Il prete sposato può presiedere all’eucaristia ed espletare l’annuncio della parola ?
di Nadir Giuseppe Perin
Rispondo per gradi: A) Nel Rescritto di dispensa dal celibato, al § 4 “ L’autorità ecclesiastica, cui spetta riferire al richiedente il rescritto, esorta caldamente il prete dispensato a partecipare, secondo il nuovo modo di vivere, [cioè nella condizione ecclesiale di laico e non più quella di chierico], alla vita del popolo di Dio, ad offrire un buon esempio e così mostrarsi fedelissimo figlio della Chiesa. Ma, lafaccia materna e comprensiva della Chiesa (= della gerarchia ecclesiastica) che sembra trasparire dalle parole sopra riportate e contenute nel Rescritto, viene puntualmente e completamente ribaltata, nella pratica, da una serie di proibizioni contenute nei paragrafi seguenti e dai quali traspare, il giudizio di severissima condanna – senza possibilità di appello – del prete dispensato che ha deciso di lasciare il suo ministero e non fare più parte “ della casta clericale”.
Infatti – nel rescritto si legge - l’autorità ecclesiastica, cui spetta riferire al richiedente il Rescritto, gli faccia presente quanto segue: “Il sacerdote dispensato, con ciò stesso, perde i diritti che sono propri dello stato clericale, gli oneri e gli uffici ecclesiastici; non è più obbligato dagli altri doveri connessi con lo stato clericale; rimane escluso dall’esercizio del sacro ministero, fatta eccezione di quanto è previsto dal can. 976. Non può tenere l’omelia;non può esercitare il ministero straordinario della sacra comunione e non può esercitare un ufficio direttivo in campo pastorale;così non può avere nessun compito nei seminari e negli istituti similari, negli altri istituti per gli studi di grado superiore, in qualunque modo dipendenti dall’autorità ecclesiastica; non può esercitare un compito direttivo o d’insegnamento. Il sacerdote dispensato è tenuto alla stessa norma per quanto riguarda l’insegnamento della religione anche negli istituti similari non dipendenti dall’autorità ecclesiastica; di per sé il sacerdote dispensato dal celibato sacerdotale e a maggior ragione il sacerdote congiunto in matrimonio, deve stare lontano dai luoghi nei quali è conosciuta la sua condizione antecedente.Tuttavia, l’Ordinario del luogo in cui vive il richiedente, dopo aver sentito, per quanto necessario, l’Ordinario dell’incardinazione o il superiore maggiore religioso, potrà dispensare da questa clausola contenuta nel rescritto, se si può prevedere che la presenza del richiedente non provochi scandalo”.
Ecco l’altra faccia della medaglia che rivela tutt’altro che un’autorità ecclesiastica materna e comprensiva!. Chiunque ha un briciolo di intelligenza e di buon senso si accorge delle contradizioni contenute nel Rescritto. Infatti da una parte si esorta caldamente il prete dispensato a partecipare secondo la sua nuova condizione di laico alla vita del popolo di Dio, dall’altra gli si proibisce l’esercizio di qualsiasi ministero, anche non ordinato, che i laici a ciò preparati possono essere chiamati a svolgere nella comunità ecclesiale. Per es. i ministeri istituiti e non ordinati, come quelli del lettore e dell’accolito che competono propriamente ai laici, in quanto viene riconosciuta ai laici non tanto una funzione di supplenza, ma un diritto-dovere di partecipare al sacerdozio di Cristo per l’edificazione della Chiesa, in virtù dei sacramenti ricevuti del battesimo e della cresima. Ma i ministeri affidati ai laici non si riducono ai due ministeri prevalentemente cultuali del lettore e dell’accolito, essere ministro straordinario dell’Eucaristia, ma abbracciano anche altri uffici da affidare a coloro che sono addetti alle opere di carità, qualora tale ministero non sia conferito ai diaconi. Questo allargamento delle funzioni rituali a quelle della carità o del servizio fraterno indica che la funzione dei ministeri non è una semplice funzione rituale, ma una vera missione ecclesiale che parte dalla liturgia e ritorna alla liturgia, inserendosi però in tutta la vita della Chiesa ed in tutti i suoi momenti ( cfr. Documento CEI n. 3). Infatti questi ministeri sono compiti e missioni da espletare all’interno della comunità ecclesiale, ma non come fossero delle attribuzioni onorifiche o solo dei momenti episodici nella vita di un cristiano o delle prestazioni giustificate unicamente da necessità organizzative o dei semplici