La questione del celibato obbligatorio
La maturità affettiva e sessuale

di Nadir Giuseppe Perin

Queste riflessioni sulla maturità affettiva e sessuale hanno lo scopo di mettere in luce alcuni concetti importanti:la maturità affettiva e sessuale è uno dei tanti aspetti  che riguardano la personalità dell’essere umano; è un obiettivo a cui tendere e che rientra nell’ambito dell’educazione e della formazione, affidata in maniera responsabile prima di tutto ai genitori nei confronti dei figli, continuata e perfezionata nei vari aspetti culturali, umanistici, morali e religiosi, dalle diverse istituzioni a ciò preposte come la scuola, l’università, la comunità religiosa di appartenenza ecc…Si tratta di un cammino che dura tutta una vita perché riguarda un processo dinamico e non statico; si tratta di un processo organico e vitale in un giusto equilibrio dei vari aspetti della personalità; riguarda non soltanto il seminarista o il sacerdote, ma ogni membro della società, indipendentemente dalla vocazione che è chiamato a svolgere all’interno di essa. E’ necessario, quindi, uscire dall’illusione che il prete uscito dal seminario possa essere “un prodotto finito”, nel senso che ci si aspetta da lui subito e per sempre, maturità e piena efficienza, come non si può pensare che quando due si sposano, possano essere un marito ed una moglie perfetti, ed aver raggiunto la piena maturità affettiva e sessuale. Per arrivare a questa meta è necessaria l’azione, la consapevolezza e la libertà. Se viene a mancare uno di questi elementi fondamentali, sarà molto difficile raggiungere la piena maturità affettiva e sessuale.

----------------

L’essere umano è caratterizzato dalle sue facoltà spirituali: la capacità di pensare, di volere, di amare.

L’intelligenza ci permette di non fermarci all’approccio superficiale, immediato, delle persone, delle cose e degli eventi, ma di cogliere dall’interno il significato, il senso ed i valori di tutto quello che ci circonda.

La volontà, creando i legame tra i nostri pensieri e i nostri atti, costruisce la nostra coerenza personale. Lungi dall’agire in maniera istintiva, cerchiamo di creare l’unità tra pensiero ed azione. Liberandoci progressivamente dal ripiegamento su noi stessi, entriamo in solidarietà con gli altri, elaborando un’etica di libertà responsabile.

Ma, le nostre risorse di intelligenza e di volontà trovano il loro coronamento nella capacità di amare.

Queste sono le facoltà, diversamente sfruttate dagli uni e dagli altri, ma che caratterizzano la persona umana e la vita spirituale appare come il fuoco interiore di ogni essere dotato di coscienza e di libertà, nel cuore di un mondo alla ricerca costante di fraternità.

 

Qualche tempo fa, “accademici, uomini di cultura, direttori di giornale, manager ed imprenditori, provenienti da diverse esperienze ideali” hanno sottolineato che “se ci fosse un’educazione del popolo potremmo stare tutti meglio”.

L’appello prende spunto dalla situazione dell’Italia “attraversata da una grande emergenza” che non  è quella politica e neppure quella economica a cui tutti legano la possibilità di “ripresa” del paese, ma qualcosa da cui dipendono anche la politica e l’economia, cioè l’educazione. Riguarda ciascuno e tutti, perché attraverso l’educazione si costruisce la persona e quindi la società. Non è solo un problema di istruzione o di avviamento al lavoro. E’ in crisi la capacità di una generazione di adulti di educare i propri figli. Per anni e da vari pulpiti – scuole e università, giornali e televisioni – si è predicato che la libertà è assenza di legami e di storia, che si può diventare grandi senza appartenere a niente e a nessuno, seguendo semplicemente il proprio gusto o piacere. E’ diventato normale pensare che tutto è uguale, che nulla in fondo ha valore se non i soldi, il potere e la posizione sociale. Si vive come se la verità non esistesse, come se il desiderio di felicità di cui è fatto il cuore dell’uomo fosse destinato a rimanere senza risposta”.

