- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (0)
Visite totali: (266) - Visite oggi : (1)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org Rifondare l’economia: lo esige l’economia stessa!,di Jorge Arturo Chaves Ortiz

Rifondare l’economia: lo esige l’economia stessa!

di Jorge Arturo Chaves Ortiz

(traduzione dallo spagnolo di José F. Padova)


  "Rifondare l'aconomia": Vaste programme, direbbe il Generale De Gaulle, che però intendeva rispondere all'esclamazione: Mort aux cons! (Morte ai minchioni!) partita dalla platea. Il Generale Monti ci sta provando (a rifondare il diritto al lavoro) e, nel farlo,  si agita citando i sondaggi - ma non è un copyright del Berluska? - e dimenticando le sue ormai vaghe promesse di equità (e suscitando il sospetto che gli stia cadendo la maschera). Eppure l'economia ha una "intrinseca dimensione etica, senza la quale perderebbe il suo carattere scientifico, sino a smarrire la sua stessa razionalità". Lo sostiene il prof. Jorge Arturo Chaves dal Costa Rica, nell'articolo qui riportato.
Circa la bagarre sull'art. 18 mi sembrano conclusive le osservazioni, in punta di diritto costituzionale, di Gianluigi Pellegrino, il cui articolo apparso su Repubblica del 28.3.2012 qui riporto per chi non lo avesse letto.(J.F.Padova)

Rifondare l’economia: lo esige l’economia stessa!

Jorge Arturo Chaves Ortiz, San José, Costa Rica, professore emerito di Economia etica all’Universidad Nacional, San José, Costa Rica (v. anche http://es.scribd.com/)

(traduzione dallo spagnolo di José F. Padova)

Non sono le autorità morali e religiose quelle che possono risolvere le crisi economiche…

1. Da quando iniziò la grande crisi finanziaria internazionale, nel 2008, tutto il mondo si chiede che fare. Davanti a tanto grande corruzione, come quella che ha segnato gli avvenimenti, sarà già giunto il momento in cui le autorità morali intervengano per mettere il freno a ciò che sta succedendo? Di fronte a tanta incapacità politica nella gestione della crisi non rimarrà altro se non appellarsi alle Chiese perché infondano un altro genere di comportamento nei responsabili della finanza, della produzione e del commercio? Grande è la tentazione di mirare in questa direzione. Ma no. Per di lì non si va da nessuna parte. Per uscire dalla confusione nella quale si trovano tutti i Paesi non c’è bisogno di moralizzare l’economia dal di fuori. E meno che mai di sottoporla a giudizi religiosi.

Innanzitutto, è chiaro che con questo non si dice che resta soltanto da incrociare le braccia. Al contrario. Diventa sempre più evidente che l’attuale economia deve sottoporsi a un processo di rifondazione fin dalle sue radici, senza che abbiano a che dire né i maestri delle Chiese, né le autorità morali della società. Basterebbe che gli economisti e il loro circondario capissero che cosa è l’economia e per che cosa è, per intraprendere subito severe rettifiche alle teorie e alle pratiche attuali. E quindi un’economia che ricuperi la sua vocazione umana e scientifica originarie scoprirebbe entro sé stessa le sue esigenze etiche e contribuirebbe ad aprire la porta attraverso la quale tutti gli esseri umani raggiungano pienezza di vita e pertanto la loro realizzazione spirituale.