passaggi d’obbligo. Il nuovo codice di Diritto Canonico dopo aver affermato che tutti i battezzati sono titolari della missione della Chiesa, in tutta la sua complessità ed estensione, apre ai fedeli laici, in modo specifico, una serie di uffici (officia) e di incarichi (munera) e di ministeri interecclesiali molto prestigiosi. I laici che risultano idonei possono essere assunti dai sacri pastori in quegli uffici ecclesiastici e in quegli incarichi, che, secondo le disposizioni del diritto, essi sono in grado di esercitare, ad es. insegnare scienze sacre anche in un seminario teologico; ricoprire vari uffici nella curia vescovile, come quello di cancelliere, di economo diocesano; ufficio di reggere una parrocchia in caso di scarsità di sacerdoti. Tale previsione si verifica normalmente quando il Codice non stabilisce espressamente che un determinato ufficio debba essere ricoperto da un chierico, perché se un ufficio o un incarico richiede l’ordine sacro, come ad esempio l’ufficio di reggere una chiesa particolare, i laici non possono essere titolari in quanto carenti della necessaria abilitazione. Questa cooperazione dei laici trova la sua ragione d’essere non tanto nella attuale scarsezza del clero e nella sua insufficienza in ordine ai compiti da svolgere e ai problemi della sua missione sempre più vasti e complessi, ma la motivazione è essenzialmente teologica. I laici, membri della Chiesa allo stesso titolo dei chierici e dei religiosi, sono anch’essi impegnati nell’edificazione del popolo di Dio ed hanno l’obbligo di promuovere e sostenere l’attività apostolica anche mediante iniziative proprie, in forza del battesimo e della confermazione. In un famoso passo del Decreto ad Gentes è detto espressamente che la “Chiesa non si può considerare realmente costituita, non vive in maniera piena, non è segno perfetto della presenza di Cristo tra gli uomini, se un laicato autentico, svolto anche dalle donne, non si affianca alla gerarchia e collabora con essa. Se il laico a ciò preparato può essere chiamato a collaborare e svolgere così tante mansioni, perché proibirlo al prete dispensato ed al prete sposato, dal momento che sono delle persone preparate ed ora fanno parte a tutti gli effetti alla condizione laicale? Il negare a loro le varie possibilità di impegno nella comunità ecclesiale, aperte dallo stesso Diritto canonico ai laici preparati , indica la persistente volontà punitiva della gerarchia nei confronti di questi preti, come se fossero colpevoli di qualche delitto. Lasciare l’esercizio del proprio ministero, senza causare alcun scandalo, chiedere a chi ne ha la facoltà ed ottenere la dispensa per potersi sposare è forse un delitto? Se sì : in quale documento è contenuta questa dichiarazione ? Se no : perché vengono inflitte delle pene così gravi, se , a norma del diritto, nessuna pena può essere inflitta se non c’è delitto ( nulla poena sine crimine) ? Ciò significa che nessuno può essere punito se non abbia commesso un delitto nel senso giuridico del termine che il can. 1321, §1 determina nei suoi elementi essenziali. 1- L’elemento oggettivo ( la violazione esterna di una legge o di un precetto); 2- L’elemento soggettivo, cioè la grave imputabilità morale e giuridica della violazione, avvenuta per dolo – ossia con atto deliberato – oppure per colpa – vale a dire per omissione della debita diligenza, come viene chiarito poi nel § 2; 3. l’elemento legale o giuridico, cioè la sanzione canonica “saltem indeterminata” annessa alla legge o al precetto ( legge o precetto penale), con l’eccezione stabilita nel can. 1399 ove si dice che “ a parte i casi stabiliti da questa o altre leggi, la violazione esterna di una legge divina o canonica può essere punita con giusta pena solo quando lo richiede la speciale gravità della violazione e urge la necessità di prevenire o riparare degli scandali. La necessità dell’elemento legale è una conseguenza del principio affermato nel can. 221, §3 : il diritto di ciascun fedele di non essere colpito da pene canoniche, se non a norma di legge. Ma quale legge è stata violata nell’aver chiesto ed ottenuto la dispensa dal celibato ecclesiastico obbligatorio e di essersi sposati, celebrando il sacramento del matrimonio, se è la legge stessa che indica questa strada al prete che vuole lasciare l’esercizio del suo ministero, senza recare alcun scandalo, per poi potersi sposare ?