Introdurre alla realtà ed al suo significato (= educare), mettendo a frutto il patrimonio che viene dalla tradizione culturale, è possibile e necessario ed è una responsabilità di tutti. Ma, affinché questo avvenga  è necessaria la presenza e l’impegno di uomini appassionati che in virtù delle loro esperienze ideali aiutino gli altri uomini, i giovani in particolare, a mettere in gioco il loro cuore e la sua esigenza ultima di verità, di bellezza, di Giustizia, di Felicità, generando così uomini liberi che scoprono nella realtà qualcosa che corrisponde al loro senso religioso che genera una strana e nuova unità tra laici e credenti, fondata sulla comune ricerca ed esperienza del Vero. L’educazione è possibile se si vive una tradizione ricca di ideali che corrispondono al cuore dell’uomo, se si è disposti a metterla in discussione criticamente di fronte alla realtà, se si vive un’esperienza di novità nel presente insieme ad altri uomini.

Il primo nemico dell’educazione sono quelle oscure forze presenti nel nostro animo per cui l’uomo “ è fatto per la vita, ma cerca la morte”, come dice il Libro della Sapienza. Ma esistono altri nemici dell’educazione, cioè quelli che rifiutano di riconoscere questo “soffio infinito” presente nell’uomo. I portatori di relativismo e di nichilismi nefasti, in nome di visioni distorte della natura umana, rendendo gli uomini schiavi di idoli da loro scolpiti: la razza, la classe, la libertà da ogni vincolo, il progresso inteso a loro uso e consumo, la giustizia farisaica  dei presunti buoni contro i presunti cattivi. Questi nemici dell’educazione non vogliono ammettere che possa esserci un’esperienza di verità, di corrispondenza al Vero, che possa diventare la base per un cambiamento dell’uomo e della società tutta. C’è bisogno che tutti riprendiamo la via antica  ed al contempo nuova dell’educazione al Vero e alla libertà. Bisogna difendere il futuro educando nel presente (cfr. Giorgio Vittadini, in Il Giornale, giovedì 17 novembre 2005).

La prima comunità sulla quale grava il compito educativo è la famiglia. Solo se i genitori si riapproprieranno della loro missione educativa e sapranno essere elemento di riferimento per i loro figli, la nostra società saprà sopravvivere al Terzo Millennio. Il più grosso rimprovero che i figli fanno ai genitori è la loro incoerenza. I giovani rimproverano loro di aver rinunciato ad educarli. La crisi relazionale va ricercata proprio nell’insignificanza degli adulti. La grande sfida che la famiglia, la società e la Chiesa hanno davanti è quella di far ritornare gli adulti ad essere dei modelli da imitare e non delle figure sbiadite, vuote di significato, come spesso, molti lo sono oggi. Gli adulti non hanno più il senso del tempo e vivono come se il futuro non esistesse, pensando solo al proprio star bene negli anni a venire. Ma, dal momento che il futuro è nei giovani, questi non si convinceranno mai che il vivere ha senso, se non vedranno adulti capaci di  testimoniare ciò.

In questo contesto sociale vivono anche coloro che si preparano al sacerdozio per cui  se la società sente il bisogno che l’educazione venga estesa a tutto il popolo e diventi la base per un cambiamento dell’uomo e della società tutta, anche la Chiesa (gerarchica) - di fronte ai seminari  quasi vuoti; al numero di coloro che lasciano l’esercizio del loro ministero; all’emergere di situazioni scandalose che coinvolgono  i sacerdoti che esercitano il ministero… sente il bisogno di dettare nuove regole per educare  i seminaristi durante il loro cammino di formazione e preparazione al sacerdozio, ad una maggiore maturità affettiva e sessuale, affinché i sacerdoti di “domani”, nell’esercizio del loro ministero sacerdotale, riescano a vivere nella perfetta e perpetua continenza, riconoscendo nel celibato un dono d’amore al Signore ed ai fratelli.

Ma, la maturità affettiva e sessuale è un traguardo educativo che riguarda tutti, indipendentemente dalla professione o dalla vocazione.

“Educare” è un compito che spetta prima di tutto alla famiglia, ai genitori nei confronti dei figli e poi ai vari soggetti giuridici, preposti all’educazione, come la scuola, l’Università e che deve comprendere non solo la formazione culturale ed umanistica dell’uomo, ma di tutto l’uomo e quindi anche della sua parte spirituale.

