Lettera aperta a Paolo Flores d’Arcais

di Gianni Mula

Caro Flores, lei è da un quarto di secolo una figura importante1 della cultura italiana. La sua voce è una delle poche autenticamente libere e anche per questo motivo il suo recente intervento2 nella querelle attorno al “New Realism” tra Gianni Vattimo, il teorico del “pensiero debole”, e Maurizio Ferraris, uno dei suoi allievi più brillanti, merita particolare attenzione, tanto più conoscendo il suo rispetto e la sua sensibilità per il ruolo della scienza nella cultura contemporanea. Poiché io, che faccio il fisico teorico da oltre quarant’anni, condivido gran parte di questa sua sensibilità, mi permetto di inviarle questa lettera aperta, sperando che possa trovare di qualche interesse le mie valutazioni.

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Ricapitolo, in maniera forse un po’ brutale ma credo sostanzialmente corretta, i termini essenziali della querelle:

1) Si terrà a Bonn il prossimo anno un convegno sul tema del “New Realism” a cui parteciperanno, fra gli altri, Umberto Eco e John Searle. Maurizio Ferraris, filosofo ermeneutico diventato sostenitore di un’ontologia critica, e per questo definito da Flores marrano del postmoderno convertito ormai al “New Realism”, è uno degli organizzatori.

2) Ferraris presenta l’idea del convegno come derivante da una sorta di presa d’atto che il primato delle interpretazioni sopra i fatti, il cosiddetto superamento del mito dell'oggettività, non ha avuto gli esiti di emancipazione immaginati da filosofi postmoderni come Richard Rorty o lo stesso Vattimo. In pratica l’ideologia del postmoderno sarebbe solo riuscita a generare la confusione tra fatti e interpretazioni che caratterizza la cultura di questa nostra società. Ma, sostiene sempre Ferraris, c'è da sperare, e molti segni lo lasciano presagire, che questa stagione confusa stia volgendo al termine, anche per l’esperienza delle guerre perse e delle ricorrenti crisi economiche.

3) Vattimo, autore di un recente libro che già nel titolo, “Addio alla verità” (Meltemi 2009), dichiara la sua opposizione alle tesi del convegno, ammette, con la nonchalance di un accademico consapevole di essere per età ormai fuori dai giochi, il fallimento pratico delle speranze postmoderniste. Ma al tempo stesso ribatte che questa "smentita" è solo un affare di potere. Da questo "fatto" perciò non si deve imparare che il postmodernismo è una balla e che quindi ha senso continuare a usare la verità come criterio assoluto discriminante in ogni situazione; bisogna invece rendersi conto che siamo in balia di poteri che si oppongono a ogni trasformazione sociale che li possa mettere in pericolo. 

4) A questo punto Flores interviene con due osservazioni. La prima è che il confronto potrebbe rivelarsi un gioco di specchi, dove ciascuno dei contendenti ha ragione nel criticare l’altro ma entrambi hanno torto proprio nel nucleo filosofico che continuano a condividere. La seconda è che la caratteristica dominante di questo nucleo è l'idiosincrasia di molti filosofi per l’oggettività delle scienze della natura, che in pratica ha portato al postmodernismo, cioè a una deriva ermeneutica che nega ogni oggettività. Questa deriva starebbe all’origine della crisi mondiale che stiamo attraversando. Flores propone quindi di farla finita, almeno sul piano culturale, col postmodernismo, e di concentrarsi sulla “prospettiva dell'emancipazione e dell'eguaglianza”, che condivide con Vattimo, e che dovrebbe accomunare tutti i progressisti.

La prima osservazione di Flores coglie nel segno: la polemica sulla verità ha buone ragioni dalle due parti, ma non aiuta affatto a capire la crisi che la nostra civiltà sta attraversando. La seconda osservazione, quella sulla natura nichilistica del postmodernismo, ripropone invece il grande problema della coerenza tra il dire e il fare, tra scelte culturali e scelte politiche.

