Pretisposati
L’uomo, la donna, il prete ed il matrimonio

di p. Nadir Giuseppe Perin

Ringraziamo di vero cuore il nostro carissimo amico p. Nadir Giuseppe Perin, prete-sposato dal 1968, per questo approfondimento che ha scritto per il nostro sito come contributo al dibattito sul tema dei preti sposati. p. Nadir Giuseppe Perin è dottore in Teologia dogmatica presso l’Università Pontificia dell’Angelicum in Roma; specializzato in Teologia Morale all’Università Lateranense - Accademia Alfonsiana di teologia Morale; Diplomato in Psychiatric Nursing presso la Mental Health Division di Toronto; specializzato in scienze psicopedagogiche presso l’Università di magistero dell’Aquila. Per contatti: nadirgiuseppe@alice.it )


SUL celibato ed il matrimonio dei preti è stato detto, ormai, tutto quello che si poteva  pensare, dire o scrivere. E sono convinto che tutto quello che è stato pensato, detto o scritto, corrisponda al vero o almeno rispecchi una parte della verità.

Ed è sempre la ricerca di questa verità sull’uomo, la donna, il prete e il matrimonio che mi ha spinto a rispondere ad alcune domande che, a prima vista, potranno sembrare, a molti o ad alcuni se non inutili, quanto mai ovvie. Penso, tuttavia, che le risposte, proprio perchè non sono suggerite da sentimenti di astio, rancore volontà di rivendicazione o contrapposizione verso qualcuno, possano aiutare a capire meglio una delle questioni più scottanti, esistente ancora oggi, all’interno della comunità ecclesiale e che riguarda i preti che lasciano il loro ministero per sposarsi.

La prima domanda : se “all’uomo della strada” chiedessi : “ Tutti gli uomini e tutte le donne si possono sposare”? Credo che la risposta sarebbe “SI”, senza ombra di dubbio.  Si possono sposare perché sposarsi è un diritto naturale dell’uomo e della donna e tale diritto ha come fondamento la volontà di Dio. Infatti, nella Sacra Scrittura c’è scritto : “ Dio creò l’uomo simile a sé, lo creò ad immagine di Dio, maschio e femmina li creò” (Gn 1,27). “Poi Dio, il Signore disse: “ Non è bene che l’uomo sia solo. Gli farò un aiuto adatto a lui” (Gn 2,18). “Li benedisse con queste parole: siate fecondi, diventate numerosi, popolate la terra”…(Gn 1,27).

Il can. 1058 del Diritto Canonico afferma, invece, che “ tutti possono contrarre matrimonio, se il diritto non ne fa loro divieto”. Questo significa che anche se tutti, per diritto naturale possono contrarre matrimonio, tuttavia il diritto positivo può porre delle restrizioni legali, sia di carattere permanente sia transitorio. Ma queste restrizioni possono essere introdotte solamente quando sono richieste da gravi ed oggettive esigenze dello stesso istituto matrimoniale e della sua rilevanza sociale e pubblica (cfr. Santa Sede, Carta dei diritti della famiglia, 22 ottobre 1983).

Quindi, mentre per il diritto naturale, l’elemento costitutivo del matrimonio è il consapevole, libero e manifesto consenso delle parti, aventi capacità fisica e psichica a contrarlo e non richiede altre condizioni o formalità, tuttavia, dal momento che gli uomini fanno parte di una società e che il matrimonio ha rilevanti conseguenze per i coniugi, i loro figli e la società stessa, è conforme al diritto naturale che il diritto positivo stabilisca quanto è necessario perché il “patto matrimoniale” sia valido e socialmente riconosciuto. Il matrimonio, per il diritto positivo non è valido senza l’osservanza delle legittime norme sancite dall’autorità civile e, nel caso del matrimonio dei battezzati, dall’autorità religiosa.