Spesso il laico, come il prete-sposato, di fronte a questa sua nuova immagine, prova un grande disagio causato da un’immagine di Chiesa che egli percepisce come potenzialmente prevaricante la propria libertà e identità, invece che come luogo nel quale ricevere una positiva provocazione alla crescita, nella sua relazione con Dio e nella carità fraterna. Di fronte ad un’immagine di chiesa ispessita dal clericalismo, il fedele laico ed il prete sposato reagiscono con strategie di partecipazione “con riserva”, selezionando, quasi per autodifesa, i contenuti proposti dalla predicazione ecclesiastica. E’ amaro constatare come per la maggioranza dei cattolici, il battesimo sia rimasto sepolto da una cappa di oblio. Tuttavia il futuro dei laici e quello dei preti sposati non può essere quello di una minoranza “assimilata” ed insignificante, perché il laico cristiano, come il prete sposato deve essere un portatore di luce al mondo, altrimenti il Cristianesimo, come minoranza sommersa in una cultura secolarizzata corre il rischio di essere ridotto ad una delle tante forme irrazionali di offerte spirituali interscambiabili che abbondano nelle vetrine della società consumistica e dello spettacolo; oppure ad essere ridotto a simbolo della compassione per gli altri; ad un edificante volontariato sociale; oppure, sotto l’influsso dei media, asservito al potere gestito dal clero. Per superare queste riduzioni è necessario che i laici ed i preti sposati vivano con passione nel mondo, senza essere del mondo, anche se questo è reso sempre più difficile, da un mondo retto dall’universalismo del potere, da un impero che sembra non avere una capitale, né responsabili visibili, ma che tuttavia determina profondamente la vita delle persone e dei popoli, creando zone di benessere e di fame, di pace, di guerra, di vita e di morte e di emarginazione. Il laico, come il sacerdote sposato del terzo millennio dovrebbe essere una persona che avendo acquisito la coscienza della propria chiamata ad essere un cristiano, un discepolo del Signore, vive il proprio battesimo e si sente unito a Cristo, come il tralcio alla vite e nello stesso tempo, si sente in comunione con tutti gli uomini che Dio, per amore, ha creato a sua immagine e somiglianza, convinto che il cuore dell’uomo è fatto per la verità, per la giustizia, per la felicità e per la bellezza. Questa è la verità che ci può liberare dalle divisioni, dalle polarità ( chierici – laici) che sono così distruttive nella società ecclesiastica ed umana e renderci capaci di tradurre la buona notizia del Vangelo nelle culture della politica, dell’economia e dell’università. Ma, forse, bisognerebbe ritornare a riscoprire l’entusiasmo, l’amore, la disponibilità, il servizio (la diakonia) della Chiesa primitiva.
B) A questo punto ripropongo la domanda iniziale : può IL PRETE SPOSATO PRESIEDERE ALL’EUCARISTIA ed espletare L’ANNUNCIO DELLA PAROLA ? Il can. 207 al §1 dice: Per istituzione divina vi sono nella Chiesa tra i fedeli cristiani i ministri sacri, che nel diritto sono chiamati chierici; gli altri sono detti anche laici. Il §2 dello stesso canone parla di coloro che si consacrano a Dio con la professione dei consigli evangelici, mediante i voti o altri vincoli sacri riconosciuti e sanciti dalla chiesa. Lo stato di questi fedeli non riguarda la struttura gerarchica della Chiesa, ma fa parte, tuttavia, della vita e della santità della Chiesa. Una persona diventa presbitero quando riceve il sacramento dell’Ordine Sacro. Ma, per poter esercitare il ministero presbiterale in una Chiesa particolare bisogna far parte dello “stato clericale”. Si diventa chierici con la recezione del diaconato (can. 266 §1). Ma non basta. Bisogna anche essere “incardinati” secondo quanto prescritto dal can. 265 “Ogni chierico dev’essere incardinato o in una Chiesa particolare o in una prelatura personale, oppure in un istituto di vita consacrata o in una società che ne abbiano facoltà, per cui non sono assolutamente ammessi chierici acefali o vaganti”.