Fermiamoci per ora su questa seconda osservazione. Flores sembra dire all’amico Vattimo: ma come fai a non renderti conto che è proprio la caratteristica fondamentale del postmodernismo, cioè l’incapacità di separare le proposizioni descrittive (fatti) da quelle prescrittive (opinioni), ad aver generato la gravissima crisi che stiamo attraversando? Non vedi che in questo modo è impossibile riconoscere le verità scientifiche, o anche solo quelle modeste verità di fatto di cui parlava Hannah Arendt? Non capisci che così ti ritroverai politicamente disarmato, impotente a difendere proprio quei valori di emancipazione e di uguaglianza che sono alla base del tuo filosofare e della tua azione politica?

A prima vista quest’accusa d’incoerenza, formulata in nome della difesa di valori che, come la verità e la distinzione dei fatti dalle opinioni, sono parte costitutiva del comune sentire, coglie nel segno. E magari a qualcuno può anche sembrare particolarmente attraente perché suona come un invito a lasciare i filosofi, ermeneutici e non, alle loro elucubrazioni per concentrarsi invece sui fatti che interessano davvero. A un esame più approfondito, tuttavia, questa osservazione di Flores si rivela sostanzialmente insufficiente a far avanzare il dibattito filosofico3.

Il problema è che, proprio nella situazione di gravissima crisi politica, sociale e culturale che stiamo attraversando, la proposta di pensare ed agire avendo come fermo riferimento la separazione gnoseologica tra fatti e interpretazioni non sembra capace di portarci molto lontano. Prendiamo ad esempio la recentissima4 riflessione con la quale Ilvo Diamanti invita i ragazzi a non andare a scuola (almeno in quella pubblica) e a non studiare. Diamanti dice: “Non avete nulla da imparare e neppure da ottenere. Per il titolo di studio, basta poco. Un istituto privato che vi faccia ottenere in poco tempo e con poco sforzo, un diploma, perfino una laurea. Restandovene tranquillamente a casa vostra. Tanto non vi servirà a molto. Per fare il precario, la velina o il tronista non sono richiesti titoli di studio. Per avere una retribuzione alta e magari una pensione sicura a 25 anni: basta andare in Parlamento o in Regione. Basta essere figli o parenti di un parlamentare o di un uomo politico. Uno di quelli che sparano sulla scuola, sulla cultura e sullo Stato. Sul Pubblico. Sui privilegi della Casta. (Cioè: degli altri). L’Istruzione, la Cultura, a questo fine, non servono.

Questi sono essenzialmente fatti, noti a tutti e accertati, che hanno una conseguenza univoca e inoppugnabile: studiare non conviene più. Poiché questa conseguenza sembra istintivamente inaccettabile bisogna cercare di rimediare in qualche modo. Ad es. decidendo di lottare democraticamente per una società che funzioni al contrario di quella attuale. Qui sorge una difficoltà: come convincere la maggioranza degli elettori che queste non sono velleità da visionari della politica? Immagino che Flores direbbe: con un programma credibile, basato su altri fatti, quali i comportamenti illegali di Berlusconi e dei suoi compari, il crollo della credibilità in campo internazionale dello stato italiano, le innumerevoli manifestazioni di crassa incompetenza e incapacità dei vari Gauleiter del regime. Certo, in condizioni normali un buon programma dovrebbe prevalere su uno cattivo. Ma nelle condizioni attuali non c’è bisogno di scomodare il grande Francesco Guicciardini per vedere che una piattaforma culturale centrata sull’importanza della separazione gnoseologica tra fatti e interpretazioni è manifestamente la meno adatta per coagulare attorno a sé un supporto maggioritario.

Si badi che non sto dicendo che sia sbagliata, ma che in una campagna elettorale così impostata una simile piattaforma non avrebbe alcuna chance di vincere perché il minimo denominatore comune raggiungibile sarebbe comunque quello di badare ciascuno al proprio particulare. E non sto neanche a parlare di brogli o di prevaricazioni nella campagna elettorale superiori a quelle che abbiamo già conosciuto, perché basterebbero le capacità di un qualunque Karl Rove per far vincere le elezioni a quella delle parti in lizza che scelga di titillare al meglio le paure profonde e i piccoli egoismi che sono parte ineliminabile della psiche di ogni elettrice o elettore. In definitiva, quindi, un tema privilegiato in ragione della sua supposta maggiore chiarezza e forza argomentativa si rivela nell’applicazione concreta del tutto inadatto alla bisogna.

