Editoriale
Vattene satana!

di Giovanni Sarubbi

Un commento sulla riflessione di monsignor Ravasi sulla nuova preghiera per gli ebrei


RIPRENDIAMO di seguito dall’agenzia ZENIT la riflessione di monsignor Ravasi sulla nuova preghiera per gli ebrei su cui molta polemica c’è stata al momento della sua diffusione, soprattutto da parte ebraica, con la sospensione degli incontri fra ebrei e i cattolici. Già su questo tema ho scritto un editoriale (Vedi) e altri articoli sono stati pubblicati nella sezione nella quale ci occupiamo delle posizioni di Benedetto XVI (Vedi).
Questo articolo di mons. Ravasi , che abbiamo letto attentamente, ci ha lasciato non poco stupiti. Ravasi è un noto e stimato biblista ed è in questa veste che egli presta la sua penna e la sua intelligenza al Papa per dare una qualche giustificazione alla “nuova preghiera” (ci ostiniamo a metterla fra virgolette) che tanti danni ha provocato e ancora molti ne procurerà.
Ravasi in sostanza sostiene che non si tratta di una preghiera bensì di un piccolo “trattato biblico”, un textus, come lui dice, che «rimanda all’idea di un "tessuto" che è elaborato con fili diversi». Egli cita tutte le frasi del Nuovo Testamento da cui sarebbe derivata quella “preghiera”. I fedeli, seppure “tradizionalisti”, quando il venerdì santo “pregheranno” con quella “preghiera” in realtà non faranno altro che declamare passi biblici. Non sarebbe il cuore, la parte più profonda di noi stessi, ad essere coinvolto ma la “razionalità”, come piace a questo Papa.
Ora se una tale tesi fosse sostenuta da un fondamentalista che interpreta la Bibbia in modo letterale, passi, che lo sostenga Ravasi ha dell’incredibile perché il testo che è venuto fuori dall’operazione di “taglio e cuci” è inequivocabilmente una mostruosità teologica ed una ancora più grave mostruosità “pastorale”, cioè di rapporto con il mondo.
E non potrebbe essere diversamente perché singole frasi enucleate dal contesto nel quale sono state scritte unite ad altre frasi anch’esse enucleate dal loro contesto trovano la loro unità e la loro sintesi nel pensiero di colui che effettua l’operazione di “taglio e cuci”. Non è il Nuovo Testamento che produce quella “preghiera” ma una ben precisa interpretazione che chi l’ha realizzata vuole mettere in luce. E l’idea che sta dietro a quella preghiera, come abbiamo già scritto, è quanto espresso nella Dominus Jesus che l’allora Card Ratizinger promulgò nel settembre 2000.
E ciò che mons. Ravasi in realtà conferma è proprio questo uso distorto della Bibbia che un qualsiasi serio studioso della bibbia, quale lui è, non può che negare decisamente. La stessa Chiesa Cattolica, nei suoi documenti ufficiali, accetta il metodo “storico critico” nella interpretazione dei testi biblici. Non può oggi Mons. Ravasi appellarsi ad un modo belluino di usare la scrittura. Un modo che mette in luce un uso dogmatico delle scritture, uso che nei Vangeli viene decisamente condannato esplicitamente dallo stesso Gesù.
Mi riferisco alle cosiddette “Tentazioni di Gesù” che proprio domenica scorsa sono state lette durante la liturgia domenicale nelle chiese Cattoliche. L’oggetto di quelle “tentazioni” (Tutto il passo si trova in Mt 4,1 -11) è proprio l’uso perverso e diabolico di quella che oggi chiamiamo “parola di Dio” per acquistare il potere religioso (“Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù…” Mt 4,6), politico («Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai» Mt 4,9) ed economico («Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane» Mt 4,3).
La Bibbia non può essere usata per giustificare proprie visioni dogmatiche, proprie costruzioni “teologiche” finalizzate a determinare chi è “salvato o meno”, chi è sulla “retta dottrina o meno” e via inquisendo condannando e mettendo al rogo.
Come Gesù non possiamo che dire: «Vattene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». “Vattene satana” cioè mettiamo al bando chi divide l’umanità, chi usa la “parola di Dio” a proprio uso e consumo, chi trasforma le proprie idee in altrettanti idoli che pretendono di presentarsi come uniche vie per stabilire un “rapporto con Dio”.
Non è un caso che le tentazioni di Gesù vengono rappresentate come avvenute in un luogo chiamato “deserto”, termine che traduce la parola greca “erêmon”, da cui deriva anche la parola eremo, luogo dove ci si ritira per entrare in contatto con “dio” ma dove più facilmente si può incontrare “il diavolo” cioè lo spirito idolatrico, quello che ci fa sentire superiore agli altri e che ci fa aspirare al potere religioso, politico, economico.
“Vattene, satana!”