2. La maggior parte dei professionisti dell’economia contemporanea – legati a quella che è nota come la «corrente principale», alla linea chiamata «neoclassica» –, nella loro derivazione «neoliberista» non sopportano che si parli loro di giudizi etici con riferimento al loro campo di analisi. Considerano tali opinioni «soggettive» e aliene dal carattere «obiettivo» della scienza economica. Questa, affermano, deve muoversi per ragioni scientifiche, attraverso il linguaggio dei fatti e la forza dell’analisi, e non mediante affermazioni che pretendano di imporre percorsi di azione partendo da argomenti autoritari. Questo si applica a tutti i campi dell’economia: alla produzione, al commercio, al campo monetario e fiscale, ecc. Per esempio, se vi è un problema di prezzi elevati, di deficit tributario, d’inflazione o di svalutazione della moneta nazionale, gli economisti cercano nei fatti come ognuno di questi problemi è in rapporto con altri elementi economici: gli interessi, l’indebitamento, il livello di aumento dei salari o dei profitti, e altro ancora. Per diagnosticare così dove sono gli errori. Tuttavia non ammettono che dal di fuori si venga a dire loro, per esempio, che indipendentemente dalla dinamica del mercato ci si possa pronunciare su quello che deve essere prodotto, o come possano essere i prezzi dei prodotti, o il tipo di posti di lavoro da creare. Assumendo queste posizioni gli economisti hanno in parte ragione. In quanto scienza, l’economia deve muoversi col metodo scientifico che le è proprio, in uno sforzo teso a conoscere come sono le realtà con le quali si confronta, come si relazionano fra loro le strutture fisse e quelle variabili, per sapere come procedere quando sorge un problema.

…perché l’economia stessa contiene una dimensione etica.

3. Tuttavia vi sono altri aspetti sui quali quegli analisti non hanno ragione. Vi sono dimensioni dell’economia delle quali non si rendono conto, perché sono del tutto ciechi per vederle, in quanto li impedisce il loro rigido approccio. Da sempre, fin dai suoi albori come pensiero articolato, la scienza economia si sviluppò come una disciplina scientifica che non soltanto si prospettava come risolvere i problemi tecnici che si presentavano nel funzionamento dell’economia reale ma che, prima e in più, si interrogava circa la stella polare della sua attività, definita da due domande chiave: per che e per chi funziona l’economia e per che e per chi si risolvono i suoi problemi, in un modo o nell’altro. Mentre la prima domanda, che sorge nella vita quotidiana, definisce la dimensione tecnica o ingegneristica dell’economia, gli altri due interrogativi esprimono il carattere etico e politico che ha ogni attività economica. Per questo motivo non occorre che autorità morali o religiose esterne vengano a indicare una direzione in senso morale, perché un’economia propriamente detta tenderà sempre a confrontarsi con questa intrinseca dimensione etica. Senza la quale l’economia perderebbe il suo carattere scientifico, sino a smarrire la sua stessa razionalità, pretendendo di convertirsi in un mero insieme di raccomandazioni tecniche per risolvere problemi, ignorando gli obiettivi per i quali lo sta risolvendo e a favore di chi lo sta facendo.

4. Nella pratica tuttavia accade che non si riconosca come l’attività economica mira a un per che e a un per chi, ma tuttavia non per questo trascura di optare per una risposta a questi interrogativi. Tutte le politiche economiche, gli strumenti governativi o imprenditoriali, portano sempre a costruire un certo tipo di economia e a favorire determinati gruppi sociali, per quanto non lo si dica. Gli strumenti tecnici che si escogitano per risolvere i problemi o contribuiscono a costruire una società più equa oppure rafforzano la concentrazione di ricchezze. O riescono a togliere dalla povertà gruppi sociali svantaggiati ovvero si interessano soltanto a generare profitti per i gruppi di potenti. Non esistono strumenti «neutri». Lo si può vedere nelle «soluzioni» previste più frequentemente per le recenti crisi: si rinvia l’aiuto ai disoccupati e alle famiglie che hanno perso la casa per rafforzare, al contrario, i gruppi finanziari che, paradossalmente, sono stati i principali responsabili della crisi. E tutto questo col pretesto di risolvere i problemi.

5. I cittadini sono i garanti dei fini dell’economia

Un’economia legata alla giustizia, alla libertà e alla solidarietà non è qualcosa quindi che dipende dall’intervento di qualche guru morale o religioso, ma nemmeno resta nelle mani del caso. Dipende dagli stessi analisti economici adempiere professionalmente a ciò che spetta loro, indicando come e quali risorse tecniche servano al fine di una società contrassegnata da quei valori e non dalla disuguaglianza e dall’esclusione. Certamente, come si è dimostrato soprattutto recentemente, questo compito degli economisti e degli esecutori politici non si definisce spontaneamente. Fin dall’interno dell’economia è necessario si eserciti una funzione di controllo. Si tratta della partecipazione di tutti i cittadini – i quali sono potenzialmente lesi dai provvedimenti economici –, il solo elemento che può garantire che quelle disposizioni servano alle necessità e agli interessi comuni a tutti. Si tratta dell’esigenza che l’economia sia trasparente circa i suoi propositi e suoi beneficiari del suo funzionamento e non confonda le idee alla popolazione con intenzionali esoterismi tecnici.