Si obietterà che l’esempio è in qualche maniera mal scelto, paradossale, ecc. Leggiamo allora l’analisi della crisi proposta da Giovanni Sarubbi5, nell’editoriale del 24 agosto. Sotto il titolo La fine di un'epoca è alle porte Sarubbi dice: Da oramai più di trent’anni … l'etica pubblica, la moralità individuale e collettiva è stata fatta a pezzi dal “privato è bello”, dall'edonismo più sfrenato … Tutto ciò che fa riferimento alle idee di comunità, ai beni comuni, alla comune umanità e ai comuni destini del genere umano e dell'unica Terra su cui viviamo è stato non solo bandito ma anzi violentemente combattuto. … Ma la privatizzazione più grave è stata forse quella che ha riguardato la cultura, i rapporti sociali e politici, la stessa religione. … Può esserci una chiesa o una qualsiasi religione, qualunque essa sia, che possa appropriarsi del messaggio evangelico e che riduca Dio ad una sua proprietà privata? … Può un presidente della Repubblica scegliere di sponsorizzare il movimento politico di una parte, e che parte? Può un Papa scegliere di circondarsi solo di giovani maschi ignorando l'altra metà del cielo?

Qui, a differenza che nel testo di Diamanti, abbiamo a che fare quasi soltanto con interpretazioni o valori affermati con forza. I fatti ci sono, ovviamente, ma rimangono sullo sfondo, la forza dell’argomentazione è tutta sbilanciata sui valori, e quindi su scelte soggettive. Ma sono scelte soggettive capaci di coagulare un consenso importante, una speranza condivisa che può diventare il motore di una trasformazione radicale della nostra società. Naturalmente la prospettiva di questa trasformazione non rende meno veri i fatti di cui parla Diamanti, anzi ne esalta il valore di provocazione e li aggrega in maniera naturale al processo di rinnovamento (ovviamente perché vengano raddrizzati!). Anche in questo caso, tuttavia, il processo di rinnovamento non sarebbe certo favorito dall’obiettare alle considerazioni di Sarubbi che sarebbe preferibile una maggiore chiarezza epistemologica.

Un autentico processo di rinnovamento potrebbe invece nascere comunque, senza chiedere il permesso ai filosofi, magari a partire da provocazioni ispirate come quella di Philippe Starck, famoso designer francese, secondo il quale la crisi globale che stiamo attraversando è un segnale che ci troviamo davanti a un bivio: “Scomparire come gli antichi romani o gli incas. Oppure inventarci una nuova civilizzazione. Sono mutazioni che avvengono ogni due o tre secoli, e noi ci siamo dentro. Non è entusiasmante? 6

Riflettere in termini positivi su un processo di rinnovamento percepito come possibile, e magari anche entusiasmante, ci riporta alla prima osservazione di Flores, quella che la querelle Ferraris-Vattimo potrebbe rivelarsi un gioco di specchi, e ce la fa vedere come davvero illuminante. Infatti, se il problema importante diventa quello di immaginare, e quindi di creare le condizioni per, una transizione verso una civiltà futura che sia davvero altra rispetto a quella attuale, allora la querelle finisce col riguardare un aspetto marginale dell’evoluzione della nostra civiltà e le ragioni dei due protagonisti (che altrimenti non sembrerebbero all’altezza di quei filosofi di valore che pure sono) diventano riconducibili a punti di vista differenti ma ugualmente legittimi. Inoltre si capisce che il vero problema non sta in questioni gnoseologiche, importanti ma non determinanti nel contesto attuale, ma nel fatto che, moderno o postmoderno, il pensiero filosofico contemporaneo non prevede la possibilità che ci troviamo alla fase di transizione tra due civiltà. O, quando ci è costretto, come capita sia agli alfieri della modernità tradita che agli antimoderni, lo fa solo in chiave di resistenza alla transizione, cioè in termini di prolungamento di un’agonia, o di ritorno a un passato che non è mai esistito.