L’istituto dell’incardinazione è uno dei più antichi dell’organizzazione ecclesiastica. Risale all’epoca apostolica, dal momento che fin da allora era in vigore il principio di non ordinare chierici se non per il servizio di una determinata Chiesa. Gli stessi concili – in particolare il Concilio di Nicea del 325 e quello di Calcedonia del 451 – sanzionarono tale norma, vietando le ordinazioni assolute, cioè “sine titulo” ed interdicendo ai chierici acefali l’esercizio degli ordini. Fu vietato rigorosamente anche il passaggio ad un’altra Chiesa. Durante il Medioevo per l’allentarsi della disciplina, le ordinazioni assolute, cioè quelle “sine titulo” si fecero frequenti. Contro di esse intervenne il Concilio di Trento, il quale richiamò le disposizioni del Concilio Calcedonense, confermandone le sanzioni ( Sess. XXIII, 15 luglio 1563. De reformazione, can. XVI).
Perdendo lo stato clericale – per sentenza giudiziaria o per decreto amministrativo, con il quale si dichiara l’invalidità della sacra ordinazione; oppure con la pena della dimissione legittimamente imposta; oppure per rescritto della Sede Apostolica – secondo il can. 290 – il chierico perde insieme i diritti propri di tale stato; non è più tenuto ad alcun obbligo che da esso derivi (cfr. Obblighi e diritti dei chierici ( cann 273-289) fermo restando quanto disposto dal can. 291 dove viene espressamente detto che la perdita dello stato laicale non comporta la dispensa dall’obbligo del celibato, la quale è di esclusiva competenza del Romano Pontefice; gli è proibito esercitare la potestà di ordine, salvo il disposto del can. 976 nel quale viene affermato che “qualsiasi sacerdote, ancorché privo della facoltà di ascoltare le confessioni, assolve validamente e lecitamente da qualunque censura o peccato qualsiasi penitente che versi in pericolo di morte, anche se sia presente un sacerdote approvato”; conseguentemente rimane, eo ipso, privato di tutti gli uffici e incarichi e di qualsiasi potestà delegata.
Dalla natura indelebile del carattere derivano, però, tre conseguenze teologiche giuridiche: -il sacramento dell’ordine, come quello del battesimo e della confermazione, non può essere ripetuto (can. 845,§1). -La sacra ordinazione, una volta ricevuta validamente, non diventa mai nulla, anche se il chierico può perdere giuridicamente lo stato clericale ( can. 290), -Nessuno può essere privato della potestà di ordine, gli si può soltanto proibire di esercitarla in tutto o in parte, cioè di porre alcuni atti (can. 1338, §2); come parimenti nessuno può essere privato dei gradi accademici conseguiti.
Il can. 900 al §1 dice: Ministro capace di compiere il sacramento dell’Eucaristia nella persona di Cristo è solo il sacerdote validamente ordinato. Lo stesso canone al § 2 dice: “Celebra lecitamente l’Eucaristia il sacerdote che non ne sia impedito per legge canonica….” Al canone 897 del CIC si dice: “ La Santissima Eucaristia è il più augusto dei sacramenti, poiché in essa è contenuto, viene offerto e si riceve lo stesso Cristo Signore, e in virtù del Sacramento vive e cresce continuamente la Chiesa. Il sacrificio eucaristico, memoriale della morte e della risurrezione del Signore, in cui si perpetua nei secoli il Sacrificio della Croce, è il culmine e la fonte di tutto il culto e di tutta la vita cristiana: con esso si esprime e si effettua l’unità del popolo di Dio e si compie l’edificazione del Corpo di Cristo. Gli altri sacramenti, infatti, e tutte le opere di apostolato della Chiesa sono strettamente legati all’Eucaristia e ad essa sono ordinati. In questo canone viene messo in risalto come l’Eucaristia sia la fonte ed il culmine della vita della grazia e della missione della Chiesa; come l’Eucaristia non si possa ridurla soltanto alla celebrazione di un rito liturgico. Quindi esercitare il proprio sacerdozio, celebrando l’Eucaristia, significa anzitutto esercitare una propria funzione a vantaggio di tutto il Corpo Mistico e dell’umanità intera. Al can. 904 si dice “…si raccomanda vivamente la celebrazione quotidiana, la quale anche quando non si possa avere la presenza dei fedeli, è sempre un atto di Cristo e della Chiesa, e, con esso i sacerdoti adempiono il loro principale ministero”… Quello che viene messo in risalto nei canoni riguardanti l’Eucaristia e la celebrazione della stessa è che da un lato l’Eucaristia deve essere una realtà comunitaria che esprime la reale dimensione dell’amore tra i credenti che s’incontrano in una dimensione umana, spezzando il pane insieme e mangiando dell’unico Pane. Dall’altro lato, però, l’Eucaristia non può essere ridotta ad un aspetto prettamente giuridico e sociale, come se non avesse valore qualora non fosse presente “la comunità”. Il sacrificio eucaristico, infatti, continua ad avere una efficacia di estensione senza confini di luogo, in quanto agisce in tutto il mondo terreno ed ultraterreno a vantaggio di coloro che hanno ancora bisogno di purificazione, anche quando è presente solo il celebrante. Infatti nel can. 904 si dice che la celebrazione dell’Eucaristia, anche quando non si possa avere la presenza dei fedeli, è sempre un atto di Cristo e della Chiesa, e, con esso i sacerdoti adempiono il loro principale ministero”… Perciò, per giusta e ragionevole causa, in quanto bisogna conservare anche il segno visibile di un minimo di comunità, il sacerdote può “celebrare senza la partecipazione di qualche fedele” (can 906).
