Dibattito sui preti sposati
Valore teologico del presbiterato-uxorato

di p.Nadir Giuseppe Perin

L’affermazione del card. Claudio Hummes, neo prefetto per la Congregazione del Clero, che “il celibato dei preti non è un dogma”, ha suscitato un “vespaio” ed ha infastidito molto la “Curia romana”, anche se il contenuto dell’affermazione potrebbe essere paragonato “alla scoperta dell’acqua calda”. Si tratta, infatti, di una verità già nota ma che nessuno della Curia Romana ha mai avuto il coraggio di dire”.

Anche nei dibattiti televisivi, quando si parla del “celibato in rapporto al ministero presbiterale” si sottolinea come più volte sia stato ribadito dai Papi e dal Concilio Ecumenico Vaticano II che il vincolo tra sacerdozio e celibato non è richiesto esplicitamente dalla Sacra Scrittura, perché il Nuovo Testamento nel quale è conservata la dottrina di Cristo e degli Apostoli, non esige il celibato dai ministri sacri, ma lo propone come libera obbedienza ad una speciale vocazione o ad uno speciale carisma (Mt.19,11-12). Gesù stesso non ha posto questa pregiudiziale nella scelta dei dodici, come anche gli apostoli per coloro che venivano preposti alle prime comunità cristiane (1 Tim 3,2-5; Tit. 1,5-6). 

Il Signore concesse agli Apostoli ed ai loro collaboratori il diritto di condurre con sé le mogli e di richiedere anche per loro il mantenimento da parte delle chiese. La volontaria astensione di questo diritto è possibile e buona, ma è una questione personale: il diritto, la libertà di sposarsi, rimane accordata dal Signore.

Allora, possiamo chiederci se sia lecito sottrarre a coloro che sono chiamati da Dio al ministero presbiterale, il diritto divino ad avere una moglie, per formarsi una famiglia, un diritto che è garantito da Dio, il Creatore, e da Cristo Signore a tutti gli uomini, Apostoli compresi? Tale proibizione si può considerare valida? O non si tratta piuttosto di una legge nulla fin dall’inizio?

Ma - obiettano coloro che nella Chiesa hanno la responsabilità del ministero- nella chiesa latina il candidato al ministero presbiterale rinuncia volontariamente al matrimonio.

Ma, come il Signore dichiara ed il Vaticano II riconosce, l’astensione dal matrimonio può essere accolta solo in virtù del carisma. Se la pubblica promessa di osservare il celibato fosse intesa a sollecitare una volontaria astensione dal diritto divino di sposarsi, allora verrebbe richiesto qualcosa di impossibile a coloro che non hanno ricevuto il carisma del celibato e di conseguenza tale decisione non è vincolante.

Pertanto se la richiesta di rimanere celibi avesse il significato di una selezione di coloro che sono capaci di “rimanere soltanto non sposati”, allora questo scopo selettivo sarebbe inficiato dagli argomenti già riportati, vale a dire che coloro che nella chiesa latina hanno la responsabilità del ministero per la comunità, chiamano meno presbiteri in servizio nella Chiesa occidentale di quanti Dio vuole, mentre la Chiesa orientale accetta. Il fatto che Dio non abbia abbinato il carisma del celibato alla chiamata  al presbiterato, impedisce a coloro che  hanno la responsabilità del ministero per la comunità ecclesiale, di riservare il ministero presbiterale soltanto ai celibi carismatici.

Del resto, se nelle chiese cattoliche orientali vi è un clero uxorato – anch’esso lodato dal Vaticano II e se la Santa Sede accetta come candidati al presbiterato pastori protestanti ed anglicani convertiti, è evidente che la ufficialmente ribadita connessione presbiterato-celibato come legge generale della Chiesa latina è davvero fragile e piena di contraddizioni[1].

“Che il prete debba essere celibe, cioè debba rinunciare di sposarsi, per poter esercitare il ministero presbiterale”, non fa parte del “contenuto della Rivelazione”; non è espressa volontà di Dio. Si tratta di una legge ecclesiastica, fatta da coloro che nella Chiesa hanno la responsabilità del ministero per la comunità ecclesiale e che, come tale, qualora il bene della comunità lo richiedesse, potrebbe e dovrebbe essere modificata.