Tuttavia non è sufficiente riconoscere il diritto teorico al matrimonio ad ogni persona che abbia i requisiti richiesti dal diritto naturale e positivo, ma, è doveroso per la comunità, sia civile che ecclesiale, creare le condizioni che consentano l’esercizio del diritto a sposarsi ed a formare una famiglia. E, per esempio, dato che la casa ed il lavoro sono condizioni praticamente necessarie per sposarsi e formare una famiglia, è grave dovere dei pubblici poteri e della comunità, sia civile che ecclesiale, non far mancare quello che è necessario per una corretta e dignitosa attuazione del diritto naturale al matrimonio ed alla famiglia.

La legislazione della Repubblica Italiana ammette tre forme di celebrazione del matrimonio:

a) davanti all’ufficiale dello stato civile (Cc, artt 84-249, esclusi gli articoli 82 e 83);

b) davanti ad un ministro del culto cattolico. Questo matrimonio è regolato dal Concordato con la Santa Sede e dalle leggi speciali sulla materia ( Cc art. 82);

c) davanti a ministri dei culti riconosciuti dallo Stato italiano ( Cc art. 83).

E, l’art. 29 della Costituzione italiana recita che “ La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”.

L’art. 31, sempre della Costituzione Italiana dice che: “La Repubblica agevola con misure economiche ed altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù favorendo gli istituti necessari a tale compito”.

Il matrimonio, invece dei cattolici, di esclusiva competenza della Chiesa, è retto dalla legge divina e da quella canonica. Le norme sono contenute nel Diritto Canonico al Titolo VII  (cann.1055- 1165). Il patto (l’alleanza) matrimoniale -  da cui “ è posta in essere un’intima comunità di vita e di amore, fra l’uomo e la donna, istituita dallo stesso Creatore e strutturata con leggi proprie” (cfr GS n.48,1) e ordinata a fini propri, è stato elevato da Gesù Cristo alla dignità di sacramento.

Gli effetti civili di questo matrimonio sono assicurati dal Concordato tra la Santa Sede e la Repubblica Italiana[1].

Il matrimonio, dunque, è una realtà umana e nello stesso tempo una realtà sociale, civile e religiosa che ha un interesse primario sia per i non cristiani che per i cristiani e che, nella complessità dei suoi aspetti, si richiama non solo al diritto civile o al Diritto Canonico, da cui riceve la sua struttura giuridica, ma anche a numerose altre scienze, ciascuna delle quali offre il suo contributo per determinarne ed approfondirne la natura, le finalità, i valori.

La seconda domanda,conseguenza della prima, è:  “perché il prete, pur essendo un uomo come tutti, non può sposarsi, dal momento che :

a) lo “sposarsi” dell’uomo e della donna è un loro diritto naturale, voluto da Dio. Si tratta dello “ius connubii” che è un diritto fondamentale della persona umana per cui ogni uomo o donna può contrarre matrimonio, scegliendo liberamente il proprio coniuge. Il can. 1058 del Diritto Canonico afferma che  “ tutti possono contrarre matrimonio, se il diritto non ne fa loro divieto”.

b) il diritto positivo civile o ecclesiastico (Diritto Canonico) non può  porre delle restrizioni a tale diritto naturale, senza che ci siano “gravi ed adeguate ragioni” per farlo. “Queste restrizioni possono essere introdotte solamente quando sono richieste da gravi ed oggettive esigenze dello stesso istituto matrimoniale e della sua rilevanza sociale e pubblica (cfr. Santa Sede, Carta dei diritti della famiglia, 22 ottobre 1983).

c) il diritto positivo civile ed ecclesiastico può, invece, “regolare”, stabilendo quanto è necessario perché il patto matrimoniale sia valido e socialmente riconosciuto.

La limitazione del diritto naturale di sposarsi può essere giustificata, quindi, soltanto da gravi ed adeguate ragioni, altrimenti, come affermò Paolo VI , nell’enciclica Populorum Progressio, n.37 –  la soppressione o anche la limitazione di tale diritto costituisce un’aperta violazione della dignità umana : “actum est de humana digitate”.