 

Giovanni Paolo II in un messaggio inviato al card. Zenon Grocholewski, allora prefetto del dicastero per l’educazione cattolica da cui dipendono i seminari nel mondo, gli faceva sapere che  stava preparando un documento sui criteri generali di ammissione al sacerdozio e per verificare la maturità affettiva e sessuale del seminarista. “Già al momento dell’ammissione dei giovani al seminario – scriveva il papa- va verificata attentamente la loro idoneità a vivere il celibato così da giungere prima dell’ordinazione ad una certezza morale circa la loro  maturità affettiva e sessuale. Alla luce degli attuali mutamenti sociali e culturali, può a volte risultare utile  che gli educatori si avvalgano dell’opera di specialisti competenti per aiutare i seminaristi a comprendere più a fondo le esigenze del sacerdozio, riconoscendo nel celibato un dono d’amore al Signore ed ai fratelli”.

Dalle parole del Papa, appare chiaro che si tratta di un’educazione mirata, cioè con una finalità ben precisa (= aiutare i seminaristi a comprendere più a fondo le esigenze del sacerdozio, riconoscendo nel celibato un dono d’amore al Signore ed ai fratelli”) e che riguarda solo uno degli aspetti fondamentali della personalità dell’uomo, cioè la sua maturità affettiva e sessuale.

Molti, infatti, sono i disagi ai quali, nella società moderna, il sacerdote va incontro, soprattutto relativi alla sfera affettiva e sessuale e numerose possono essere le ragioni che ci possono aiutare a capire e spiegare il disagio diffuso in molti sacerdoti del nostro tempo; ad es. i troppi e repentini cambiamenti sia nella società che nella Chiesa (anche se in quest’ultima i cambiamenti sembrano non essere troppo evidenti).

Anzitutto, sembra che la fine della Societas christiana  abbia generato un cattivo rapporto con la cultura ed il linguaggio del nostro tempo, creando una sensazione di estraneità e di emarginazione (Presbyterorum ordinis, 22).  La difficoltà a trasmettere la fede alle nuove generazioni e quindi di passare da una pastorale di conservazione a quella dell’annuncio missionario, sembra abbia generato, in molti preti, un senso di inutilità e di frustrazione. Ma, la sensazione più dolorosa che si prova è quella che, insieme alla fine di una cristianità, sia arrivata, anche, la fine del cristianesimo.

Tutto questo, fa sorgere  nel sacerdote delle domande inquietanti circa la sua identità, non solo di uomo che vorrebbe contribuire alla storia del proprio tempo, ma anche di prete che vede molto ridotta l’incidenza del suo ministero, se non addirittura nulla.

In un clima, poi, di autoreferenzialità, a causa dell’individualismo esasperato della cultura in cui si vive, il sacerdote fa fatica ad accettare di essere un “uomo dell’istituzione”. I rischi vanno da un isolamento indispettito ed arrabbiato contro un mondo sentito ostile, ad un tuffarsi dentro il flusso storico, sorbendo tutto acriticamente, pur di avere la sensazione di essere accettati ed utili alla storia degli uomini. In ambedue i casi ne deriva stanchezza fisica, psicologica e spirituale, frustrazione, stress, atteggiamenti rinunciatari, frantumazione della personalità, sottile scetticismo, sensazione di fallimento, perdita di passione per il Regno, rassegnazione e disinteresse per le sorti dell’uomo. La conseguenza  è quella di una chiusura in se stessi, di un pragmatismo senz’anima, nel senso che si prende il proprio ministero come fosse una professione, di un atteggiamento refrattario e disilluso verso tutto, anche per gli incontri spirituali e di una perdita di senso (cfr. La formazione permanente dei presbiteri nelle nostre Chiese particolari, lettera della Commissione episcopale per il clero, nn. 8,15,21).

C’è una strada che si può percorrere allo scopo di superare questo disagio esistenziale, vivere la contingenza storica, contraddittoria ed avara di risultati, con sufficiente serenità e senza frustrazione ? Si ! Ed è quella di chiarire le verità essenziali che devono guidare la nostra vita e di decidere di identificarsi liberamente con esse.

Ma, per questo occorre una grande maturità ed una santità  che siano specifici per il nostro tempo.

Questo vale sia per gli uomini chiamati al sacerdozio che per quelli chiamati, per esempio, alla vita matrimoniale. Ogni vocazione richiede una grande maturità ed una santità.