Infatti, dal momento che la legge suprema della Chiesa è la salvezza delle anime, qualora non si trovassero preti sufficienti tra coloro che hanno scelto il celibato come stato di vita, chi ha la potestà e la responsabilità del ministero per la comunità ecclesiale, dovrebbe chiamare al ministero presbiterale degli uomini sposati.

Anche se le ragioni del vincolo non sono riconducibili agli schemi della pura ragione, come affermò Paolo VI, nella pratica, di fronte alle varie situazioni di disagio, si dovrebbe mettere in primo piano, non tanto il problema personale del titolare del ministero, bensì il compito primario che la Chiesa è chiamata ad assolvere nel mondo. E, nel caso in cui si scontrassero il diritto divino della comunità di avere un prete per l’annuncio del Vangelo e la celebrazione dell’Eucaristia ed un obbligo ecclesiastico, come lo è il celibato dei preti, questo ultimo dovrebbe cedere dinanzi al diritto divino della Comunità. La funzione primaria, infatti, non dovrebbe mai essere subordinata alla caratteristica secondaria del titolare del ministero, cioè al fatto che il prete sia sposato o celibe.

Va precisato che le discussioni sull’obbligatorietà del celibato e la proposta di scindere le due vocazioni (presbiterato e celibato) non ebbero mai lo scopo di negare che il celibato  rappresentasse il dono di sé in Cristo e con Cristo alla sua Chiesa ed esprimesse, un servizio totale del prete nella Chiesa [2], o nascesse dalla “carità pastorale”[3], o esprimesse, almeno in teoria, la totalità dell’affetto del prete alla sua comunità, o si configurasse quasi come un “sacramento” di quel amore che stringe il Signore (Sposo) alla Chiesa (Sposa), o costituisse per i membri della comunità un segno dell’amore di Cristo per loro, mediante lo stile di vita del suo rappresentante, o diventasse così, in qualche modo, anche il “sacramento” del regno di Dio[4], un segno valido ed efficace ed una testimonianza misteriosa d’amore che “ la società moderna ha un estremo bisogno di ritrovare come  valore trascendente ed eterno, per recuperare il vero senso della vita e della storia, per superare la filosofia del nichilismo e dell’edonismo[5].

Tuttavia, il nocciolo della questione non è “abolire il celibato” (cioè proibire di sposarsi) nella Chiesa cattolica, ma togliere la sua “obbligatorietà”, derivante da legge canonica, per ritornare ad essere invece, “una scelta libera della persona” nella comunità cristiana. Solo così, questo carisma dello Spirito Santo donato solo ad alcuni e non a tutti, diventa un segno ed una testimonianza di realtà che sono già vive e presenti nella comunità ecclesiale, ma che ancora non hanno raggiunto la loro pienezza.

Allora, se Dio non ha proibito a coloro che chiama al ministero presbiterale di sposarsi, ma sono stati coloro che nella Chiesa hanno la responsabilità del ministero per la comunità ecclesiale, quali sono le motivazioni addotte a supporto di questa loro decisione? Sono le stesse evidenziate nei primi secoli di storia della Chiesa e tramandate poi per tradizione, oppure queste motivazioni sono cambiate? Se sono cambiate, perché coloro che hanno la responsabilità del ministero hanno preferito cambiare le motivazioni addotte a sostegno della proibizione di sposarsi per il prete, piuttosto di togliere la obbligatorietà di tale modello di vita per l’esercizio del ministero presbiterale?

Le critiche che vengono mosse riguardano sia la “proibizione di sposarsi per il prete” e sia le motivazioni addotte a sostegno di tale proibizione perché  la proibizione va contro il diritto divino che ogni uomo ha di potersi sposare, e le motivazioni sono poco convincenti, oltre al fatto che sia l’una ( la proibizione) che le altre (le motivazioni) sono lesive della libertà della persona, poco convincenti e contradditorie nella loro formulazione, perché è Dio che chiama al ministero presbiterale come alla vita matrimoniale…e Dio chiama chi vuole, quando vuole e senza imporre alcuna condizione.