Ed ecco la terza domanda : Quali sono, allora, “ le gravi ed adeguate ragioni”, in base alle quali - coloro che nella chiesa hanno la potestà e la responsabilità del ministero per la comunità ecclesiale – hanno deciso, usando le forme e i modi da loro ritenuti più adeguati, di imporre per legge “il celibato” a tutti coloro che sono chiamati da Dio ad essere prete e che hanno ricevuto il sacramento dell’ordine nella chiesa cattolica Occidentale e di “limitare”, per i preti cattolici della Chiesa Orientale, al tempo prima della ordinazione, la possibilità di potersi sposare, proibendola, invece dopo aver ricevuto il sacramento dell’ordine?

Le disposizioni del diritto positivo della comunità ecclesiale occidentale, contenute nel Codice di Diritto Canonico, dispongono che l’ordine sacro è impedimento dirimente al matrimonio dei chierici, i quali pertanto non possono “celebrare il sacramento del matrimonio”[2]. Al capitolo III del Diritto Canonico, ove si parla degli impedimenti dirimenti in particolare, i cann. 1087 e 1088 recitano “ attentano invalidamente il matrimonio coloro che sono costituiti negli ordini sacri” e “… coloro che sono vincolati dal voto pubblico perpetuo di castità, emesso in un istituto religioso” di diritto pontificio o diocesano, nel senso proprio determinato dal can. 607.

Anche per il CCEO, infatti, “attenta invalidamente il matrimonio colui che è costituito nell’Ordine Sacro” (cfr. CCEO can 804 e 805)

In passato – come tutti ormai conoscono - le ragioni del vincolo tra sacerdozio e celibato, come è stato codificato poi nel Diritto Canonico, trovarono le proprie radici, soprattutto, nella tradizione dove l’intimo rapporto che i padri della Chiesa e gli scrittori ecclesiastici stabilirono nel corso dei secoli, tra le due vocazioni, si basava su mentalità e situazioni storiche molto diverse dalle nostre. Negli stessi testi patristici si possono leggere, per esempio, le raccomandazioni che venivano rivolte al clero affinché i sacerdoti, prima della celebrazione eucaristica, si astenessero dall’uso del matrimonio, cioè dall’avere rapporti sessuali con la propria moglie”. Le ragioni addotte per la castità dei sacerdoti sembravano essere ispirate soprattutto da un eccessivo pessimismo per la condizione umana e da concezioni errate sul matrimonio e sulla sessualità oltre che da una particolare esigenza di “purezza rituale”, ritenuta necessaria per avere  contatto con le cose sacre, come nell’Antico testamento.

Oggi, invece, come affermò lo stesso Paolo VI, la ragione del vincolo tra sacerdozio e celibato è stata il frutto di un’intuizione spirituale della Chiesa, mediante il carisma di percezione che le è proprio e che le proviene dal fatto di essere la sposa di Cristo ed il tempio vivo dello Spirito santo. Per questo la Chiesa ritiene che questo legame tra le due vocazioni sia sommamente conveniente e confacente con la vita sacerdotale, anche se non necessario di per sé stesso.

Questo legame tra celibato e presbiterato, non è più riconducibile, pertanto, agli schemi della pura ragione, né basato su motivazioni derivanti dalla purezza rituale o da una concezione pessimistica del matrimonio e della sessualità come lo fu, invece, per il passato.

Non riesco però a capire per quale motivo questa intuizione spirituale della Chiesa si sia fermata al celibato del prete e non abbia, invece, abbracciato anche l’obbedienza e la povertà, dal momento che Gesù Cristo, del cui sacerdozio i ministri sacri partecipano, fu celibe, povero e obbediente alla volontà del Padre, fino alla morte! Non mi sembra, inoltre, che la motivazione di “somma convenienza e confacenza” del celibato con il presbiterato si possa considerare “una grave ed adeguata ragione” per imporre al prete – mediante legge canonica – la non utilizzazione del suo diritto naturale di sposarsi, pena la nullità del matrimonio. Tanto più che subito dopo il papa afferma che il celibato di per sé non è necessario al presbiterato.