Considerando poi che con la perdita dello stato clericale – a seguito della dispensa regolarmente concessa dal Romano Pontefice – si perde anche l’incardinazione ad una chiesa particolare, si potrebbe discutere del problema del collegamento della Chiesa particolare con l’Eucaristia e che verrebbe a mancare per i preti sposati. Bisognerebbe approfondire se la proibizione di celebrare l’Eucaristia da parte dell’autorità umana ecclesiastica, a causa di questa mancanza di collegamento con una chiesa particolare, dal momento che non si è più chierici incardinati, sia lecita e valida. Per esempio un sacerdote pistoiese non poteva sentirsi vincolato nella sua azione pastorale dalla norma del Concilio di Pistoia che condannava la devozione al Sacro Cuore come “erronea e almeno pericolosa”. Ci si potrebbe domandare se chi trasgrediva tale norma facesse male, oppure no ? ( n. 61 della Costituzione Auctorem Fidei) Oppure il sacerdote che assolveva il penitente che aveva solo l’attrizione circa i propri peccati, ma non la contrizione e solo il proposito di evitarli, senza aver dato prova di volerlo mantenere con “diuturno esperimento”, trasgredendo così la norma del Sinodo della sua Chiesa, agiva forse male ? ( n. 36 della stessa Costituzione).
Secondo i principi di S. Tommaso, che sono poi alla base di ogni testo di morale, viene detto :” Poiché l’autorità del prelato spirituale - che non è padrone ma servitore – gli è stata concessa non per distruggere, ma per costruire (2Cor.10,8), come il prelato non può comandare ciò che in se stesso dispiace a Dio, cioè il peccato, così non può proibire ciò che in se stesso piace a Dio, cioè le opere buone ( Summa Teologica II-II,88,12,2). Ed ancora : “Le leggi possono essere ingiuste in forza di una loro contrarietà al bene divino… tali leggi non è lecito in alcun modo osservarle” (Summa Teologica 1-2,96,4). “La legge dello Spirito Santo è superiore ad ogni legge fatta dagli uomini. Perciò gli uomini spirituali, in quanto si lasciano condurre dalla legge dello Spirito Santo, non sono sottoposti alla legge in quelle cose che sono contrarie a tale conduzione da parte dello Spirito Santo” ( Summa Teologica 1-2,96,5,2). “Quanto alle leggi umane che vanno contro il mandato divino, il potere dell’autorità non si estende fin là. Perciò non si deve ubbidire in questi casi alla legge umana” (Summa Teologica 1-2,94,4,2). “Se non si osserva una norma per un motivo ragionevole, questa trasgressione non costituisce peccato”( Summa Teologica II-II, 47,3,2).