Conviene allora dotarsi degli strumenti culturali necessari per capire se quello che ci sta succedendo è davvero una transizione verso un qualcosa ancora da inventare. Per un primo passo non dobbiamo andare lontano: la chiave di tutto, dice bene Vattimo, è rendersi conto che il fallimento pratico del postmodernismo è una questione di potere. Ma di quale potere? Politico, economico o culturale? Nell’ambito della modernità il principio della separazione dei poteri è un principio fondamentale che si estende ben al di là dell’ormai classica distinzione introdotta dal barone di Montesquieu. Ci sono tante maniere di raccontare una civiltà: ci si può concentrare sul potere politico, oppure su quello economico o culturale. Ci può essere una crisi politica senza che ci sia una crisi economica, o viceversa. Ci può essere una crisi culturale perché non ci si intende più con le parole, o una crisi spirituale perché si crede, o non si crede, in cose che confliggono l’una con l’altra. Ma tutte queste descrizioni, per quanto su piani diversi, sono sempre correlate tra loro. E per capire le correlazioni è necessario decidere quali e quanti sono gli aspetti del potere che si ritengono rilevanti nella nostra società.

Qui si tocca il cuore del problema della modernità, perché non sempre è possibile tenere distinti e separati i vari aspetti del potere. Di fronte al problema di un cristianesimo comprensibile e davvero vivibile nel mondo moderno Rudolf Bultmann parlò, ispirato dalla filosofia di Heidegger, dell’esigenza di una “demitizzazione del cristianesimo”. Di fronte alla crisi del ’29 John Maynard Keynes sfidò il paradigma economico neoclassico e sostenne l’eresia che in caso di crisi occupazionali e di sottoconsumo è compito dei governi intervenire anzitutto aumentando le spese per consumi e/o investimenti. Infine, di fronte a un establishment scientifico ancorato al mito di una scienza moderna fondata sul metodo sperimentale e alla necessità di principio di una formalizzazione della matematica usata (ad es. secondo il progetto Bourbaki) René Thom presentò la sua teoria delle catastrofi come un esempio di “teoria ermeneutica che si sforza, di fronte a qualsiasi dato sperimentale, di costituire l’oggetto matematico più semplice che possa generarlo”. Tutti e tre questi grandi innovatori fecero delle scelte culturali, interne al loro campo di ricerca, chiaramente in contrasto con l’ortodossia dominante perché mettevano in discussione aspetti consolidati della distribuzione del potere. Tutti e tre si sono quindi consapevolmente scontrati con le strutture di potere del proprio campo e, per quanto l’importanza dei loro contributi sia generalmente riconosciuta, i vari establishment sono di fatto riusciti a minimizzarne la portata innovativa.

Per Bultmann si potrebbe parlare di transizione incompiuta. La demitizzazione avrebbe richiesto un approfondimento del concetto di mito nel quadro della teologia cristiana. Bultmann scelse invece di trattare i miti soltanto sulla base della loro interpretazione letterale, e quindi la sua grande intuizione, che avrebbe potuto e dovuto portare all’espunzione dalla rivelazione cristiana non dei miti ma soltanto delle loro interpretazioni letterali, non condusse a quella trasformazione radicale della teologia per la quale lottava e che sarebbe stata necessaria.

Keynes è stato invece semplicemente relegato in soffitta dall’economia mainstream (che quindi anche per questo può essere accusata di essere la responsabile almeno morale della crisi economica globale che stiamo attraversando). Per la verità Keynes riteneva che la sua intuizione avrebbe potuto inserirsi nel quadro dei principi che costituivano la base teorica dell’economia accettata dalla maggioranza dei suoi colleghi, ma evidentemente si sbagliava.

Thom è stato forse quello dei tre più consapevole del fatto che il suo modo di fare matematica era molto diverso da quello della maggioranza dei suoi colleghi, tanto da dedicare l’ultima ventina d’anni della sua vita principalmente alla filosofia. Tuttavia anch’egli non dava per persa la possibilità di un’integrazione nel corpus complessivo del sapere matematico, almeno sino a quando nel 1990 ammise che la teoria delle catastrofi era morta, perché non poteva essere apprezzata in un mondo scientifico che accettava soltanto predizioni quantitative.

