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Dopo Napoli

Un contributo alla discussione da Carlamaria Cannas e Gianni Mula


Cara Licinia,
tutte le proposte per il lavoro dopo Napoli hanno un cuore comune che crediamo vada ben compreso prima ancora che messo a tema. In particolare le due proposte di Raniero La Valle e Pino Ruggieri sono singolarmente consonanti nel mettere a fuoco il problema centrale della nostra condizione di cristiani postconciliari: Raniero lo chiama "Come ridire la fede dopo il Concilio, e in forza di esso", Pino lo chiama "il dubbio che le nostre proposte su questo argomento siano destinate a urtare contro la resistenza ufficiale e che quindi risultino ultimamente controproducenti", ma la diversità delle parole non nasconde la comune consapevolezza che il problema della Chiesa di oggi è la totale inadeguatezza della sua gerarchia. Anche la proposta di Gianfranco Bottoni di riflettere sulla figura del cristiano adulto nella fede, indicando "un parlare che non sia ne' gridato ne' taciuto", in fondo suggerisce una maniera di rapportarsi alla gerarchia che salvi la nostra esigenza di verità assieme al nostro voler essere chiesa. Perché questo è il vero problema, detto in termini forse un po’ troppo crudi ma veri: noi non ce l'abbiamo con la gerarchia perché è gerarchia, ma perché il suo comportamento generale non ci aiuta a essere cristiani nel mondo di oggi. E non ci aiuta perché riduce tutte le questioni essenzialmente a un problema di ortodossia, come se la costruzione del regno di Dio fosse semplicemente una faccenda di regole, e non di testimonianza di vita (cfr. Lc, 11, 46 “Guai anche a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!”).
In particolare Raniero propone che si metta a fuoco la questione della redenzione e si chiede se nella redenzione sia "necessariamente implicato il significato di riscatto, di prezzo pagato, e della necessità che questo prezzo fosse il sangue di Gesù". Pino invece sottolinea che "Il clericalismo e il moralismo da una parte, e dall'altra la corresponsabilità, la comunione, la libertà del cristiano adulto derivano proprio dalla modalità con la quale viene celebrata l'eucaristia", e propone di riflettere sulla messa come "sacramento di unità", che concilia “la presenza del Signore glorioso in mezzo alla sua chiesa, alla quale dona il perdono”, “con la risposta attiva, la partecipazione "attuosa" come la chiama il concilio”, del popolo di Dio.
Questi due temi sono certamente differenti ma hanno in comune la caratteristica di presentare aspetti della fede molto mal compresi dalla cultura del nostro tempo, il che li rende particolarmente complessi. Giusto per isolare l’aspetto che ci sembra centrale: come si può parlare credibilmente, nel linguaggio di oggi, di un riscatto, di un prezzo pagato, senza far riferimento, almeno implicito, alla colpa che questo pagamento ha reso necessario? E ugualmente, come si può parlare di un Signore glorioso che dona il perdono senza far riferimento alla medesima colpa? Ed è possibile che a questi problemi si possa rispondere solamente in termini di un’ortodossia solo attenta a un “deposito della fede” trattato come un oggetto assolutamente invariato al passare dei secoli e quindi non più comprensibile per l’uomo d’oggi? Se Gesù ci chiama alla sequela, e quindi a un cammino di conversione, non ci sta forse dicendo che dobbiamo andare avanti, verso la vita, nelle condizioni concrete in cui ci troviamo, e non tornare indietro alla ricerca di un’ideale perfezione fuori dal mondo?
Ci sembra evidente che non si possa oggi presentare l’annuncio evangelico, la “buona notizia”, senza dare un’interpretazione della Scrittura alla luce delle odierne acquisizioni dell’esegesi biblica e della critica filologica e letteraria. Ma anche che non è possibile che ci sia una sola maniera di leggere i testi della rivelazione e, soprattutto, una sola maniera di trarre conseguenze concrete per la vita della Chiesa. Pensiamo al noto errore di traduzione di san Girolamo (… e saranno un solo ovile e un solo pastore, anziché … e saranno un solo gregge e un solo pastore) e alle conseguenze che ne sono derivate, riassumibili nell’affermazione “Extra Ecclesiam nulla salus”.
È in questo senso che la questione della liturgia della celebrazione eucaristica diventa davvero fondamentale, se è vero, come è vero ed è stato ribadito dal Concilio, che “La Chiesa fa l’eucaristia e l’eucaristia fa la Chiesa” e che solo cristiani adulti possono fare una “buona” celebrazione eucaristica. Ed è in questo senso che la proposta di Angelina Alberigo, che sottoscriviamo integralmente, ci sembra illuminante. Con la sola precisazione che il superamento dell’ “estraneità tra chiesa e storia”, che “è stata una sofferenza per molti e una non verità del nostro pregare”, di cui lei parla dovrebbe essere inteso anche nel senso che al riconoscimento dell’esistenza di una pluralità di tradizioni culturali deve corrispondere il riconoscimento di una pluralità di liturgie che celebrano il memoriale di un unico Dio.
Infine, se il riferimento alla cultura del nostro tempo come radicalmente diversa da quella che ha permesso lo sviluppo della dottrina cattolica tradizionale sembrasse totalmente o parzialmente ingiustificato, vorremmo aggiungere questa riflessione: in un tempo nel quale anche la matematica abbandona le sue pretese di verità assoluta e riconosce “che non possediamo, e probabilmente mai possiederemo, uno standard di dimostrazione matematica che sia indipendente dal tempo, dall’argomento, o dalla persona che lo propone …  [e bisogna] ammettere che in generale non esiste una verità matematica assoluta, qualunque cosa possa pensare su questo il pubblico”; in un tempo nel quale anche la fisica deve ammettere che non esistono “fatti” sperimentali indipendenti da una teoria, e che le teorie dipendono in generale dal punto di osservazione da cui ci si pone; in un tempo nel quale anche tutte le altre discipline hanno abbandonato ogni pretesa di assolutezza; in un tempo con queste caratteristiche, che è il nostro tempo, la pretesa di sostenere una teologia assoluta, al di fuori della mischia, non è solo, e non tanto, un ingiustificato atto di superbia intellettuale, quanto un’abdicazione al dovere di parlare agli uomini e alle donne in carne ed ossa che in questo tempo vivono e soffrono. In altre parole sarebbe un tradimento dell’annuncio evangelico.
D’altronde forse non possiamo aspettarci altro da una Chiesa i cui vertici “ci hanno abituato a tutto. Quasi come se la morale cattolica si applicasse per i nemici e si interpretasse per gli amici. Abbiamo imparato che perfino il sacramento dell’eucaristia, perfino la bestemmia possono essere soggetti alle logiche politiche. Ci hanno insegnato che la Segreteria di stato vaticana perdona settanta volte sette a Pilato, Erode e Caifa, ma lapida la peccatrice, dimentica al suo destino il buon ladrone e lascia Lazzaro nella tomba. Siamo stati abituati a vedere prelati e cardinali partecipare allegramente  e senza ritegno ai banchetti organizzati da Erode o dai suoi sodali per celebrare una triste union sacrée, dimentica di quanto avveniva fuori del palazzo” (da  uno scritto di Piergiorgio Cattani pubblicato qualche settimana fa su Il Margine).
Per ulteriori informazioni vedi il sito www.statusecclesiae.net/