Nel Decreto sul ministero e la vita sacerdotale (Presbyterorum Ordinis) al n. 1296 si dice  che “ la perfetta e perpetua continenza per il Regno dei cieli, raccomandata da Cristo Signore…non è richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, come risulta evidente dalla prassi della Chiesa primitiva e dalla tradizione delle Chiese Orientali, nelle quali, oltre a coloro che assieme a tutti i vescovi scelgono con l’aiuto della grazia il celibato, vi sono anche degli eccellenti presbiteri coniugati…che dedicano pienamente e con generosità la propria vita per il gregge loro affidato”.

Al n. 1298 dello stesso decreto si dice, inoltre, che : “ Per motivi fondati sul Mistero di Cristo e della sua missione, il celibato che prima veniva raccomandato ai sacerdoti, in seguito è stato imposto per legge nella Chiesa latina a tutti coloro che si avviano a ricevere gli Ordini Sacri”.

Lo stesso card. Claudio Hummes, ora titolare della Congregazione per il Clero, riconobbe apertamente che il celibato dei preti “non è un dogma, ma una norma disciplinare” e che “la proibizione del matrimonio” è stata promulgata solo alcuni secoli dopo l’istituzione del “sacerdozio”. 

Si sa che il celibato, come stato di vita scelto per praticare la castità perfetta rappresenta una chiamata, una vocazione speciale che Dio rivolge solo ad alcune persone, le quali, attraverso la scelta volontaria di questa forma di vita e la libera accettazione di questo carisma[3] donato dallo Spirito Santo, diventano nella chiesa autentici testimoni di quei valori escatologici verso i quali il popolo di Dio è diretto. Nessuno, d’altra parte, ha mai messo in dubbio che il celibato sia una forma di vita molto elevata; che la si possa vivere con serenità e gioia interiore; che il motivo dell’amore che lo ispira possa animare ogni aspetto della vita di chi lo abbraccia liberamente, perché ad esso chiamato.

La gerarchia della Chiesa, tuttavia, pur imponendo per legge canonica il celibato ai preti, non può assicurare ad alcuno di poter vivere questo carisma, in modo totale e per tutta la vita, nemmeno per mezzo dell’amministrazione dei sacramenti. Esso è un carisma che appartiene all’ordine delle “grazie date gratuitamente” che sono essenzialmente distinte dalla grazia santificante o abituale, perché vengono concesse dallo Spirito Santo solo ad alcuni per il bene della comunità ecclesiale. Il carisma del celibato, infatti, non dipende né dai sacramenti né, propriamente parlando, dalla preghiera e non significa, soltanto, di poter evitare peccati gravi contro la castità.

Giustamente, decreti conciliari, esortazioni pontificie, omelie patristiche, trattati di teologia spirituale hanno messo in giusta evidenza come il  sacerdote non possa vivere il celibato senza il quotidiano supporto dell’Eucaristia, della preghiera liturgica e personale, perché si sa che nella vita del cristiano e del prete c’è sempre il primato della grazia e della preghiera umile e confidente che fa del prete una creatura di trasparenza e di dono.

Dal momento che anche la motivazione “dell’intuizione spirituale” data da Paolo VI non è servita a smorzare le critiche, lo stesso Paolo VI ebbe ad affermare in seguito che : “ Spetta all’autorità della Chiesa stabilire, secondo i tempi ed i luoghi, quali debbano essere in concreto, gli uomini e quali i requisiti perché essi possano essere ritenuti adatti al servizio religioso e pastorale della Chiesa. La vocazione sacerdotale, rivolta al culto divino ed al servizio religioso e pastorale del popolo di Dio, benché divina nella sua ispirazione e benché distinta dal carisma che induce alla scelta del celibato come stato di vita consacrata non diventa definitiva ed operante senza il collaudo e l’accettazione di chi, nella Chiesa, ha l’autorità e la responsabilità del ministero per la comunità ecclesiale[4].

La quarta ed ultima domanda :  il prete che volesse sposarsi che cosa  deve fare ? Considerando che .

a) si tratta di un impedimento di diritto ecclesiastico, connesso con la legge del celibato (can. 277); b) il sacramento dell’Ordine imprime in chi lo riceve il carattere perpetuo ed indelebile, per cui un prete è e rimane prete in eterno (can 290) l’impedimento matrimoniale che ne deriva può cessare soltanto per dispensa riservata alla Sede Apostolica (can. 1078, § 2, 1°).