Si potrebbe tirar le somme dell’azione di questi tre rivoluzionari dicendo che sono accomunati dalla caratteristica di non aver capito che le loro innovazioni avrebbero trasformato radicalmente i rispettivi campi (e quindi inevitabilmente avrebbero incontrato l’opposizione dell’establishment). In altri termini ciascuno di essi ha di fatto iniziato una rivoluzione ma senza rendersene pienamente conto.

D’altronde rendersene conto non era certo facile. Il quadro culturale e filosofico generale dei loro tempi era quello della modernità e quindi non prevedeva, come per molti ancora non prevede, la possibilità di una transizione verso un qualcosa d’altro che rappresentasse una rottura rispetto ai principi (o ai miti) della modernità. Anche i postmodernisti non riescono a definirsi se non, appunto, come post, cioè come quelli che vengono dopo.

Il solo, grandissimo, contributo filosofico veramente innovativo maturato nella seconda metà del novecento è stato quello di Paul Ricoeur. Ma finora è stato un contributo onorato più a parole che con i fatti. Un esempio certamente minimo ma che si ricollega direttamente alla querelle da cui abbiamo preso le mosse è la mancata inclusione di Paul Ricoeur tra i protagonisti dell’opera “La filosofia raccontata dai filosofi” (Le raccolte del Sole 24 ORE), curata, appunto, da Maurizio Ferraris. Mancata inclusione del tutto ingiustificata, anche perché lo stile filosofico di Ricoeur è sempre stato quello di procedere per inclusione, accogliendo quello di buono che c’era in ciascuna delle posizioni in campo facendo vedere come quei contributi potevano essere armonizzati nel quadro di una visione complessiva del tutto nuova.

È con la filosofia ermeneutica di Paul Ricoeur che si può davvero iniziare a rimediare ai problemi del nucleo filosofico di cui si parlava inizialmente, a partire magari dalla constatazione che i problemi di idiosincrasia per l’oggettività delle scienze della natura di cui parla Flores esistono veramente. Nella visione di Ricoeur fare i conti con questi problemi significa capire che derivano dalla scelta di privilegiare, alla maniera di Heidegger, la via corta dell’ontologia della comprensione anziché la via lunga che prende l’avvio dall’analisi del linguaggio. In altri termini derivano dall’idea di limitarsi a ricercare una comprensione che sia la risposta diretta del campo delle scienze umane al concetto di spiegazione proprio delle scienze della natura. A questa via corta che fa passare la verità da un problema di metodo a un problema di autocomprensione dell’essere, Ricoeur preferisce la via lunga che mantiene costantemente il contatto con le discipline che si fondano sul metodo (e quindi resiste alla tentazione di separare la verità, propria della comprensione, dal metodo e dalla disciplina usati per scoprirla).

È dunque la via lunga di Ricoeur che può costituire la base teorica per inquadrare i contenuti culturali di una transizione. Ci torneremo tra un momento, ma prima è necessario ricordare che in questi ultimi vent’anni la scienza contemporanea è cambiata profondamente, ed è diventata qualitativamente diversa da quella del tempo di Kant e Hume. Diversa non solo per ampiezza e profondità dei temi affrontati ma proprio per i principi sulla base dei quali oggi si scopre funzionante.

Perché sino alla scoperta della meccanica quantistica è stato possibile rimanere nell’ambito di una sola teoria dei fondamenti (quindi vera per definizione): è bastato infatti assorbire in qualche maniera la scoperta dei fenomeni subatomici interpretando la meccanica classica come un’approssimazione della meccanica quantistica. Ma con lo sviluppo del modello standard e poi con la teoria delle stringhe l’esistenza di un’unica teoria fondativa dalla quale derivare tutta la conoscenza scientifica (e quindi l’unica verità) è diventata manifestamente indifendibile.

Contemporaneamente c’è stata inoltre la scoperta, dopo molti decenni di tentativi infruttuosi, di come avvengono le transizioni di fase. Stiamo assistendo all’esplosione della teoria della complessità e delle sue applicazioni a una miriade di campi estranei alla fisica tradizionale, dalle scienze naturali alle cosiddette scienze umane, dall’economia a ogni tipo di rete sociale. È così diventato evidente che l’approccio scientifico-matematico è ora possibile, in linea di principio, per ogni campo dello scibile umano, ma al prezzo, appunto, della rinuncia all’avere un unico criterio di verità.