Lunedì 24 Gennaio,2011 Ore: 12:51
 
 
Commenti

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Autore Città Giorno Ora
Concetta Centonze San Donà di Piave 09/5/2011 15.40
Titolo:La Parola
Negli ultimi dieci anni, l’insoddisfazione nei confronti del mio essere cristiana mi ha condotto ad una ricerca favorita dall’utilizzo di internet.
Il primo incontro è avvenuto con le omelie di padre Alberto Maggi attraverso Arcoiris; in seguito sono entrata in rapporto con Koinonia di padre Alberto Bruni; mi sono iscritta al gruppo di “Noi siamo chiesa” di Vittorio Bellavite, partecipando ad alcuni incontri vuoi a Pistoia, vuoi a Milano e al primo incontro di Firenze del maggio del 2009.
Ascoltare i suddetti fratelli ha significato riconoscere la verità in ciò che dicevano e facevano.
Quello che ho appreso e compreso- me ne assumo la responsabilità- mi sembra non del tutto consonante con la posizione di don Pino Ruggeri accennata nel vostro articolo: la questione del perdono.
Il cristianesimo delle origini ricalcava in modo puntuale l’idea di una divinità arcigna a cui offrire sacrifici e, d’altra parte, non poteva essere che così vista la contiguità con la sinagoga e con il paganesimo.
Oggi, dopo 2000 anni di storia e di conoscenze antropologiche e psicologiche é ancora proponibile lo schema peccato- sacrificio/espiazione- perdono?
E‘ mai esistito un peccato originale? O questa espressione indica la condizione di paura dell’uomo primitivo che altro non è la paura per la non conoscenza di sé e del mondo circostante e quindi la sensazione di insufficienza ovvero peccato?
Se ciò fosse veritiero che senso avrebbe la venuta di Cristo? Essa avrebbe esclusivamente il compito di rivelare all’uomo la sua autentica natura: per l’homo sapiens sapiens era giunto il momento di compiere un’ulteriore evoluzione per superare la propria individualità egoistica che lo conduceva alla belluina affermazione di sé perpetrando un dominio sempre più animalesco sugli altri, come dimostrano la storia degli imperi antichi e l’esistenza della schiavitù.
L’umanità non poteva giungere da sola a tale consapevolezza: per questo Cristo è venuto a donarle la rivelazione che consisteva nel fargli intendere, grazie alla sua stessa vita e ortoprassia, il destino ulteriore che attende l’umanità e la sua partecipazione a un Tutto capace di amore disinteressato, amore creativo.
Per questo oggi non si dovrebbe più affermare che Cristo è venuto a “lavare i peccati del mondo”, a riaprirci le porte del Paradiso” poiché sappiamo che Egli morì per decisione di Caifa e per i compromessi tra il popolo ebreo e i suoi dominatori romani: compromessi in cui il frustrato Pilato si trovò a barcamenarsi.
Va quindi corretto il percorso prima accennato: peccato ( cioè non conoscenza da parte dell’umanità della propria divina natura) – perdono- conversione.
Dio ci aveva già perdonato, ci perdona ogni istante e Cristo, suo figlio, ce lo ha rivelato; al nostro operare spetta la libera scelta della conversione.
Per questo credo nella supremazia della la parola, giudico impellente necessità farla conoscere.
E’ la fedeltà a tale parola che ci fa cristiani, fedeltà da parte di tutti, gerarchia compresa -su cui ritengo abbiamo dovere di agire con correzione fraterna- prima che la chiesa di Roma diventi, contraddicendo il termine cattolico, sempre più romana e berlusconiana e non più cristiana.
Cettina Centonze

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