Il testo della riflessione di Mons. Ravasi dall’agenzia ZENIT


Riflessione di monsignor Ravasi sulla nuova preghiera per gli ebrei

CITTA’ DEL VATICANO, giovedì, 14 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la riflessione dell’Arcivescovo Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, circa la modifica, voluta da Benedetto XVI, alla preghiera per gli ebrei che si recitava nella liturgia del Venerdì Santo prima del Concilio Vaticano II.

L’articolo è apparso su “L’Osservatore Romano” del 15 febbraio.

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di Gianfranco Ravasi

Un giorno Kafka all’amico Gustav Janouch che lo interrogava su Gesù di Nazaret rispose:  "Questo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi". Il rapporto tra gli Ebrei e questo loro "fratello maggiore", come l’aveva curiosamente chiamato il filosofo Martin Buber, è stato sempre intenso e tormentato, riflettendo anche la ben più complessa e travagliata relazione tra ebraismo e cristianesimo. Forse sia pure nella semplificazione della formula è suggestiva la battuta di Shalom Ben Chorin nel suo saggio dal titolo emblematico Fratello Gesù (1967):  "La fede di Gesù ci unisce ai cristiani, ma la fede in Gesù ci divide".

Abbiamo voluto ricreare questo fondale, in realtà molto più vasto e variegato, per collocarvi in modo più coerente  il nuovo Oremus  et  pro Iudaeis per la Liturgia del Venerdì Santo. Non c’è bisogno di ripetere che si tratta di un intervento su un testo già codificato e di uso specifico, riguardante la Liturgia del Venerdì Santo secondo il Missale Romanum nella stesura promulgata dal beato Giovanni XXIII, prima della riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Un testo, quindi, già cristallizzato nella sua redazione e circoscritto nel suo uso attuale, secondo le ormai note disposizioni contenute nel motu proprio papale Summorum Pontificum dello scorso luglio.

All’interno, dunque, del nesso che unisce intimamente l’Israele di Dio e la Chiesa cerchiamo di individuare le caratteristiche teologiche di questa preghiera, in dialogo anche con le reazioni severe che essa ha suscitato in ambito ebraico. La prima è una considerazione "testuale" in senso stretto:  si ricordi, infatti, che il vocabolo textus rimanda all’idea di un "tessuto" che è elaborato con fili diversi. Ebbene, la trentina di parole latine sostanziali dell’Oremus è totalmente frutto di una "tessitura" di espressioni neotestamentarie. Si tratta, quindi, di un linguaggio che appartiene alla Scrittura Sacra, stella di riferimento della fede e dell’orazione cristiana.

Si invita innanzitutto a pregare perché Dio "illumini i cuori", così che anche gli Ebrei "riconoscano Gesù Cristo come salvatore di tutti gli uomini". Ora, che Dio Padre e Cristo possano "illuminare gli occhi e la mente" è un auspicio che san Paolo già destina agli stessi cristiani di Efeso di matrice sia giudaica sia pagana (1, 18; 5, 14). La grande professione di fede in "Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini" è incastonata nella Prima lettera a Timoteo (4, 10), ma è anche ribadita in forme analoghe da altri autori neotestamentari, come, ad esempio, il Luca degli Atti degli Apostoli che mette in bocca a Pietro questa testimonianza davanti al Sinedrio:  "In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati" (4, 12).