Ora poiché la realtà del sacramento dell’ordine rimane anche nel prete-sposato e di conseguenza anche l’abilità intrinseca ad offrire il Sacrificio, non per sua devozione personale, ma per i bisogni e necessità dei vivi e defunti, non si può dimostrare su che base l’autorità umana ecclesiastica potrebbe validamente limitare questa mansione “costruttiva”, se veramente “la salvezza delle anime deve essere sempre nella Chiesa la legge suprema” (can 1752). Siccome la volontà dei pastori della Chiesa nella loro vera intima intenzione non può non coincidere con la volontà del Signore che vuole comunicare la Grazia attraverso tutte le vie possibili sacramentali e non, e attraverso il Sacrificio Eucaristico, non è possibile che una simile proibizione abbia sussistenza nella realtà soprannaturale anche se avesse un’apparenza giuridica. Perciò l’Eucaristia di un prete sposato è in pieno collegamento con la Chiesa; ancor più se egli concelebra nell’Eucaristia che si celebra in Chiesa. L’autorità ecclesiastica non è illimitata, assoluta, ma sottoposta alla Parola” (D.V., 10) cioè alla legge divina, ma non “ad destructionem” , altrimenti si cade in quel “positivismo giuridico” che giustamente si rimprovera nei confronti di teorie che conferiscono allo stato il potere di stabilire lui ciò che è buono o cattivo, senza tener conto di leggi naturali. E’ ammissibile che l’autorità ecclesiastica possa proibire l’esercizio del ministero sacerdotale a preti sposati in forma pubblica ed ufficiale, per motivi di “ordine pubblico”, disciplinare, ma non quando il prete sposato presiede l’Eucaristia in forma privata, in quanto così non reca alcun compromesso alla salute spirituale del popolo di Dio, ma anzi giova incommensurabilmente ad esso. Vi sono buone ragioni per sostenere come “sentenza probabile” che non è proibito al prete sposato l’esercizio di “qualsiasi atto sacerdotale”. Lo studio della teologia morale mi aiuta a stabilire come punto fermo che nessuno può essere impedito di seguire una opinione fondata e probabile. Ora, mentre le Norme della Congregazione per la Dottrina della Fede del 13/01/1971 proibivano ai preti dispensati di svolgere qualsiasi funzione dell’Ordine sacro, invece nel Sinodo dei Vescovi del successivo novembre 1971 sul sacerdozio ministeriale si dice che il “sacerdote dispensato “non sia ammesso ad esercitare le attività sacerdotali” (115 placet; 84 iuxta modum). Questa espressione lascia indubbiamente intendere un significato diverso dalla precedente dal momento che non specifica se tutte o solo alcune. Infatti, molti vescovi innovatori hanno ritenuto questa espressione sufficientemente ampia” come faceva notare il cronista F.De Sanctis sul Corriere della Sera del 04/01/1971. In realtà “le attività sacerdotali si possono intendere nella loro totalità o anche parzialmente. Il che non sarebbe stato possibile se fosse stato detto “ non sia ammesso ad esercitare alcuna attività sacerdotale”. Questa espressione è stata indubbiamente calibrata anche per la mediazione di Paolo VI nei confronti delle pressioni particolarmente dell’episcopato Olandese ( cfr. Regno Documentazione, maggio 1971). Questa espressione più generica si è affermata nei rescritti delle successive dispense. Un Teologo spagnolo faceva notare che “ l’attuale rescritto di dispensa cambia la frase “ nullam ordinis sacri functionem peragat” in “ exclusus manet ab exercitio sacri ministeri” che è poi la formula del nuovo codice di Diritto canonico al can. 292 : “ … potestatem ordinis exercere prohibetur”, non dice “nullam potestatem” ed aggiunge “salvo praescripto can 976”, non dice “salvo tantum”, né, come nel canone precedente (can 291) “praeter casus”. Questo significa che il caso della assoluzione in pericolo di morte ( can. 976) è una eccezione ammessa esplicitamente, ma non viene detto che sia l’unica.
Altro, infatti, è l’esercizio pieno del ministero presbiterale, in modo pubblico ed ufficiale, altro è compiere certi atti in modo non pubblico, senza scandalo per il bene del Corpo Mistico. Questa interpretazione probabile della legge ha molti sostenitori teorici e pratici nell’episcopato cattolico, anche se non pubblicamente dichiarati, perché si sa molto bene a quali conseguenze i vescovi andrebbero incontro qualora il loro pensiero fosse, anche se in modo lecito, difforme da quello delle persone in “alto loco locate”!
Quindi si può affermare che Il prete-sposato che volesse presiedere l’Eucaristia, non in modo pubblico ed ufficiale, ma in modo non pubblico, senza scandalo, per il bene del Corpo mistico di Cristo, non per sua devozione personale, ma per i bisogni e necessità dei vivi e defunti, lo può fare validamente ed anche lecitamente, avendo come piccola comunità concelebrante i propri famigliari ( moglie, figli, parenti). D’altra parte la Chiesa stessa definisce la famiglia “piccola Chiesa domestica”. Si tornerebbe così a quelle modalità di presiedere l’Eucaristia da parte del presbitero, praticato nelle prime comunità cristiane e descritte negli Atti degli Apostoli (2,42). I primi cristiani “ erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli Apostoli e nell’unione fraterna, nello spezzare il pane e nelle preghiere”.
