Ventennale del Terremoto dell’Irpinia del 1980
Gregorio Pagliara: Un poliziotto fra le macerie della prima ora

Testimonianze di ieri e di oggi.


di Giovanni Sarubbi

Il gruppo di Gregorio Pagliara in un raro momento di relax durante l'intervento in Irpinia nel 1980

Gregorio Pagliara vent’anni fa aveva 28 anni. Era un giovane poliziotto in servizio al reparto celere di Taranto. Arrivò in Irpinia il 24 novembre con una colonna di mezzi della polizia provenienti dalla sua città. In Irpinia c’è rimasto sei mesi ricevendo, per l’attività svolta, un diploma di benemerenza ed una medaglia dal Commissario Straordinario per le zone terremotate della Campania e della Basilicata Giuseppe Zamberletti. Ecco i suoi ricordi.
Dov’eri il 23 novembre?
"Al momento del terremoto ero in auto diretto a Roma dove il giorno dopo dovevo sostenere un esame. Verso quell’ora transitavo sull’autostrada NA-Bari all’altezza di Lacedonia. Non mi accorsi di nulla. Seppi del terremoto solo una volta giunto in albergo. Cercai di mettermi in contatto con la famiglia e con il comando di reparto ma inutilmente. Il black out telefonico era totale. Solo la mattina dopo riuscii a parlare con mio padre e con il comandante del reparto che mi chiese di ritornare il prima possibile. Eravamo stati tutti allertati e a Taranto erano già pronti a partire. Alle 8,30 mi recai al Ministero dell’interno. Non si parlava d’altro che della tragedia. Alle 9,00 svolsi l’esame che fu di esito positivo. Subito dopo mi rimisi in viaggio nonostante avessi cinque giorni di ferie. Arrivai a casa verso 1e 16,30. Alle 19 ero a Taranto da dove partimmo con destinazione Conza della Campania dove giungemmo a mezzanotte. Cominciò cosi la mia avventura in terra d’Irpinia".
Quale fu il primo impatto con la tragedia?
"Quando uscimmo dall’autostrada piombammo nel buio più fitto. I paesi, di solito illuminati, erano al buio. Ci trovammo di fronte ad uno spettacolo allucinante con cumuli di macerie dappertutto. A Conza arrivammo poco dopo mezzanotte. Ci fermammo vicino a quella che doveva essere una caserma. Nessuno però osò entrarci dentro. Eravamo partiti senza alcuna attrezzatura: non avevamo fotocellule e al buio non potemmo fare nulla. Non avevamo neppure da mangiare. Dormimmo come meglio potemmo nelle auto. All’alba eravamo tutti in piedi. Lo spettacolo era tremendo. Dappertutto c’erano macerie, poche le case in piedi. Eravamo li in servizio di prevenzione e anti sciacallaggio, ma facemmo tutt’altro. Ci mettemmo a scavare con le mani, con l’unica protezione dei guanti che ognuno di noi aveva in dotazione e con mezzi di fortuna, insieme agli abitanti che si erano salvati ed in grado di lavorare. La maggioranza era però come inebetita. Quando ci vedevano ci tiravano verso le proprie abitazioni, urlando e piangendo, perché li aiutassimo a trovare i propri cari ancora vivi. Purtroppo cominciarono ad affiorare i primi cadaveri, ma, grazie a DIO, riuscimmo a trovare qualcuno ancora vivo. Lavoravamo senza soste. Non si può spiegare in che stato eravamo già dopo qualche ora. I guanti divennero inservibili subito, ma nessuno si lamentava, nessuno disse una parola che non fosse necessaria. Avevamo gli occhi lucidi per le lacrime, tanto era la drammaticità che si viveva e tanta la commozione nel vedere i corpi straziati e i parenti piangere la perdita chi di un figlio chi della moglie. Passammo tutto il giorno del 25 così. Solo a sera ci accorgemmo che non avevamo mangiato nulla. Ci dovemmo accontentare di mezza scatoletta di tonno a testa, ma nessuno si lamentò. I sopravvissuti stavano peggio di noi".
Disorganizzazione a parte, fra i problemi che doveste affrontare, quali quelli che più ti sono rimasti impressi.
"Nonostante il dramma, ci furono i primi arresti per sciacallaggio. Ricordo quando trovammoun giovane morto con oggetti d’oro che gli uscivano da tutte le tasche. Non si è mai saputo chi è stato. Probabilmente fu ucciso perché era stato trovato a rubare. Lo lasciarono con tutto il mal tolto addosso per indicare il perché della sua morte. Una sorta di monito per chiunque avesse voluto fare altrettanto. Un altro problema drammatico che dovemmo affrontare fu quello dei cani randagi. Operavano in piccoli branchi. Durante i primi giorni dell’emergenza, li abbiamo sorpresi a mangiare i cadaveri. Ma li abbiamo visti attaccare anche i superstiti. Nei primi giorni, per i bisogni corporali, ci si serviva di posti appartati, lontano da tutti e all’aperto. Un collega fu assalito da uno di questi branchi. Si salvò solo perché era armato. Gli spari ci fecero accorrere: lo trovammo semi nudo e terrorizzato. Fu solo dopo questo spiacevole episodio che costruimmo una fossa settica di fortuna".
Dopo quanti giorni riceveste il cambio?
"Il gruppo della prima ora, me compreso, rimase nella zona per 15 giorni. Quando ricevemmo il cambio per tutti noi fu una benedizione. Eravamo scandalosamente sporchi. Ci si lavava, ma solo il viso, con la neve facendola sciogliere su di una stufa. Non c’era la possibilità di spogliarsi, lavarsi e cambiarsi. Fu cosi che, puzzolenti come maiali, ci incamminammo verso la nostre case. Era uno spettacolo vederci: sembravamo di ritorno da una guerra, tutti con la barba lunga e con molti chili in meno e occhiaie da far paura. A casa, quando mi videro, si spaventarono. Dissi loro di non avvicinarsi a me e di prepararmi subito un bagno caldo e una capiente busta della spazzatura dove buttai tutto. Nonostante il dramma vissuto, quindici giorni dopo, come volontario, ritornai a dare il cambio al gruppo che ci aveva rilevato. Durante il periodo di riposo nessuno di noi aveva potuto dimenticare i drammatici momenti che avevamo vissuto. Nei primi giorni avevo avuto modo di inoltrarmi nel territorio e tutto era allucinante, lutto dolore e macerie. Cosi, nei mesi successivi, ogni 15 giorni ritornai da volontario sui luoghi terremotati, dove sono stato fino alla fine di maggio dell’81".
Rifaresti quello che hai fatto?
"Sicuramente. Quello che ci confortò fu il sapere che il nostro lavoro, almeno in parte, è riuscito a dare sollievo a tanta gente meno fortunata di noi".



Lunedì, 04 marzo 2002