Paolo VI, invece, disse espressamente che “spetta all’autorità della Chiesa (?) (= cioè di coloro che nella Chiesa hanno la responsabilità del ministero per la comunità) stabilire, secondo i tempi ed i luoghi, quali debbano essere in concreto gli uomini ed i requisiti perché essi possano essere ritenuti adatti al servizio religioso e pastorale della chiesa. “La vocazione sacerdotale, rivolta al culto divino ed al servizio religioso e pastorale del popolo di Dio, benché divina nella sua ispirazione e benché distinta dal carisma che induce alla scelta del celibato come stato di vita consacrata, non diventa definitiva ed operante senza il collaudo e l’accettazione di chi, nella chiesa, ha la potestà e la responsabilità del ministero per la comunità ecclesiale” (cfr. Paolo VI, Encicliche e Discorsi, Ed. Paoline, Roma 1968, Vol. XVI, p. 264).

Perché il celibato dono (carisma) dello Spirito, dopo che fu imposto per legge canonica al presbitero come modalità di vita, perchè giudicato  sommamente confacente  alla vita presbiterale è diventato un problema  per l’uomo? Perché l’amore, la cui caratteristica essenziale è quella di essere solo ed esclusivamente dono di sé all’altro, diventando un amore “codificato”, cioè imposto ha perso la sua qualità essenziale di “essere un dono” libero da ogni condizionamento, per diventare, invece, una modello di vita da conquistare e meritare, attraverso la preghiera, il digiuno, la rinuncia i sacrifici quotidiani.

La risposta ad un dono fatto “a condizione che…”  non sarà mai una risposta libera, come un celibato imposto non potrà mai essere vissuto come “dono dello Spirito”, ma sarà sempre vissuto come problema per l’uomo, finchè non diventerà nuovamente una risposta libera dell’uomo al dono gratuito di Dio.

Anche il Concilio Vaticano II, nel Decreto sul Ministero e la vita dei presbiteri, mette in risalto questo pensiero  (n.16) : “… il celibato, che prima veniva raccomandato ai sacerdoti, in seguito è stato imposto per legge nella chiesa latina a tutti coloro che si avviano a ricevere gli Ordini Sacri. Questo sacrosanto Sinodo torna ad approvare e confermare tale legislazione per quanto riguarda coloro che sono destinati al Presbiterato, avendo piena certezza nello Spirito che il dono del celibato, così confacente al Sacerdozio della Nuova Legge, viene concesso in grande misura dal Padre, a condizione che tutti coloro che partecipano del Sacerdozio di Cristo con il sacramento dell’Ordine, lo richiedano con umiltà ed insistenza ….

Ma, se Dio quando dona non pone alcuna condizione,perché continuare a sostenere  che “…il dono del celibato…viene concesso in grande misura dal Padre, a condizione che…”

Tale modo di pensare e di argomentare mette in luce proprio le due categorie che Gesù aveva escluso dalla sua comunità: la categoria del merito (che mette in risalto come l’uomo debba sforzarsi di essere in sintonia con la legge per meritare l’amore di Dio, grazie ai suoi sforzi) e la categoria dell’esempio ( che mette in risalto come l’uomo deve impegnarsi nell’osservare le leggi, anche quando sono complicate, a volte addirittura impraticabili, per essere, così, di esempio per gli altri). Cosa significa “essere di esempio”?  Significa mostrare la propria virtù o le proprie capacità all’altro, perché anche l’altro si sforzi, a sua volta, di imitarle.

Invece, quello che Gesù ha cercato di farci capire è che la nuova Alleanza, non essendo più basata sull’osservanza della Legge, sulla pratica dei precetti o dei comandamenti, ma essendo basata sulla grazia, sull’amore gratuito dato attraverso Gesù, l’amore di Dio non va meritato, in quanto viene dato gratuitamente e incondizionatamente a tutti, ma va semplicemente accolto.

Al posto della categoria del merito propria del Vecchio Testamentoe che comportava la categoria dell’esempio, Gesù fa subentrare la categoria del dono, propria del Nuovo Testamento e che comporta la categoria del servizio (= mettere le proprie qualità e le capacità possedute, al servizio dell’altro, perché ne possa usufruire ed ottenere gli stessi vantaggi e gli stessi benefici).