C) L’annuncio della Parola ( il ministero della Parola di Dio : cann 756-761)
Il can. 762 afferma che il popolo di Dio viene radunato in primo luogo dalla parola del Dio vivente ed è del tutto legittimo ricercare questa parola dalla bocca dei sacerdoti. Il ministero della predicazione è uno dei principali doveri dei sacri ministri (vescovo, presbitero, diacono). Il can. 763 afferma che è diritto dei vescovi predicare la parola di Dio, dovunque… però – dice il can. 766 - qualora la necessità lo richieda in determinate circostanze o se, in particolari casi, l’utilità lo consigli, i laici possono venire ammessi a predicare in una chiesa o in un oratorio, secondo le disposizioni della conferenza episcopale e salvo il canone 767, § 1, ove si afferma che tra le forme di predicazione ha un posto di particolare rilievo l’omelia che è parte della stessa liturgia ed è riservata al sacerdote o al diacono….Nel can. 771, § 1 e §2 viene espressamente detto che i pastori d’anime, soprattutto i vescovi ed i parroci, abbiano cura che la parola di Dio sia annunciata anche a quei fedeli che, per le loro condizioni di vita, non usufruiscono sufficientemente della comune e ordinaria cura pastorale o ne siano del tutto privi. Provvedano pure che il messaggio evangelico giunga ai non credenti che sono nel territorio, poiché la cura delle anime deve comprendere anche loro, non diversamente che i fedeli. Tutti i fedeli afferma il can. 211 hanno il dovere ed il diritto d’impegnarsi perché il messaggio divino di salvezza si diffonda sempre più fra gli uomini di tutti i tempi e del mondo intero”. I compiti sono peraltro differenziati: rispondono all’ufficio ed alla potestà esercitata da ciascuno nella Chiesa. In conformità con l’Evangelii nuntiandi di Paolo VI, i cann. 756-759 richiamano distintamente i compiti del Romano Pontefice, del Collegio dei Vescovi, dei Vescovi diocesani e del Clero, dei membri degli Istituti di vita consacrata, dei laici. L’annuncio del Vangelo spetta a tutto il popolo di Dio, di cui i laici sono la parte più numerosa. Anch’essi hanno un duplice dovere: della testimonianza, in forza del battesimo e della confermazione (fondamento teologico), mediante l’esempio di una vita cristiana e la professione aperta della fede – dell’annuncio esplicito con la partecipazione al ministero della parola. E’ il vescovo che gerarchicamente affida loro questo compito, associandoli all’opera dei presbiteri e dei diaconi. Le forme precipue del ministero della Parola sono la predicazione e la catechesi, ma anche l’esposizione della dottrina nelle scuole, nelle accademie, nelle università, nelle conferenze e riunioni di ogni genere, come anche la sua diffusione mediante pubbliche dichiarazioni della legittima autorità, fatte in occasione di speciali eventi, attraverso la stampa e con altri strumenti di comunicazione sociale ( can. 761). Molti sono oggi i laici che insegnano religione nelle scuole, nelle università ecc., come anche i preti-sposati, dipende dalla sensibilità dei vescovi diocesani, nella cui diocesi i preti sposati hanno la loro residenza con la famiglia ed operano. I preti sposati compiono questa opera anche nell’insegnamento della filosofia, della storia, delle lettere, nelle riunioni in cui si studia la S. Scrittura. Il Sinodo del 1971 già le aveva quasi esplicitamente incoraggiate le iniziative dell’annuncio quando diceva che il prete dispensato “può aiutare nel servizio della Chiesa”. Si tratterebbe, allora di estendere in pratica, concretamente l’utilizzo dei preti-sposati in queste mansioni, spingendosi, forse, fino a fargli tenere liturgie della Parola con omelie, là dove non c’è la celebrazione dell’Eucaristia ( anche se in questo senso c’è in pratica una degradazione del popolo di Dio in quanto il prete-sposato non viene autorizzato a presiedere l’Eucaristia a causa di un “incanonimento” senza senso !...). In questo campo ogni proposta può essere utile. Non bisogna comunque “seppellire i talenti” tipicamente presbiterali, impedendo qualsiasi esercizio del potere dell’Ordine, perché questo sarebbe un andare contro la parola di Gesù.
