DON MICHELE DO TESTIMONE DI UN CRISTIANESIMO CREATIVO
DON MICHELE DO - NOTE BIOGRAFICHE
Nato a Canale, presso Alba (Cuneo), il 13 aprile 1918, fu ordinato prete nel 1941 ed abbandonò l'insegnamento in seminario nel 1945, ritirandosi nella frazione di St. Jacques di Champoluc (Aosta), villaggio di alta montagna senza strada percorribile in auto, nel quale don Michele cercava la vita ritirata, pensosa. È stato rettore di quella piccola chiesa fino a quando, nella vecchiaia, si è ritirato nella Casa Favre, sulla pendice del monte, sopra il villaggio, una pensione-fraternità, divenuta luogo di amicizia e spiritualità aperta.
Il suo maggiore riferimento, nella linea del modernismo più spirituale - il cuore umano come primo luogo della sete religiosa e dell'evangelo universale - fu don Primo Mazzolari. I suoi maggiori amici e fratelli di cammino furono David Maria Turoldo, Umberto Vivarelli, padre Acchiappati, Ernesto Balducci, sorella Maria di Spello e, tramite lei, Ernesto Buonaiuti e molti altri: "non solo credenti, ma tutti assetati e commensali di verità e autenticità vissuta", ha detto Peyretti.
Il piccolo centro di spiritualità, appartato, ma senza polemiche superficiali rispetto alle strutture ecclesiastiche, è stato un centro vivissimo di amicizie e accoglienze, che ha attirato una quantità di persone in ricerca, da tutte le condizioni umane: "È stato una grande anima, uno spirito acceso dal fuoco vivo dello Spirito. Un cercatore instancabile di Dio", continua Peyretti. "Fremeva e cercava, in ogni colloquio e incontro, l'aiuto e l'ascolto nostro per una rilettura essenziale del cristianesimo e di tutta la ricerca spirituale umana, e comunicava tracce preziose di luce". È morto il 12 novembre 2005.
Dal libro di don Michele Do
PER UNA IMMAGINE CREATIVA DEL CRISTIANESIMO
a cura di Clara Gennaro, Silvana Molina e Piero Rocca
1 - PELLEGRINAGGIO ALLE SORGENTI
È maturata dentro di me, da molto tempo, una distinzione che ritengo fondamentale: la distinzione tra inquieti e irrequieti.
Gli inquieti sono alla ricerca di una più alta verità sia all'interno del Cristianesimo che al di fuori; sentono l'esigenza di un rigore di pensiero. È anche per questo che avvertono talvolta un distacco molto forte dalle nostre chiese. "In esse i veri cercatori non entrano più"- mi disse un mio grandissimo amico, salito troppo presto in più alta luce, con il quale ho compiuto un lungo cammino, - "perché nelle chiese non risuonano più né alte domande, né alte risposte". È una parola questa molto dura ma talvolta molto vera. Allora nella traccia di itinerario religioso che ho elaborato, non sapendo dare delle alte risposte, mi sono sforzato almeno di esprimere delle alte domande.
Sono domande fondamentali, che non possono essere eluse o aggirate e su cui occorre tentare di far chiarezza. Il rischio è che tutta la nostra attività culturale, le nostre riviste, le teologie stesse, vadano alla ricerca di tematiche strane, complesse e non affrontino mai quelle che sono le domande fondamentali, essenziali, costitutive del cammino religioso dell'uomo. La nostra teologia, la nostra presentazione del Cristianesimo, dunque, non hanno più la seduzione della bellezza e della verità. Anche per questo c'è una diserzione, una sorta di "scisma sommerso" di cui ha recentemente scritto Prini, cioè un dissenso silenzioso, ma diffuso, di coloro che non fanno più proprio l'insegnamento della Chiesa su varie questioni dottrinali e morali, ma si sentono attratti da religiosità vaghe e molto diverse. Io ritengo, dunque, che ci sia l'esigenza di una rilettura in profondità del Cristianesimo.
Ritornando alla distinzione tra inquieti e irrequieti va precisato che gli inquieti sono alla ricerca di una più alta verità e sono disposti a pagarne il prezzo, gli irrequieti sono, invece, alla ricerca di sensazioni religiose, di emozioni.
La sensazione ha una legge fondamentale: la legge della droga, sia essa chimica o psichica o religiosa. L'emotività va stimolata, ha bisogno, dunque, di sensazioni sempre più accentuate. Anche nell'ambito religioso ci sono manifestazioni di carattere emotivo, psicologico che creano un clima di sensazioni, di emozioni artificiose, drogate, appunto.