Mentre, con la categoria dell’esempio si dimostrano le virtù, la capacità, le qualità, perché altri si possano sforzare, in qualche maniera, di imitarle, creando così disuguaglianza e differenza, con la categoria del servizio si crea l’uguaglianza.

Con Gesù non ci sono leggi, per quanto divine, da osservare, ma solo un amore da praticare. “Da questo riconosceranno che siete i miei discepoli, se vi amerete gli uni e gli altri, come io ho amato voi”.

Ho l’impressione, invece, che coloro che nella Chiesa hanno la responsabilità del ministero, continuino a  voler racchiudere il messaggio di Gesù dentro a “delle otri vecchie”, cioè dentro una mentalità che rispecchia ancora quella del Vecchio Testamento, dove bisognava vivere secondo la Legge e la religione (intesa come quell’insieme di atti, di sentimenti che l’uomo deve avere nei confronti di Dio per essere a Lui gradito e meritarsi il suo amore) piuttosto che secondo l’amore e la fede (intesa come tutto ciò che Dio fa nei confronti dell’uomo). Perché ? Per non perdere il proprio potere sul popolo di Dio ! Ma, il Papa, i vescovi, in quanto successori degli Apostoli, non hanno forse ricevuto il mandato da Gesù di “servire” il popolo di Dio ? “ Affinché come ho fatto io, così facciate anche voi” !

Se “la vocazione presbiterale è rivolta al culto divino ed al servizio religioso e pastorale del popolo di Dio”, il compito del presbitero nella comunità non è forse quello di Annunciare la Parola di Dio e di nutrire la comunità ecclesiale con l’Eucaristia?  Tale compito puòessere espletato in pienezza di dono anche dal prete sposato, oppure no ?

Se il motivo per cui il prete deve essere celibe è  che deve avere “il cuore indiviso”, cioè “deve amare tutti e non una sola persona; avere tempo per tutti e non pensare solo alla propria famiglia; essere totalmente disponibile alle esigenze della sua comunità, perché i preti della chiesa cattolica orientale si possono sposare? Non significa forse che il ministero presbiterale a vantaggio della comunità può essere esercitato in pienezza anche dal prete sposato ?

D’altra parte lo stesso Concilio Vaticano II, riferendosi ai sacerdoti della Chiesa orientale, riconobbe che coloro che avevano ricevuto il presbiterato, quando erano nello stato matrimoniale, oltre che perseverare nella santa vocazione matrimoniale, riescono anche a dedicare la propria vita, con pienezza e con generosità, ai fedeli che vengono affidati alle loro cure pastorali.

Dunque, la vita matrimoniale, in sé, non impedisce che il sacerdote-sposato possa “dedicare la propria vita, con pienezza e con generosità, ai fedeli che vengono affidati alle sue cure pastorali” !

Io, prete sposato della Chiesa Cattolica Occidentale, con gioia, entusiasmo e generosità ho detto “SI” a Dio che mi chiamava al ministero presbiterale, senza impormi alcuna condizione, e con altrettanta gioia, entusiasmo e generosità ho detto “SI” a DIO che mi chiamava alla vita matrimoniale per formare una famiglia cristiana.

Mi convinco sempre più, proprio guardando alla mia vita di prete-sposato e a quella di altri preti sposati, che anche il presbiterato uxorato, ha un  grande valore teologico.

Nelle lettere del Corpus Paulinum, specialmente a 1Tm 3,2 ss e Tt 1,6,ss, emerge l’analogia posta da tali lettere tra il governo della casa e il governo della chiesa per sottolineare che una buona capacità coniugale e parentale è un buon indizio della capacità di governare la famiglia ecclesiale. Infatti, la logica delle lettere pastorali sembra voler sottolineare come la famiglia del prete-sposato sia un segno visibile del carattere familiare della comunità ecclesiale, al punto che un criterio di discernimento che le prime comunità cristiane, fondate dagli Apostoli, avevano per scegliere colui o coloro che dovevano guidarle pastoralmente era proprio la sua capacità di essere un buon marito e un buon padre, sia pure nei termini della cultura familiare del I sec. d.C.