Oggi è impressionante il numero di preti che essendosi sposati hanno dovuto lasciare il loro ministero. Questo raramente viene riconosciuto come problema dalle autorità della struttura ecclesiastica. Discutere certi temi può rappresentare una minaccia per i preti, mentre ignorarli può servire da terapia. Se alcuni vescovi possono pensare che discutere certi problemi possa danneggiare la stabilità dell’organizzazione ecclesiastica, altri forse sono preoccupati per la confusione che si è creata fra un celibato giuridico, come parte integrante del presbiterato, ed un celibato accolto con gioia e liberamente come dono dello Spirito Santo, secondo il quale vivere la propria vita come testimonianza “profetica” del Regno di Dio. Sarebbe giusto e doveroso discutere con libertà e tranquillità un problema così importante e risolverlo per sanare la grande ferita della Chiesa. Stranamente ci si preoccupa di più della diminuzione dei giovani che si fanno preti, piuttosto che del numero sempre più elevato di preti che si ritirano. Molte lettere pastorali indirizzate alle parrocchie non accennano mai a quei presbiteri che lasciano il loro ministero, ma lamentano solo la mancanza di vocazioni da parte di tanti giovani e di questo trattano come di una carenza di valori individuali alimentata anche da tanti genitori che non riescono a dare una educazione religiosa ai loro figli. La Chiesa riconosce che colui che ha ricevuto il sacramento dell’Ordine Sacro, rimarrà per sempre presbitero e al prete sposato (in attesa di un riconoscimento pieno) rimangono compiti importanti da svolgere all’interno delle comunità. Se il prete sposato non può più mediare il perdono di Dio tramite l’assoluzione, fatta l’eccezione contemplata nel canone 976, può, tuttavia, accettare con generosità gli errori dei propri simili, può ispirare tolleranza, coraggio ed ottimismo, portare la parola di Dio in un mondo insoddisfatto, dove spesso i valori spirituali vengono dimenticati. Se non può presiedere pubblicamente l’Eucaristia, può far sentire a tutti, però, la bellezza dell’amore. In un mondo dove le famiglie ed i governi sono tormentati da tanti disaccordi il vero compito del prete è quello di riportare la Parola dell’amore che unisce gli animi degli uomini e far vedere loro un orizzonte meno limitato di quello terreno e far capire a tutti l’attualità del Vangelo. Forse è necessario che ogni prete sposati inizi a presiedere l’Eucaristia nella propria famiglia, aprendo la propria casa anche ad altre famiglie che lo richiedessero proprio come ai primi tempi della chiesa primitiva. Appare veramente assurdo come ancora oggi la Chiesa non incoraggi tanti preti che hanno rifiutato un celibato imposto abbandonando così il loro ministero, al reinserimento nelle loro comunità. In fondo è da Dio e dalla Chiesa che essi sono stati chiamati. D’altra parte se molti preti sposati fanno un lavoro sociale, scolastico, politico, paramedico e culturale… se un terzo delle loro spose lavora per la Chiesa ed i loro figli, oltre che essere stati battezzati vengono educati nella religione cattolica, secondo gli insegnamenti del Vangelo, allora non è vero che essi hanno abbandonato il loro ministero sacerdotale per sposarsi, ma si sono sposati per essere preti sposati in mezzo ad un popolo sposato, esercitando il loro ministero presbiterale lavorando fra di loro. E’ chiaro che se la scarsità di preti celibi continua a salire e se aumentano il numero di parrocchie senza presbitero celibe fisso, allora è evidente che il presbiterato necessariamente celibatario nella Chiesa non raggiunge più lo scopo della sua ragione d’essere. E, se il papa che ha riservato a sé ogni decisione in merito, preferisce conservare la prassi di un celibato imposto ad ogni chiamato al ministero presbiterale nella comunità degli uomini e vedere l’espandersi all’interno delle famiglie che formano la Chiesa di una mentalità pagana, perché non sufficientemente seguite ed aiutate a crescere secondo il Vangelo, per la mancanza di presbiteri, allora significa che lo Spirito santo è venuto meno al suo compito di chiamare i giovani al presbiterato celibatario, come stabilito dalla Chiesa di Cristo, nella persona del Romano pontefice, vicario di Cristo in terra. Se la voce di tutti gli altri ( vescovi, sacerdoti e laici) che, attraverso il battesimo appartengono al Popolo di Dio, non viene ascoltata, lo Spirito Santo ed il papa vedessero di trovare un accordo quanto prima, sempre per il bene e la salvezza delle anime che come dice il can.1752 “ in Ecclesia suprema semper lex esse debet”. Giuseppe. Mercoledì, 11 gennaio 2006 |