Ricordo come parecchi anni fa nella sinagoga di Roma partecipai, insieme ad un'amica ebrea, alla commemorazione dell'assalto alla sinagoga, da parte di fascisti e nazisti. Fu una celebrazione austera, impressionante nella sua sobrietà. La sera stessa, nel tornare a casa, passammo accanto a una chiesa da cui provenivano dei canti. Entrammo: era il momento, credo, in cui si dà l'abbraccio di pace. Ma c'era una tale confusione, un tale disordine, da sembrare un'assemblea drogata. Non era una liturgia serena, bella, vera. Avvertimmo molto forte il contrasto tra l'austerità della celebrazione laica, di grande intensità e forza, e questo spettacolo di emotività e di eccitazione.
Stiamo attenti, perché in alcune liturgie c'è spesso non una ricerca di verità più profonde, ma la ricerca di più forti sensazioni emotive.
Queste due celebrazioni le porto in me come due icone. E a questo riguardo vorrei commentare alcune immagini religiose, che ci permettono di approfondire la situazione tragica del Cristianesimo.
Una di queste icone, su legno, è un Emmaus; ha tutta una storia, è il primo lavoro che ho fatto col pantografo, su una copia fattami da una "piccola sorella' di Charles de Foucauld.
In questa immagine della cena di Emmaus è raffigurata la ricomposizione di una crisi. I dodici discepoli, infatti, dopo la tragedia della morte di Cristo, si sono dispersi: ognuno, come i due pellegrini di Emmaus, è andato per la propria strada. C'è, dunque, una comunità in frantumi, ma ancor più c'è una cristianità in frantumi: c'è, infatti, una specie di diserzione, un'emorragia perché l'immagine che i discepoli avevano del Cristianesimo, dell'esperienza di Cristo, era ancora un'immagine carnale. Quindi, scomparso Cristo, si ha una crisi di cristianità e una crisi di immagine cristiana. I discepoli erano, dunque, doverosamente e intelligentemente tristi. Se ricordo la cristianità della mia giovinezza, della mia infanzia e la confronto con la dissacrazione e la frantumazione della cristianità di oggi, non posso non essere triste. Come i pellegrini di Emmaus con la morte di Cristo si aggrappavano ad immagini di una cristianità andata in frantumi, il rischio dei nostri giorni è quello di voler far rivivere una cristianità che non c'è più.
Lungo il cammino i due discepoli rivivono e raccontano allo sconosciuto la loro esperienza e la condividono con lui. Allora il Pellegrino misterioso dice: "Oh stolti e tardi di cuore" e incominciando dai profeti apre loro il senso delle scritture, cioè rilegge con loro la sua esperienza alla luce delle scritture. Poi "lo spezzar del pane"; lo sparire del Pellegrino e i due discepoli riprendono il cammino senza più paura, perché oramai hanno fatto il salto qualitativo da una religione fondata su un'immagine carnale ad una di più alta spiritualità. E diranno tra di loro: "Non ci ardeva il cuore mentre egli parlava lungo la via?".
E questo è anche il problema di oggi: si tratta di non sprecare fatica e tempo per il recupero di un'immagine consunta di cristianità; come diceva Dossetti in uno dei suoi ultimi articoli: "Non sprechiamo fatica e tempo per il recupero di questi rottami di cristianità". Il compito essenziale è, invece, quello di ritrovare un'immagine cristiana che abbia in sé la seduzione della verità e della bellezza. Allora potremo aprirci ad accogliere un'immagine cristiana che faccia, come per i discepoli di Emmaus, ardere il cuore per una ritrovata intelligenza dell'esperienza vissuta con Cristo. Ci vuole l'ardere del cuore, ma per l'ardere di una ritrovata intelligenza. Quelli che sono a caccia di sensazioni, invece, cercano l'emotività, l'ardere del cuore, ma non per una ritrovata più alta intelligenza. Per costoro qualunque droga va bene: non è più la verità che accende il cuore. Queste forme di religiosità emotiva sono davvero realtà misere, che accendono, che entusiasmano, perché la mediocrità è molto più aggregante della nobiltà. La svolta del vero Giubileo, mi pare, dovrebbe proprio essere quella di ricercare una immagine cristiana che faccia ardere il cuore per l'ardere di una ritrovata intelligenza. Se cerchiamo la pura intelligenza troviamo, infatti, i giochi acrobatici della teologia attuale, che sono di una tristezza enorme. La ragione e la fede dovrebbero, invece, irradiare un'immagine cristiana che abbia in sé la seduzione della bellezza e della verità, che sia accessibile agli indotti intelligenti, ai semplici, ai poveri, quelli per i quali Gesù diceva: "Ti ringrazio, o Padre, perché le alte cose le hai rivelate ai semplici e agli indotti".