A questo punto ecco l’orizzonte che la preghiera vera e propria delinea:  si chiede a Dio, "che vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità", di far sì "che, con l’ingresso della pienezza delle genti nella Chiesa, anche tutto Israele sia salvo". In alto si leva la solenne epifania di Dio onnipotente ed eterno il cui amore è come un manto che si allarga sull’intera umanità:  egli, infatti si legge ancora nella Prima lettera a Timoteo (2, 4) "vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità". Ai piedi di Dio si muove, invece, come una grandiosa processione planetaria, che è fatta di ogni nazione e cultura e che vede Israele quasi in una fila privilegiata, con una presenza necessaria. È ancora l’apostolo Paolo che conclude la celebre sezione del suo capolavoro teologico, la Lettera ai Romani, dedicata al popolo ebraico, l’olivo genuino sul quale noi siamo stati innestati, con questa visione la cui descrizione è "intessuta" su citazioni profetiche e salmiche:  l’attesa della pienezza della salvezza "è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti; allora tutto Israele sarà salvato come sta scritto:  Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà le empietà da Giacobbe. Sarà questa la mia alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati" (11, 25-27).

Un’orazione, quindi, che risponde al metodo compositivo classico nella cristianità:  "tessere" le invocazioni sulla base della Bibbia così da intrecciare intimamente credere e pregare (è un’interazione tra le cosiddette lex orandi e lex credendi). A questo punto possiamo proporre una seconda riflessione di indole più strettamente contenutistica. La Chiesa prega per aver accanto a sé nell’unica comunità dei credenti in Cristo anche l’Israele fedele. È ciò che attendeva come grande speranza escatologica, cioè come approdo ultimo della storia, san Paolo nei capitoli della Lettera ai Romani (capitoli 9-11) a cui sopra accennavamo. È ciò che lo stesso Concilio Vaticano II proclamava quando, nella costituzione sulla Chiesa, affermava che "quelli che non hanno ancora accolto il Vangelo in vari modi sono ordinati ad essere il popolo di Dio, e per primo quel popolo al quale furono dati i testamenti e le promesse e dal quale è nato Cristo secondo la carne, popolo in virtù dell’elezione carissimo a ragione dei suoi padri, perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili" (Lumen gentium, n. 16).

Questa intensa speranza è ovviamente propria della Chiesa che ha al centro, come sorgente di salvezza, Gesù Cristo. Per il cristiano egli è il Figlio di Dio ed è il segno visibile ed efficace dell’amore divino, perché come aveva detto quella notte Gesù a "un capo dei Giudei", Nicodemo "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, e non lo ha mandato per giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (cfr Giovanni, 3, 16-17). È, dunque, da Gesù Cristo, figlio di Dio e figlio di Israele, che promana l’onda purificatrice e fecondatrice della salvezza, per cui si può anche dire in ultima analisi, come fa il Cristo di Giovanni, che "la salvezza viene dai Giudei" (4, 22). L’estuario della storia sperato dalla Chiesa è, quindi, radicato in quella sorgente.

Lo ripetiamo:  questa è la visione cristiana ed è la speranza della Chiesa che prega. Non è una proposta programmatica di adesione teorica né una strategia missionaria di conversione. È l’atteggiamento caratteristico dell’invocazione orante secondo il quale si auspica anche alle persone che si considerano vicine, care e significative, una realtà che si ritiene preziosa e salvifica. Scriveva un importante esponente della cultura francese del Novecento, Julien Green, che "è sempre bello e legittimo augurare all’altro ciò che è per te un bene o una gioia:  se pensi di offrire un vero dono, non frenare la tua mano". Certo, questo deve avvenire sempre nel rispetto della libertà e dei diversi percorsi che l’altro adotta. Ma è espressione di affetto auspicare anche al fratello quello che tu consideri un orizzonte di luce e di vita.

È in questa prospettiva che anche l’Oremus in questione pur nella sua limitatezza d’uso e nella sua specificità può e deve confermare il nostro legame e il dialogo con "quel popolo con cui Dio si è degnato di stringere l’Antica Alleanza", nutrendoci "della sua radice di olivo buono su cui sono innestati i rami dell’olivo selvatico che siamo noi Gentili" (Nostra aetate, n. 4). E come pregherà la Chiesa nel prossimo Venerdì Santo secondo la liturgia del Messale di Paolo VI, la comune e ultima speranza è che "il popolo primogenito dell’alleanza con Dio possa giungere alla pienezza della redenzione".


(©L’Osservatore Romano - 15 febbraio 2008)



Venerdì, 15 febbraio 2008