L’attesa inesausta del Regno

Ricordare Sergio Quinzio in tempo di avvento


di Paolo Pegoraro

A dieci anni dalla morte, la figura di Sergio Quinzio, singolare biblista laico, autodidatta, continua a spiccare nel panorama italiano per l’originalità di pensiero e per la radicalità in cui poneva domande essenziali per tutti i cristiani.


La figura di Sergio Quinzio (1927-1996), a dieci anni dalla scomparsa, merita di essere riscoperta non solo per la formidabile attualità del pensiero, quanto più per il coraggio con cui Quinzio ha assunto in tutto il suo dramma, dall’interno della fede, lo svuotamento di senso della contemporaneità.
Cominciamo dalla fine. L’Apocalisse si conclude con la promessa del Signore: «Vengo presto!». Se, come insegnano alcuni critici, il significato di un libro si rivela nella sua conclusione, allora è alla luce di queste parole che bisogna rileggere tutta la Bibbia. È quello che ha fatto Sergio Quinzio, singolarissima figura di biblista laico e autodidatta, senza lauree né accademie. Le sue cattedre furono l’editoria, la stampa nazionale, le interviste alla radio e alla televisione. Dalla solitudine di Isola del Piano l’originalità del suo pensiero incuriosiva e conquistava. O forse a colpire, più che l’originalità, era l’esasperata pervicacia con cui Quinzio si avvinghiava ai propri interrogativi, l’insofferenza per le conciliazioni di comodo, la fedeltà lancinante al grido di Giobbe: perché Dio non salva ancora? Perché il Regno di Dio non si è definitivamente realizzato? Quel «Vengo presto!» gli appariva ancora sospeso, inesaudito...
Nato ad Alassio il 5 maggio 1927, Sergio Guinzio - questo il vero nome - ricordava la sua infanzia come un mondo composto e ordinato grazie alla convenzionale educazione religiosa ricevuta dalla madre e nelle scuole salesiane. Ma questa visione pacifica del mondo si sarebbe incrinata ben presto davanti all’esperienza della morte e dell’ingiustizia: l’entrata in guerra dell’Italia; il servizio all’obitorio dove, ancora adolescente, Sergio deve ricomporre i corpi spappolati dalle granate; l’ingiustificato incarceramento del padre a opera dei partigiani.

Trasferitosi con la famiglia a Roma, Quinzio entra all’Accademia della Guardia di Finanza, dove scrive al fratello Patrizio Flavio le lettere che confluiranno nel suo primo libro, Diario profetico (1958). Già in queste pagine troviamo il richiamo a un’azione di testimonianza cristiana radicale, escatologica, aliena alle scorciatoie mondane di una Chiesa ridottasi a guida etica, umanistica o addirittura politica. Successivamente Quinzio incontra Ferdinando Tartaglia, il vulcanico sacerdote scomunicato che per lui rappresenta «il primo esempio di un pensiero religiosamente audace», anche se in seguito prenderà le distanze dalle sue posizioni.
Ma l’esperienza che lo scuote più profondamente sono i tre anni di calvario della prima moglie, Stefania Barbareschi, colpita da cancro, che lo lascia solo con la figlioletta Pia e la madre ottantenne. È in questo frangente che Quinzio - come ricorderà in un’intervista alcuni anni dopo - avverte la necessità di ritrovare il fondamento della propria speranza cristiana, accettando un confronto senza infingimenti con l’esistenza del male e del dolore nel mondo. Rifiutando secoli di impalcature filosofiche che hanno addomesticato lo scandalo della croce, Quinzio si rivolge alle radici ebraiche del cristianesimo e alla felicità anzitutto terrena - e non rinviata all’aldilà - che il Dio biblico promette all’uomo. Perché, se il mondo è redento, la bontà viene ancora calpestata? Per il credente non si tratta di una innocua equazione filosofica da risolvere con virtuosismo intellettuale, ma di un rovello affondato nel cuore dell’esistenza. L’impaziente desiderio che la salvezza si realizzi hic et nunc diventa per Quinzio il pungolo della fede, il motore che le permette di non implodere in routine nullificante.
Proprio per questo ne La croce e il nulla (1984), uno dei suoi saggi più famosi, Quinzio sosterrà che il nichilismo è il frutto tardo ma inevitabile del cristianesimo secolarizzato; l’annuncio della morte di Dio, d’altra parte, era già contenuto nei Vangeli. Nella croce vittoria e sconfitta si equivalgono e scompare per sempre il Dio onnipotente chiuso nella propria perfezione, mentre sopravvive un Dio indebolito e bisognoso degli uomini, quello nato a Nazareth, che salva attraverso la consolazione e la tenerezza. «Diventa sempre più difficile aspettare la consolazione promessa», conclude Quinzio, «e tuttavia, a mio giudizio, diventa anche sempre più necessario».
È in questa paradossale assunzione delle ansie contemporanee che risiede tutta la bruciante vitalità e attualità del suo pensiero, come ci conferma la professoressa Anna Giannatiempo Quinzio: «Sergio diceva che la sua era una disperazione sorridente», racconta. «Cercava sempre di essere, come dice la tradizione ebraica, con la tristezza nel cuore ma il sorriso sulle labbra. È vero, le vicende della vita e della storia sono angoscianti, ma lui credeva davvero nell’esistenza di una speranza oltre tutto, e questa speranza gli dava quanto meno la forza di sopportare la disperazione, di non chiuderla su di sé ma al contrario di aprirla al Signore nella domanda e nella preghiera».