Il fatto è che l’applicazione ai problemi delle scienze umane delle stesse tecniche matematiche che hanno permesso di mietere successi nell’ambito tradizionale delle scienze fisiche ha reso evidente che anche quei successi, e quindi quelle verità, non erano assoluti ma dipendevano dalla scelta del punto di vista. E per questo rappresentano quindi successi dell’ermeneutica e non dell’epistemologia. Nel campo delle transizioni di fase, infatti, perché si possa parlare di descrizione e di comprensione di una transizione bisogna che la transizione possa avvenire o avvenga di fatto. Questo vale per qualunque tipo di transizione, sia per quelle che ricadono nell’ambito fisico tradizionale che per quelle che ricadono nell’ambito delle scienze umane: l’unica differenza è che nell’ambito fisico tradizionale la scelta del punto di vista è generalmente priva di problemi. Di qui l’errata credenza che le cosiddette scienze “dure” diano sempre risposte univoche ai problemi che affrontano.

Si potrebbe considerare tutto questo come un grande successo, ancorché postumo, dell’opera di Thom, e mettere l’accento sulla riscoperta dell’importanza delle risposte qualitative. Tuttavia è forse più importante capire che quest’evoluzione della scienza ci costringe a ripensare la cultura contemporanea nel suo insieme, e quindi a non ignorare che quello di cui si ha bisogno oggi è appunto una cultura della transizione, che ci affranchi dall’eterno presente della modernità e ci permetta di immaginare il futuro senza ignorare la storia, e quindi senza violentare il passato.

Infatti solo una cultura della transizione, da sviluppare nello spirito della via lunga di Ricoeur, può permetterci di affrontare i tanti problemi correlati fra loro che sono caratteristici di una società complessa come la nostra. Non possiamo sperare di tirare avanti mettendo pezze alla bell’e meglio qua e là senza avere una visione globale del processo di trasformazione. Dal problema del funzionamento delle istituzioni a quello del loro costo, dalla politica economica alla qualità della vita democratica, dal problema dell’ambiente a quello del riequilibrio del sistema pensionistico, tanti problemi complessi ruotano in definitiva attorno all’idea di un patto sociale che tenga assieme tutti gli interessati. In Italia questo patto esiste già, e si chiama Costituzione della Repubblica italiana. È stato pensato per durare molto di più della sua età attuale ma ora il problema è che non abbiamo più un linguaggio condiviso che consenta di interpretare la costituzione in maniera univoca.

Basti solo un esempio, sostanzialmente neutrale: all’art. 54, ad esempio, si legge che “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. Quest’articolo è oggi continuamente e platealmente violato, eppure è l’articolo che chiude la prima parte della costituzione, e quindi è tra le disposizioni importanti che sono state pensate come non modificabili. Evidentemente è più facile ignorarlo che abolirlo, ma questo non sarebbe possibile se il popolo italiano non fosse radicalmente cambiato rispetto a quello che ha votato la costituzione.

Dovremmo lavorare tutti quanti per un rinnovato patto sociale tra gli italiani di oggi, un patto sociale che magari contempli anziché il principio di pareggio di bilancio di cui si parla il principio che ci deve essere un qualche limite massimo alle disuguaglianze sociali. Ma questo rinnovato patto sociale non potrà mai essere realizzato senza che si sia prima formata nella coscienza collettiva la consapevolezza della complessità di ogni progetto di transizione e della conseguente necessità della rinuncia alla ricerca di scorciatoie facili e illusorie. Il che, naturalmente, non significa la rinuncia a quei salti di qualità che caratterizzano appunto le vere transizioni e le distinguono da riforme gattopardesche.

Leggo pertanto la prima osservazione di Flores come un invito pressante a raggiungere questa consapevolezza. Condivido e faccio anche mio quest’invito e propongo a Flores di dedicare il prossimo almanacco di filosofia di MicroMega al tema “La cultura della transizione”. A partire magari da qualche testo di Paul Ricoeur sull’importanza di seguire la via lunga del continuo confronto con i vari approcci metodici della scienza.