Si richiede un grande sforzo collettivo per rifondare l’economia

6. L’economia attuale, teorica e pratica, è qualcosa di molto differenziato da quello che le spetta essere, come insegna la storia. Soprattutto negli ultimi decenni il processo di «finanziarizzazione» ha scardinato l’economia dalla posizione sociale e scientifica che le spetta, convertendola in «tecniche per fare soldi», in modo sempre più irresponsabile.

Ha dimenticato, molto più di quanto appaia rispecchiato nei libri, la sua vocazione di scienza della produzione e della distribuzione di beni e servizi, allo scopo di rispondere alle necessità delle persone che convivono e in un rapporto ragionevole con il resto del pianeta. Ricuperare questa funzione originale dell’economia, che equivale a ridarle il suo carattere umano, è una sfida chiave per la sopravvivenza della società attuale e della vita sulla Terra. Tuttavia non è una sfida cui dare facilmente risposta, soprattutto perché la presente dinamica economica favorisce in misura sproporzionata piccoli gruppi con grandi poteri. Questi, e i teorici che li legittimano, si opporranno con tutte le loro forze a che l’economia cambi e ritorni a essere ciò cui è chiamata.

Però non occorre per prima cosa vincere la battaglia teorica per la costruzione di una nuova scienza economica – anche se è altrettanto necessario farla – né competere nel potere con coloro che oggi monopolizzano i risultati della creazione di ricchezze. Si può scommettere che il superamento dell’organizzazione e della dinamica economiche esistenti – inique e disumanizzanti – otterrà spazi che diano luogo a nuove relazioni sociali, politiche ed economiche – in piccole imprenditorialità, in movimenti municipali e in reti ambientaliste e di costume. Mosse dalle necessità e dispiegando l’incontenibile indignazione di fronte all’evidente ingiustizia, nelle fenditure del sistema attuale si formeranno nuove forme per produrre, commerciare, lavorare e generare profitto, contrassegnate dalla solidarietà, che diano vita alle migliori capacità delle persone. E queste relazioni umane di qualità – come  diceva Saint-Exupéry – sono «l’unico vero lusso», con un potere invincibile.


 

“la Republica”, 28 marzo 2012

L'articolo 18 e la Costituzione
Gianluigi Pellegrino

Caro direttore,
un mio diritto ed il potere del giudice a riconoscerlo possono dipendere dalla mera volontà del mio avversario in causa? Sicuramente no per fondamentali principi costituzionali. È allora in poche righe del documento approvato dal Governo il 23 marzo la sostanziale confessione dell'incostituzionalità (che sembra davvero manifesta) della previsione che si vorrebbe inserire nel nuovo testo dell'art. 18, là dove a pag. 10 si legge che ad assumere importanza decisiva ai fini dell'intensità della tutela cui il lavoratore avrà diritto è "la motivazione attribuita al licenziamento dal datore di lavoro".

Questo infatti vuol dire, come esplicitato nello stesso capitolo del testo governativo, che a parte l'ipotesi del licenziamento discriminatorio o disciplinare camuffato, in tutti gli altri casi di licenziamento pure manifestamente illegittimo perché arbitrario (non essendovi né ragioni disciplinai né ragioni economiche per disporlo), il diritto del lavoratore al possibile reintegro viene assurdamente condizionato al tipo di "bugia" che l'imprenditore ha ritenuto di inserire nella lettera di licenziamento (appunto la decisiva "motivazione attribuita al licenziamento dal datore di lavoro").