(pp. 111-115)
2 - PURIFICARE LE SORGENTI
Ogni vero profondo rinnovamento religioso, - se non vogliamo rimanere alla periferia della religione - consiste nel ri-scoprire, nel ri-trovare la purezza della immagine di Dio, perché questa possa generare ogni vita spirituale. Questa è la vera riforma religiosa e anche il dialogo interreligioso deve partire da queste profondità. Il valore della nostra vita spirituale infatti deriva dall'immagine sorgiva che noi collochiamo dentro di noi. L’immagine è alle radici ed è radice e fondamento di ogni vita spirituale. Ogni grande esperienza religiosa si riassume e si esprime in un'immagine. Se l'immagine che noi collochiamo nelle profondità del nostro cuore è un'immagine pura e creativa, allora pura e creativa sarà la vita spirituale che ne fluisce. Ma se l'immagine alla radice di noi stessi si svilisce, si degrada, si impoverisce, tutto quello che da essa fluisce si svilisce, si degrada e rimane impoverito.
II primo compito religioso, l'assoluto dovere religioso è questo: purificare le sorgenti. Questo dovrebbe essere anche il grande giubileo, che non è il pellegrinaggio a Roma, né a Gerusalemme, né alla Mecca, né a Benares, né alla quercia del Budda. Il vero pellegrinaggio consiste nel rientrare dentro di noi e purificare l'immagine divina che portiamo dentro.
Questa è la fondamentale riforma e ciò vale per tutte le realtà religiose: dobbiamo ritrovare l'immagine vera della chiesa, perché ne abbiamo un'immagine deformata, come dobbiamo ritrovare l'immagine vera della preghiera, quella della salvezza e della
redenzione. Ma questo è essenziale, prima di tutto e soprattutto, per l'immagine di Dio, che è la sorgente di tutta la realtà.
Questa è la sola fondamentale riforma religiosa che tocca tutte le religioni ed è la realtà e il tema di ogni dialogo interreligioso. Altrimenti quando ci si incontra c'è al massimo un inchino di reciproco rispetto tra le varie religioni e negli incontri dei dignitari delle grandi non si giunge nemmeno a questo. A Graz, infatti, questo inchino non è stato né generale, né totale. Per arrivare solo a questo non c'è bisogno di disturbare il Vangelo, basta prendere il Galateo di monsignor Della Casa.
Tra tutte le chiese cristiane lo sforzo deve essere quello di ritrovare l'immagine pura di Dio che Gesù ha collocato nel cuore e alla radice della vita e del cammino religioso.
(pp. 170-171)
3 – DIO SOLO NON BASTA
È una falsa spiritualità quella che non comprende la preziosità delle cose. Tantissimi anni fa ho letto una frase che mi è rimasta impressa ed era il titolo di un numero della Vie spirituelle, rivista dedicata ai contemplativi: Coloro ai quali Dio solo basta. L’Evangelo parla un altro linguaggio: Dio solo non basta. Gesù quando si trova di fronte la moltitudine di coloro che lo avevano seguito dice ai suoi discepoli una parola così umana: "Come faremo a dare da mangiare a tutta questa gente? Perché se li rimando a casa digiuni, verranno meno lungo la via"."' Pagina meravigliosa sulla quale si può fondare davvero la rivoluzione cristiana. Nessuno dev'essere digiuno di cose. D'altra parte questa è anche la linea del miracolo di Cana di Galilea: sembrerebbe un miracolo inutile ed è invece il "miracolo della gioia nuova e antica", come scrive Dostoevskij.
Lo stesso paradiso terrestre, senza una presenza amica, non bastava. All'attesa inespressa, muta, alla preghiera inarticolata di Adamo, alla sua tristezza Dio risponde creando la donna, la compagna dell'uomo! Dio scendeva sì, sul vespro, a passeggiare con l'uomo, ma sul volto dell'uomo c'era ugualmente un velo di tristezza, di solitudine: Dio dovette allora rivelarsi attraverso il sacramento di una presenza amica. Questa è la linea evangelica!
Attenti a certe povertà monastiche! L'ho sperimentato più di una volta: negli uomini così detti spirituali c'è una specie di distacco angelicato, che non è un reale distacco, ma è solo l'irresponsabilità di fronte alla vita, la non conoscenza della fatica e del valore delle cose.
Ricordo come una volta mi trovavo in un monastero, era d'autunno, faceva già abbastanza freddo ed i monaci all'imbrunire vollero accendere i termosifoni, che fecero funzionare tutta la notte: un caldo impossibile. Mancava l'educazione alla povertà, al valore delle cose. Guai al denaro facile! È bene che ognuno fatichi, perché nella fatica c'è il costo, cioè il vero valore delle cose. Il povero sa sempre il costo ed il valore delle cose, mentre il ricco conosce soltanto il prezzo.