Che cosa chiede Dio al prete sposato ? L’esemplarità della vita coniugale e l’esemplarità dell’amore coniugale. La castità coniugale, che viene vissuta e testimoniata con gioia anche dalla coppia cristiana e di cui si parla nel Concilio Ecumenico Vaticano II, nella Humanae Vitae, nella Familiaris Consortio, non significa che i due sposi si debbano “astenere dal “fare l’amore”, ma significa che i due sposi cristiani devono mostrare e testimoniare la “verità dell’amore coniugale”in ogni suo aspetto, compreso il linguaggio fisico; il linguaggio dello scambio corporale che deve essere parte vera di questo amore coniugale.

Questa prospettiva riguarda anche la “coppia sacerdotale”. Ambedue sono chiamati non soltanto in termini morali, come ogni altra coppia cristiana, ma anche in termini deontologici, cioè comportamentali, al compito di amarsi in modo pieno e perfetto perché sono chiamati ad essere esemplari anche nell’amore coniugale.

Quando noi guardiamo al prete-sposato che ha formato la sua famiglia, è falso pensare e ritenere che il prete perché sposato abbia rinnegato l’amore; invece, la famiglia del prete sposato sottolinea, la continuità, la crescita, la maturazione dell’amore stesso.

Nel passato era difficile dimostrare questo perché non c’era una teologia del matrimonio dal momento che questo era semplicemente un contratto tra un uomo ed una donna in ordine alla procreazione ed alla educazione della prole.

Oggi, invece, la teologia del matrimonio e della famiglia ci dice in maniera chiara come ci sia una continuità tra il sacramento del matrimonio ed il sacramento dell’ordine. La stessa “Familiaris Consortio” ci dà una immagine della famiglia che è in realtà concepita come realizzazione della comunione  ecclesiale, cioè della Chiesa che viene definita koinonia= comunione.

Nel rapporto coniugale, quando l’uomo e la donna diventano una unidualità, essi, in forza del sacramento, sono il segno vivente della manifestazione della comunione feconda della Chiesa. La famiglia, infatti, è chiamata a vivere la stessa missione della Chiesa, ed è pienamente inserita nel ministero profetico, sacerdotale e regale di Cristo Signore.

In questa nuova prospettiva la coppia investita della chiamata presbiterale dell’uomo è in realtà nella continuità della vocazione coniugale e familiare e ne porta a pienezza il senso ecclesiale.

Nella lettera alle famiglie del 1994, Giovanni Paolo II, commentando Ef 5,32 affermava: “ Non si può comprendere la Chiesa come Corpo Mistico di Cristo, come segno dell’Alleanza dell’uomo con Dio in Cristo, come sacramento universale di salvezza, senza riferirsi al grande mistero congiunto alla creazione dell’uomo maschio e femmina ed alla vocazione di entrambi all’amore coniugale, alla paternità ed alla maternità. Non esiste il grande mistero che è la Chiesa e l’umanità in Cristo, senza il grande mistero espresso nell’essere una sola carne, cioè nella realtà del matrimonio e della famiglia. La famiglia stessa è il grande mistero di Dio e come “chiesa domestica” essa è sposa di Cristo. La Chiesa universale ed in essa ogni chiesa particolare si rivela più immediatamente come sposa di Cristo nella chiesa domestica e nell’amore in essa vissuto: amore coniugale, amore paterno e materno, amore fraterno, amore di una comunità di persone e di generazioni. L’amore umano è forse pensabile senza lo Sposo (Cristo) e senza l’amore con cui egli amò fino alla fine? Solo se gli sposi prendono parte a tale amore e a tale grande mistero, possono amare fino alla fine: o di esso diventano partecipi oppure non conoscono fino in fondo che cosa sia l’amore e quanto radicali ne siano le esigenze”[6].