Se il datore di lavoro avrà arbitrariamente allegato inesistenti cause disciplinari allora il lavoratore ha diritto al reintegro; se invece l'imprenditore avrà allegato, altrettanto arbitrariamente, inesistenti ragioni economiche, solo per questo il reintegro è escluso!

L'incostituzionalità è quindi intrinseca a questo progetto di riscrittura dell'art. 18 e riguarda i cittadini in quanto tali prima ancora che come lavoratori. Principi fondamentali della nostra Costituzione impediscono che l'ambito di tutela di ciascuno di noi dipenda dalla volontà della nostra controparte (art. 24). Ed è sempre la Costituzione che impedisce che situazioni identiche vengano trattate in modo diverso (art. 3). E non c'è dubbio che un licenziamento privo dei requisiti di legge, lo è allo stesso modo a prescindere da quale sia la falsa allegazione che lo supporta.

Il progetto del Governo invece consegnerebbe la seguente assurda situazione. Se un imprenditore vuole semplicemente licenziare (non per discriminazione ma) per semplice voglia di farlo senza che ve ne siano le sole ragioni che l'ordinamento prevede per giustificarlo, ebbene l'ambito di tutela del lavoratore dipenderà incredibilmente da quale falsa ragione il datore di lavoro deciderà di allegare nell'illegittimo ben servito. Se scriverà che è per ragioni disciplinari, il giudice che ne ac certa l'inesistenza potrà reintegrare il lavoratore. Ma se invece il capo azienda scriverà che è per ragioni economiche, il diritto al reintegro del lavoratore svanirà di incanto, e il giudice che pure accerti l'inesistenza anche di quel motivo, viene per legge costretto a poter accordare solo l'indennizzo. E ciò solo in ragione di ciò che il datore di lavoro ha (falsamente) dichiarato.

L'incostituzionalità è quindi intrinseca nel progetto del Governo per una sua clamorosa contraddittorietà interna. Perché da un lato afferma il giusto principio generale in base al quale in caso di licenziamento illegittimo può esservi anche il diritto al reintegro (a seconda dei casi che verranno accertati dal giudice); però poi d'improvviso crea una fessura dove questo diritto svanisce di incanto e per sola volontà della parte che ha interesse a farlo svanire. Una fessura che all'evidenza rischia di diventare voragine contraddicendolo stesso impianto che il Governo ha stabilito di seguire.

A ciò si aggiunga che la salvaguardia infine inserita dal Ministro Fornero per i casi in cui il lavoratore riesca a dimostrare che si sia camuffato un licenziamento discriminatorio o disciplinare, non solo non risolve la questione ma rende l'ingiustizia ancora più clamorosa. Ed infatti arriviamo al paradosso che dinanzi a un licenziamento non discriminatorio ma arbitrario che allega inesistenti ragioni economiche, ha maggiore tutela il lavoratore che possa dire di essersi macchiato di qualche colpa disciplinare rispetto a quello che invece nessuna colpa possa attribuirsi!

Il punto è che Costituzione alla mano, a parte le ipotesi di nullità del licenziamento per discriminazione, tutti gli altri casi di licenziamento illegittimo devono avere lo stesso ambito di tutela, quale esso sia. È senz'altro legittima l'opzione del Governo di passare da un sistema che prevede sempre il reintegro ad un sistema più flessibile dove l'intensità della tutela è affidata al giudice del caso concreto. Ma così deve essere sempre, in tutti i casi di licenziamento illegittimo. Non può certo una delle parti in causa determinare quali siano i diritti della controparte e quali siano i poteri del giudice, pena la frontale violazione dell' art. 24 della Costituzione che garantisce ad ogni cittadino (lavoratore o meno che sia) la quantità e l'intensità delle tutele apprestate dall'ordinamento, non certo dalla volontà del suo avversario in causa.

È davvero sorprendente che si stia creando tutto questo sconquasso su una ipotesi normativa che per come progettata non supererebbe il più elementare degli esami di costituzionalità.
------------------------------------------------
Costituzione della Repubblica Italiana
Art. 3
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Art. 24.
Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.
La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.
La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.



Giovedì 29 Marzo,2012 Ore: 16:12
 
 
Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (0) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
Stampa estera

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info