Con il rescritto di dispensa dall’obbligo del celibato, il chierico può sposarsi nella “forma canonica”, cioè in chiesa, ma perde lo “stato clericale” (can.290).

Se il prete, ai nostri giorni, non si può sposare perché “il celibato” è “sommamente conveniente e confacente con la missione che è chiamato a svolgere nella comunità ecclesiale, ad imitazione di Cristo che era celibe”, perché Gesù  scelse come Apostoli degli uomini che erano sposati ed altri che non lo erano ?  E, se qualcuno degli Apostoli non sposati, avesse manifestato, in seguito, a Gesù la volontà di formarsi una  famiglia, come ce l’avevano gli altri Apostoli, quale sarebbe stata la reazione di Gesù? Gli avrebbe, forse, tolto il mandato di “Apostolo”?

S. Paolo nella 1Cor 9,5 reclama anche per sé il diritto che avevano gli altri apostoli ed i fratelli del Signore e Cefa, di portare con sé le proprie mogli : “Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna (=moglie) credente, come gli altri apostoli ed i fratelli del Signore e Cefa,”? [m¾ oÙk œcomen ™xous…an ¢delf¾n guna‹ca peri£gein æj kaˆ oƒ loitoˆ ¢pÒstoloi kaˆ oƒ ¢delfoˆ toà kur…ou kaˆ Khf©j].

Questo diritto – di portare con sé la propria moglie – deriva dal fatto che il carisma del celibato non è ottenibile su richiesta, ma è un carisma che lo Spirito dà solo ad alcuni e non a tutti. Per cui un prete che non abbia ricevuto il dono del celibato, ha ovviamente il diritto naturale e spirituale di poter vivere la sua missione di presbitero, nel sacramento del matrimonio, come dice Paolo nella 1Cor 7,7 “ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un  modo chi in un altro”.

I tre diritti a cui accenna Paolo sono:

a) il sostentamento economico da parte della comunità “Non abbiamo il diritto di mangiare e bere”? (1Cor 9,4). “Non sapete che quelli che celebrano il culto traggono il vitto dal tempio, e quelli che servono all’altare hanno la loro parte dall’altare? (1Cor 9,13) “Così anche il signore ha disposto che quelli che annunziano il Vangelo vivano del Vangelo” (1Cor 9,14) ;

b) “Non abbiamo il diritto di portare con una donna credente, come gli altri apostoli ed i fratelli del Signore e Cefa,”?” (1Cor 9,5); 

c) gli apostoli occupati nella missione non devono svolgere lavoro fisico o “ è solo Barnaba che ha il diritto di astenersi dal lavoro”? (1Cor 9,6). Gli apostoli occupati nella missione hanno il diritto di vivere dei doni, delle tasse ecclesiastiche, oppure del Vangelo, come dice il Signore.

I tre diritti  manifestano la volontà di Gesù, il Signore. In tutto questo si può individuare l’affetto del Signore che voleva proteggere i suoi Apostoli, i loro successori e gli aiutanti, come Barnaba, dall’essere oberati di attività e dal peso del celibato che non possono sopportare ( cfr. Mt 19,11).

Paolo e gli altri ci mostrano che anche il diritto naturale di sposarsi ( e quindi  anche quello di portare con sé la propria moglie nei viaggi apostolici) come gli altri diritti ( quello vivere del Vangelo e di non svolgere lavori fisici per occuparsi della missione) non contemplano una rinuncia volontaria al loro utilizzo (cfr 1Cor 9,15). Sono cioè diritti che si mantengono anche se uno ci rinuncia, per un certo tempo, poiché nessun legame terreno può avere precedenza su Cristo e sul Vangelo.