Anche “la coppia sacerdotale”, cioè la famiglia del prete sposato è chiamata a diventare con la propria esistenza coniugale e sacerdotale l’immagine viva dell’unità profonda di questo grande mistero: sia in quanto matrimonio-famiglia sia in quanto comunità-chiesa. In realtà il prete sposato vive l’unità di questi due misteri in modo più profondo, perché nel “sacerdozio uxorato” non c’è soltanto il rinvio simbolico tra famiglia e comunità ecclesiale, ma c’è la coincidenza: la famiglia diventa in qualche modo comunità ecclesiale e viceversa.

Sono l’unica chiesa che si manifesta in due forme omologhe e concentriche. L’amore coniugale di colui che è chiamato al presbiterato nell’unidualità della comunione coniugale è destinato ad essere immagine viva di quell’amore dello sposo (Cristo) che pone la propria vita per la sua Chiesa (Sposa).

Il Clero uxorato mostra, quindi, con la sua esistenza la vocazione ecclesiale piena di ogni matrimonio cristiano e l’unità profonda della manifestazione del grande mistero della chiesa-domestica e della chiesa-comunità. Questo perché il matrimonio ed il presbiterato non sono in contrapposizione, ma in continuità ed unità tra loro e di conseguenza, il prete sposato è in piena fedeltà a Dio, alla sua famiglia ed alla comunità [7].

Il sacerdote è l’uomo di tutti perché è chiamato a svolgere un ministero che non può essere chiuso in recinti precostituiti. Non appartiene ad una casta che debba difendere i propri interessi ed il proprio prestigio, ma appartiene, invece, a tutta la comunità umana e non solo a quella ecclesiale. Esiste perché esiste una comunione di uomini, concretamente vivente in un periodo storico, con precise situazioni umane, culturali e religiose, con domande e difficoltà tipiche dell’epoca nella quale questa comunione umana vive e si sviluppa e alla quale deve portare “la Buona Notizia” di Cristo.

Per questo, è cosa buona che il presbiterato e la persona del prete siano temi di discussione nell’opinione pubblica, perché significa che la figura del prete e il ministero presbiterale appartengono anche ai tempi attuali. Se non fosse così significherebbe che non hanno più motivo di essere; che non significano più nulla; che non suscitano né interesse, né amore e neppure odio. Farebbero la fine di un fossile di cui si parla solo nei trattati di geologia, ma difficilmente nelle conversazioni ordinarie di ogni giorno.

p. Nadir Giuseppe Perin – prete sposato



[1] Cfr. Heinz-Jurgen Vogels in Celibato . Dono, non obbligo, Il segno dei Gabrielli editori, S. Pietro in Cariano, Verona, p.117-118.

[2]  Cfr. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica postsinodale Pastores dabo vobis, (25 marzo 1992)  n. 29.- VIII Assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi, dedicata alla formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali e celebrata nel 1990, in cui il Papa ha confermato la volontà dei Padri sinodali, affinché resti la legge del celibato perpetuo per i presbiteri di rito latino.

[3]  Cfr. Presbyterorum Ordinis, n. 14 b

[4]  Cfr. W. Bertrams, Il celibato sacerdotale. Significato e motivi, PUG, Roma 1960 ; J. Leclerq,Le pretre devant Dieu et devant les hommes, Casterman, Tournai 1965 ; Il sacerdozio ministeriale, Rapporto della Commissione Teologica internazionale. Dehoniane, Bologna 1972; J. Galot, Teologia del sacerdozio, LEF, Firenze 1981; G. Saldarini (ed.), Eucaristia, Presbiteri e Comunità, Ancora, Milano 1983; R. Cantalamessa, Verginità, ivi 1988;  G. Gozzelino, Nel nome del Signore: Teologia del ministero ordinato, LDC, Leumann (TO) 1992.

[5]  Cfr. Giovanni Paolo II, “Discorso all’Ordine dei Canonici Regolari Premonstracensi” in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VIII/2, Libr. Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1985, p.895.

[6] Cfr. Giovanni Paolo II,Lettera alle famiglie, 1994 - Supplemento all’Osservatore Romano, Tipografia Vaticana

[7] Cfr. Don Basilio Petrà, Clero uxorato: una ricchezza ecclesiale che si vuole occultata, in Adista  28 0ttobre 2006, p. 8-10



Venerdì, 05 gennaio 2007