(pp. 280-281)
4 – KOINONIA, COMUNIONE PROFONDA
Siamo figli di Dio ed Egli ci rende capaci di amare "come" Lui ama. "Siate perfetti come il Padre vostro che è nei cieli, dice Gesù. Allora noi avremo la divina capacità, il divino potere di amare.
Nella misura in cui Dio è grande in te, tu hai il potere di fare cose divine, come Gesù. Anzi Gesù dice con una parola misteriosa, abissale: "Farete cose anche più grandi!" Noi invece abbiamo fatto della carità qualcosa di meritorio, di appiccicato, mentre l'agape è la struttura, l'essenza, il cuore stesso del Cristianesimo.
Gesù dice nell'ultima cena: "Da questo vi riconosceranno, questo è il segno costitutivo che siete miei discepoli, se vi amerete l’un l’altro come io ho amato voi”. E nella preghiera al Padre chiede: "Che l'Amore con cui Tu hai amato me sia in loro e siano perfetti nell'unità'
Il credente vive nell'agape e nella koinonia, parola sacra, intraducibile, del vocabolario cristiano che significa comunione profonda. È questo che Gesù ha chiesto al Padre: che i suoi discepoli fossero uniti, perfetti, consumati nell'unità "nel Padre, nel Figlio e nello Spirito".
La koinonia trova nella fractio panis, nello spezzare del Pane, di Gesù, il suo segno più alto, divino. Il gesto essenziale di Gesù deve diventare il gesto essenziale del cristiano: lo spezzare il Pane in comunione. Il cristiano è, infatti, un essere di comunione in tutto quello che "ha", perché, in profondità, è un essere di comunione in tutto quello che "è". L'agape è la sua maniera di essere e di vivere. La Chiesa è "comunione dei Santi e delle cose Sante".
Il cristiano è l'uomo che ama e che condivide le cose con gli altri. Così facendo si arricchisce, come la fiamma che quando si divide non si impoverisce, ma si moltiplica. Il cristiano è davvero colui che fa del gesto della fractio panis il simbolo della sua esistenza di comunione tramite le cose.
(pp. 284-285)
Da una conversazione tenuta nel 1968
LA CHIESA È L'UMANITÀ
"Oggi, dopo il Concilio, si ha un'impressione di relativismo sulla Chiesa. La Chiesa si interroga, dunque non sa bene che cosa è. Con quale diritto si propone alla coscienza dell'uomo e del cristiano? Eppure vivere precede il conoscere. Infatti, chi conosce se stesso? chi conosce la vita? Siamo nella vita. Essa è la cosa più nostra, anche se è la meno nostra. Ma non sappiamo dire che cosa è. È una percezione per approssimazione. Così, anche la Chiesa è in noi, noi siamo la Chiesa, ma non sappiamo dire che cosa è la Chiesa. Gesù dice: "certe cose le capirete poi". Non respingiamo quello che non conosciamo perché è più grande di noi. Le realtà religiose sono più grandi di noi, non è possibile "capirle". Il Cristianesimo non è capire tutto: esso è, come Maria che rimeditava in cuore, portare dentro alcune grandi parole, è attesa paziente, e sotto l'urto degli avvenimenti quelle parole si illumineranno e saranno la luce e la risposta. Questa è la mia attuale esperienza gioiosa. Questo dovrebbe essere il catechismo: seminare negli uomini le grandi certezze e le grandi parole di Gesù".
"(...) La Chiesa è cercare di avere una piccola luce dentro di noi e di metterla in comune per far nascere una ricchezza maggiore. Non è una soluzione ma una ricerca. Romano Guardini aveva detto che il nostro è il secolo della riscoperta della Chiesa. C'è oggi in molti un positivo sconcerto di fronte alla nuova immagine della Chiesa che emerge dal dopo-Concilio. Dobbiamo non sostituire alla Chiesa delle sicurezze, che non rimpiangiamo, la sicurezza dell'incoscienza, dell'ignoranza dei problemi e del mistero.
C'è un disagio: come sentirci disarcionati, relativizzati. Bisogna che questa perplessità e ricerca non concluda in una emorragia, in un allontanamento, ma in un approfondimento del mistero. Il primo ecumenismo non è la riconciliazione tra le chiese, ma con la Chiesa. Perché oggi il problema tocca la Chiesa in se stessa, come istituzione, e non solo le sue sbavature ed errori".
"(...) Non possiamo uscirne (dalla Chiesa, ndr), ma starci e realizzarla, come uomini liberi e innamorati, con gioia e con passione, fedeli e pazienti. Dobbiamo stare attaccati alla Chiesa come Dio l'ha sognata e ce l'ha data, esservi annodati come un nodo nella fune. Perché la Chiesa è il cosmo".
Articolo tratto da: Luned́ 08 Giugno,2009 Ore: 16:44 |