 “ Abbiamo lasciato tutto (e tutti) e ti abbiamo seguito: dov’è la nostra ricompensa”? – chiede Pietro a Gesù ( cfr Mt 19,29). Ma dopo l’Ascensione del Signore, “gli altri apostoli ed i fratelli del Signore e Cefa”  sono tornati a vivere con le mogli e le hanno portate con sé in missione”, come ci dice Paolo (1Cor 9,5). Questo significa che gli apostoli, così come Paolo, sono in ogni caso liberi di far uso del proprio diritto di portare con loro la moglie, dal momento che anche lei può essere di sicuro aiuto nell’evangelizzazione.

La possibilità di poter far uso, in qualunque momento, dei suoi diritti, è una delle ragioni per cui Paolo ne parla spesso. Insiste di avere gli stessi diritti di tutti gli altri apostoli, sulla base di una uguaglianza di status con tutti loro. Paolo reclama i suoi diritti per dimostrare che la sua autorità apostolica è identica a quella degli altri. E’ importante sottolineare come questi diritti siano reali e possano essere esercitati in ogni momento. Paolo ribadisce che anche lui ha diritto a scegliersi una donna come compagna, dal momento che questo diritto non gli può essere negato per sempre per il fatto che egli abbia rinunciato ad usarlo, per un periodo di tempo. Egli resta libero (1Cor 9,1) e il fatto di astenersi dall’usare questi suoi diritti, per lui costituisce un vanto (1Cor 9,15).

Un prete può sposarsi, allora, anche dopo l’ordinazione? Secondo Paolo, qualunque successore degli Apostoli, cioè qualunque prete, potrebbe sposarsi anche dopo l’ordinazione, perché il diritto naturale di sposarsi dell’uomo e della donna è un diritto naturale garantito da Dio il creatore e da Gesù Cristo, il Signore, quindi divino. Gli apostoli, stessi, hanno sempre conservato questo diritto e la loro rinuncia ad usare del proprio diritto divino di avere una moglie, non ha fatto perdere, a loro, il diritto stesso – come afferma S. Paolo.

Infatti, le restrizioni legali, sia di carattere permanente sia transitorio, per quando riguarda il diritto naturale di sposarsi, possono essere introdotte solamente quando sono richieste da gravi ed oggettive esigenze dello stesso istituto matrimoniale e della sua rilevanza sociale e pubblica (cfr. Santa Sede, Carta dei diritti della famiglia, 22 ottobre 1983).

Per questo diversi giuristi ed uomini di cultura si sono schierati per l’abrogazione dell’art. 5 del Concordato a causa della sua incompatibilità con le norme della Costituzione, dal momento che le norme sui diritti di libertà riguardano tutti gli individui, cioè sono diritti inderogabili e non consentono eccezioni. Ogni eccezione sarebbe viziata di incostituzionalità. Gramsci nel 1932 definì gli “ex preti” “i paria” della società italiana, perché coloro che nella Chiesa hanno la potestà e la responsabilità del ministero per la comunità ecclesiale, hanno violato (cfr. 1 Concilio Lateranense 1123) in nome e per conto del sistema ecclesiastico, a danno dei 10.000 preti italiani che hanno lasciato il ministero, sia il diritto naturale che dà ad ogni uomo e ad ogni donna il diritto di sposarsi e gli stessi diritti costituzionali.

 

E’ duro uscire dalla massa ed ascoltare nel proprio cuore la voce suadente del Cristo che annuncia chi siamo. E’ duro smettere di negare e di rimuovere una parte di noi come bisogno di verità, di bellezza, di intimità. Ci pare impossibile realizzare il nostro singolare destino vivendo di infinito nel finito, di eterno nel tempo.

Abbiamo bisogno d’esperienza per poter operare questo passaggio, questa “pasqua quotidiana”. Esperienza d’amore e di fiducia nell’altro per quanto diverso e sconosciuto. Esperienza di fiducia in chi mi assicura che ogni uomo è figlio di Dio.

Tale esperienza d’amore è quella accessibile ad ogni creatura umana perché è amore di amicizia, di sentimento, di tenerezza. E’ amore ciò che spinge un ragazzo verso una giovane donna, ciò che lega due sposi. Chi ama scopre per istinto che, chi ha di fronte, non è figlio della terra, ma figlio di Dio. Soltanto per coloro che amano, tutto il significato dell’esistenza e tutti i valori del mondo si condensano nella vita dell’altro, nella sua sola presenza, perfino in un suo abbraccio. Solo gli amanti quando sono vicini, credono di essere prossimi a Dio, in lui, nel suo cuore.