· In una lettera, Quinzio le scrisse che «la felicità è un mistero più grande della sofferenza».
«Sì, perché lui diceva che se non ci fosse la felicità, non potremmo davvero sapere che cos’è l’essere felici e desiderare d’esserlo, né potremmo accorgerci di quanto grande è la sofferenza che ci allontana da essa. La felicità è il mistero più grande perché è un desiderio continuo e insopprimibile, nonostante l’uomo la attinga per attimi. È una promessa che si spera eterna, anche se Sergio diceva che la felicità con cui Dio consolerà i suoi fedeli continuerà a portare i segni incancellabili della sofferenza, proprio come Gesù risorto porta ancora le piaghe della croce».
· Nonostante sia stato uno dei primi importanti divulgatori biblici in Italia, Quinzio non ha suscitato particolari entusiasmi nella stampa cattolica.
«Solo in questi anni la cultura religiosa si è aperta all’interferenza dei laici su tematiche che, soprattutto in Italia, sono sempre state retaggio del clero. Capisco che suscitasse qualche apprensione, sia a causa dell’epocale eredità modernista, sia perché Sergio non apparteneva a nessun gruppo né a qualche accademia. Ma ha avuto anche degli estimatori. E poi Sergio è sempre stato fedele alla Chiesa: era molto scrupoloso su questo e non ha mai saltato la Messa, recitava il rosario, si confessava e comunicava».
· Viceversa, i suoi scritti hanno avuto una larghissima influenza su molti intellettuali e scrittori.
«Indubbiamente nel mondo laico Sergio ha ricevuto molta attenzione, ma proprio per i suoi pensieri religiosi. Tantissimi si sono avvicinati ai temi della fede e del cristianesimo proprio perché gravitavano attorno a lui. Ricordo Ferrucio Masini, ma anche lo stesso Erri De Luca, Massimo Cacciari, Maurizio Ciampa, Gabriella Caramore, Piero Stefani... Tutte persone che hanno ruotato intorno a Sergio e lui, in qualche modo, li ha attratti verso questo mondo».
· La fede deve farsi carico della sofferenza del mondo: c’è una certa somiglianza tra la disperazione di Kierkegaard e la delusione di Quinzio?
«Kierkegaard è un pensatore che Sergio stimava molto, anche se non condivideva il suo accanirsi contro la Chiesa in quanto istituzione. Sergio diceva che la Chiesa è nella storia, ha il suo cammino, ha le sue pecche, mentre quello che noi dobbiamo assolutamente cercare di riscoprire e di vivere è l’originario messaggio cristiano, cioè la sua tensione escatologica. Per lui tutto si giocava su questo».
· Secondo Quinzio, il pensiero nichilista è stato un’estrema invocazione di salvezza. Il nichilismo di oggi, invece, è una prassi che - come lei scrive - elude le contraddizioni per rendere meno necessaria la salvezza.
«Sì, perché nonostante le contraddizioni siano già scoppiate tutte, invece di prenderne coscienza ci stendiamo sopra il velo della ragione. Si è sempre insistito sulla debolezza della volontà che vede il bene e non riesce a farlo, ma questo discorso vale anche per la ragione. Anche la ragione è limitata, peccabile, portata più all’errore che alla verità... e oggi le contraddizioni della ragione le abbiamo sotto gli occhi: l’uomo non trova più una finalità ai percorsi della sua vita e allora si gioca giorno per giorno. Oggi la fede deve prendere coscienza che l’uomo è arrivato al limite delle proprie possibilità, oltre le quali c’è solo la violenza contro di sé e contro gli altri. La fede è la risposta al di là di tutto questo, ma non possiamo dirla se non ci sprofondiamo, come Dostoevskij, nelle contraddizioni, nelle povertà, nelle insufficienze, nelle domande senza risposta in cui la maggior parte delle persone si dibattono».

Paolo Pegoraro
Jesus, dicembre 2006


Articolo tratto da:

FORUM (35) Koinonia

http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/



Giovedì, 14 dicembre 2006