di via Larga a Milano dove morì Antonio Annarumma.
Tutti gli imputati, nessuno dei quali era imputato di omicidio, sono stati assolti dall'accusa di radunata sedizione perché "il fatto non sussiste". 5 di loro furono condannati per oltraggio a pubblico ufficiale e altri 6 furono assolti per lo stesso reato.
La sentenza della magistratura milanese dice che a Milano quel 19 novembre non c’è stata alcuna “adunata sediziosa” e quindi non c’era alcuna necessità di dar vita alle cariche di polizia che hanno poi avuto l’esito infausto prima ricordato.
Anzi un testimone diretto di quel fatto, come Mario Capanna, ha affermato, il 19 novembre scorso a Milano, nel corso dell’inaugurazione di una targa commemorativa da parte del Comune ad Antonio Annarumma, che quella della morte di Annarumma "fu una giornata infausta, nel senso che quegli incidenti non sarebbero dovuti succedere”. “Secondo gli accordi con il sindacato - ha aggiunto Capanna - la polizia non doveva esserci e invece, come è noto, ci fu un dispiegamento gigantesco. Se la polizia non ci fosse stata, non sarebbe successo assolutamente nulla".
Ed è quello che la sentenza del tribunale di Milano certifica in modo inequivocabile con l’assoluzione per tutti gli imputati dal reato di “adunata sediziosa” che è l’unico reato che può consentire alla polizia di effettuare una carica per disperdere i facinorosi che attentano all’ordine pubblico.
I responsabili della morte di Annarumma sono dunque coloro che quella mattina a Milano hanno gestito l’ordine pubblico in modo folle. In un modo figlio di una impostazione della gestione dell’ordine pubblico come una guerra con da un lato le forze di polizia, dotate di fucili e di armi di vario tipo, e dall’altro i manifestanti disarmati. E quando si gestisce una guerra, ed una carica di polizia è un atto di guerra dove rischiano la vita sia i poliziotti che la eseguono sia i manifestanti che la subiscono, inevitabilmente possono esserci vittime e feriti e in caso di guerra bisogna chiedere conto dei morti a chi la guerra l’ha scatenata, contravvenendo tra l’altro alla stessa legge che prevede casi precisi per l’uso della forza.
Questa la verità storica che ha portato alla morte di Antonio Annarumma che non aveva alcuna intenzione di diventare un eroe o di difendere “l’onore della propria divisa”, come ha affermato qualche eroe da tastiera che parla di eroismo con la pelle degli altri.
Ed è bene leggere quanto ha scritto il sito poliziadistato.it nella scheda a lui dedicata: “Era uno dei tanti tantissimi figli e nipoti di braccianti che per migliorare la propria condizione scelsero di indossare la divisa grigioverde della pubblica sicurezza sperando di guadagnare un salario, conoscere posti e persone nuovi”. Trasformarlo in un eroe per coprire le responsabilità di chi ha usato l’ordine pubblico per comprimere la libertà di manifestazione in questo paese offende innanzitutto il povero Antonio Annarumma e i suoi familiari.
E la cosa più indegna è stata la strumentalizzazione della sua morte a fini politici da parte del partito fascista, il MSI, che “ai funerali di Annarumma scatenarono una caccia all’uomo per le vie di Milano, inseguendo e bastonando gli studenti del movimento e alcuni giornalisti”.
E sarebbe il caso, finalmente, di far riposare in pace questo giovane morto non per onorare la divisa ma perché chi lo dirigeva lo ha mandato a morire senza alcun motivo. E soprattutto lasciare in pace la sua famiglia che non ha bisogno più di cerimonie e parole ipocrite.
Giovanni Sarubbi – direttore www.ildialogo.org



Domenica 01 Dicembre,2019 Ore: 12:16
 
 
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