Mi pare in sintonia con lo spirito di questa lettera chiudere con un brano da una recente riflessione7 di Simon Critchley8 sull’attentato alle torri gemelle e sul progetto di Osama Bin Laden.

Bin Laden ha dichiarato di aver speso mezzo milione di dollari per l’attentato, ma anche che le sue stime più prudenziali valutano in 500 miliardi di dollari il costo delle perdite per gli Stati Uniti. “Un milione di dollari americani per ogni dollaro di Al Qaeda. Questo dimostra il successo del nostro piano, con l’aiuto di Dio, di far sanguinare gli americani sino alla bancarotta”. Piaccia o non piaccia (a me non piace per niente), ma su questo punto Bin Laden ha ragione, perché … [è vero che] siamo alla bancarotta. …Ma chiediamoci che cosa sarebbe successo se dopo l’attentato non avessimo fatto niente. Niente vendetta, nessuna risposta colpo per colpo, nessun bombardamento strategico al confine afgano-pakistano, nessun intervento malamente progettato e peggio eseguito in Iraq … niente di niente. … Che cosa sarebbe successo se il lutto e il dolore dopo l’undici settembre fosse stato seguito da una politica guidata dall’etica della compassione anziché dal desiderio di vendetta e di rivalsa?... Come sappiamo fin troppo bene niente di tutto questo è avvenuto. … abbiamo invece sperperato l’immenso patrimonio di empatia che avevamo ricevuto dopo l’attentato … Ci siamo scavati la fossa da soli. Ma la domanda è: dobbiamo proprio giacerci dentro?

Anche solo raggiungere la consapevolezza di questo dilemma potrebbe significare che abbiamo acquisito la cultura della transizione di cui abbiamo bisogno.

Cordialmente

Gianni Mula

Professore ordinario di Fisica teorica all’Università di Cagliari

gianni.mula@dsf.unica.it


Note

[1] MicroMega, il mensile da Flores fondato e diretto, vende mediamente attorno a quindicimila copie, ma ha più volte superato quota centomila. Questo a dispetto dell’essere una rivista che pubblica saggi di filosofia di autori importanti ma certo non di facile consumo. Ad esempio l’almanacco filosofico dedicato alla Fides et Ratio ha sfiorato le centomila copie pur essendo un’apologia dell’ateismo contro le tesi dell’allora cardinal Ratzinger.

[2] Repubblica 19 e 26 agosto 2011 – MicroMega 5/2011

[3] Lasciamo da parte l’aspetto marginale (ma non troppo) che anche Flores e Ferraris, non solo Vattimo, sono filosofi, e quindi non si capisce bene il senso di un’osservazione che si presta ad essere vista come un invito a lasciar perdere i problemi filosofici e a concentrarsi sul fare. In effetti l’accusa di incoerenza fatta a Vattimo da Flores è molto meno rozza di quando può apparire dalla sintesi brutale che ne ho fatto; basta ad es. andare a vedere i suoi recenti interventi al riguardo su MicroMega, da cui emerge che Flores ha dedicato al problema tutta l’attenzione necessaria per formulare un contributo tutt'altro che banale. Probabilmente è anche per questo che Flores guarda al “New Realism”, di cui pure condivide gli obiettivi dichiarati, con una buona dose di scetticismo, dicendo che si tratta di vedere se questo nuovo (per lui vecchio, ma meglio tardi che mai) approccio riuscirà a tener ferma senza titubanza la barra della separazione gnoseologica tra fatti e valori.

[6] Intervistato rilasciata ad Anais Ginori - Repubblica 4 agosto. Per coloro che più soffrono per questa crisi l’entusiasmo può sembrare una battuta di cattivo gusto, ma non lo è. Sul piano intellettuale non c’è differenza tra questa osservazione e l’Albert Camus che alla fine de Il mito di Sisifo dice: Bisogna immaginare Sisifo felice?

[8] Simon Critchley è un filosofo inglese che insegna alla New York School of Social Research. È molto attivo sul piano internazionale ma quasi sconosciuto in Italia. Nel 2008 l’editore Meltemi ha pubblicato il suo libro Responsabilità illimitata. Etica dell’impegno, politica della resistenza.



Lunedì 12 Settembre,2011 Ore: 18:21