Noi siamo “razza di Dio” e non “esuberi”, “canaglie”, “nemici”, “fatali creatori” di nuovi odi e scontri sulla terra. In Lui viviamo, ci muoviamo e siamo” (At 17,28-29). Non abbiamo bisogno di tempio, perché Dio abita nel cuore di ogni uomo ( 1Gv 4,16; Ap.21,22). Non è forse compito, anche del prete sposato, indicare agli uomini in mezzo ai quali vive con la sua famiglia, chi sono, da chi sono nati, qual è il loro destino ? Indicare come nel cuore di ogni uomo il cielo si ricongiunga alla terra e dove la stessa storia umana trova un approdo di pace ?

Penso che l’immagine simbolica” della strada” ci possa indicare quale atteggiamento avere nei confronti dell’uomo in genere e del prete sposato in particolare, proprio perché la strada, con tutto quello che essa significa, è un contesto provocatorio. Dalla strada, infatti, provengono le richieste di giustizia e di condivisione di tutti coloro che si sentono soli ed abbandonati. La strada, quasi sempre, ci offre delle situazioni nuove o inattese che ci colgono impreparati e di fronte alle quali è necessario rivestirci dell’umiltà dell’ascolto, aprirci al confronto con le varie situazioni, nella ricerca, sempre nuova, di soluzioni alternative.

Questo tipo d’ascolto, molte volte, scardina alcune certezze alle quali siamo tradizionalmente aggrappati e ci spiazza, mentre il confronto veritiero e sereno ci mette in crisi, perché ci obbliga a ripensare e rivedere alcune nostre categorie ritenute, forse, fino a quel momento, eccessivamente certe e sicure.

Quando ci avventuriamo per questi sentieri, gli usuali riferimenti morali saltano. Ridefinirli ci spaventa perché ci portano ad abbandonare alcune sicurezze. Ci obbligano a sfiorare elementi e giudizi morali che, fino ad oggi, erano stati dati come definitivi; ma, soprattutto perché temiamo, toccando  punti di riferimento di questo tipo, di non riuscire ad evitare un’arbitrarietà di cui abbiamo giustificato sospetto e timore. Tuttavia, ascoltare le provocazioni che provengono dalla strada non vuol dire uscire da un quadro morale o dall’etica, in quanto tale, e tanto meno diventare succubi di dinamiche immorali o, peggio ancora, a-morali. Significa, invece, accettare che alcuni nuovi problemi c’interpellino e c’interroghino, correndo, anche, il rischio di scoprire che la risposta che davamo all’uomo, al prete sposato di "ieri", non sia più adeguata per l’uomo, per il prete sposato di "oggi".

p. Giuseppe dall’Abruzzo.



[1] Cfr. DGMC (Decreto Generale sul Matrimonio Canonico) 1; Congregazione per la Disciplina dei Sacramenti, 21 settembre 1970; CEI, Evangelizzazione e sacramento del matrimonio 101, 20 ottobre 1970.

[2] Per i lettori che non hanno dimestichezza con il linguaggio teologico ricordo che i ministri del sacramento del matrimonio sono gli sposi e che il “ministro” di un sacramento è colui che celebra il sacramento. Ecco perché si dice che sono gli sposi a celebrare il sacramento del matrimonio.

[3] Carisma : è un dono soprannaturale dello Spirito Santo concesso in via straordinaria ad alcuni membri della Chiesa per il bene generale della comunità cristiana. Come tale, si distingue dalla grazia santificante che viene infusa, invece, a tutti nel battesimo. Il carisma appartiene all’ordine delle grazie  gratis datae, distinte dalla grazia gratum faciens.

[4] Cfr. Paolo VI, Encicliche e Discorsi, Ed. Paoline, Roma 1968, Vol XVI, p.264.



Martedì, 22 aprile 2008