La formazione è un processo organico, per cui un aspetto influisce sugli altri: crescono o decrescono contemporaneamente. Anche la maturità affettiva e sessuale, che è uno degli obiettivi della formazione e dell’educazione, ha la sua caratteristica particolare che è quella di essere una “modalità dinamica ”  e non statica, perché si conquistano a fatica, giorno dopo giorno. Il che significa che ogni uomo ed ogni donna deve “lavorare” quotidianamente, indipendentemente dalla vocazione, per riuscire a  maturare sotto l’aspetto affettivo e sessuale. La maturità, allora, è un processo che dura l’intera vita. E’ un cammino quotidiano di conversione al dono ricevuto, cioè alla vocazione alla quale la persona è chiamata, secondo i doni ricevuti dallo Spirito santo… come la vocazione al sacerdozio o la vocazione alla vita matrimoniale … Quando un prete esce dal seminario, pur avendo fatto un cammino di formazione, non si può considerare “un prodotto finito”; né quando un giovane si sposa può pensare di essere “un marito perfetto” od “una sposa perfetta”.

Si potrebbe, allora, definire la maturità, come la capacità di scegliere e ri-scegliere in maniera autonoma, consapevole e libera, i valori oggettivi della propria vita di uomo, di credente, di presbitero, di uomo sposato, nella loro obiettività totale, adeguandovi la soggettività, nell’azione quotidiana.  

Ma, questa scelta, quotidianamente rinnovata, deve avvenire in un contesto di autonomia, di consapevolezza e di libertà.

Qui ci troviamo di fronte alla prima difficoltà nell’educare il seminarista alla maturità affettiva e sessuale. Infatti, fino a quando la scelta del “celibato”, cioè il vivere in castità perfetta, non sarà una scelta  autonoma, consapevole e libera da qualsiasi  “imposizione canonica”, sarà molto difficile per il seminarista prima e per il sacerdote poi, raggiungere quella maturità affettiva e sessuale per  vivere, per tutta la vita,  il suo ministero sacerdotale con maturità, saggezza e disponibilità totale al servizio pastorale dei fratelli, perché in quel processo di maturazione, è venuto a mancare l’elemento “libertà”.

Non ci può essere processo di maturazione dove manca la libertà di scegliere; ed i seminaristi  non sono liberi di scegliere perché sanno già in anticipo che questo processo verso la maturità affettiva e sessuale, li porterà solo a dover scegliere : o rinunciare all’amore di una donna, nel sacramento del matrimonio, per vivere in castità perfetta per tutta la vita, oppure dovranno rinunciare al ministero sacerdotale.

In realtà, più che parlare di formazione ad una maturità affettiva e sessuale, si dovrebbe parlare di un percorso formativo, attraverso il quale, far maturare nel seminarista la convinzione che è sommamente confacente alla vita sacerdotale il rinunciare, per tutta la vita, a qualsiasi coinvolgimento affettivo e sessuale con una donna, nel sacramento del matrimonio, con la quale condividere gli ideali di un amore cristiano, a somiglianza di Cristo sposo della Chiesa, riconoscendo al Papa, come unico responsabile del ministero per la comunità ecclesiale, il diritto di stabilire, secondo i tempi ed i luoghi, quali debbano essere in concreto, gli uomini e quali i requisiti perché essi possano essere ritenuti adatti al servizio religioso e pastorale della Chiesa” (cfr. Paolo VI, Encicliche e Discorsi, Ed. Paoline, Roma 1968, Vol. XVI, p. 264) e che uno di questi requisiti è proprio quello che il candidato al sacerdozio accetti di vivere per tutta la vita in castità perfetta.

 

Ma, la domanda che ci siamo posti all’inizio, ritorna sempre prepotentemente : “ potrà il seminarista raggiungere una maturità affettiva e sessuale, finché la  scelta di vivere in castità perfetta non sarà veramente sua, cioè  totalmente libera da ogni imposizione canonica? “. Dai risultati  ottenuti e che possiamo riscontrare studiando la storia della Chiesa, sembra di no!

Forse con un esempio si potrà comprendere meglio ciò che voglio dire.

Se un giovane che desidera sposarsi  non potesse scegliere la sua sposa, ma  questa gli venisse imposta perché così  dice la legge dello stato di cui fa parte, pensate che quel matrimonio potrà durare a lungo ? O che  i due sposi saranno  felici insieme e fedeli l’uno all’altra per tutta la vita ?  Credo che incontreranno molte difficoltà  nel loro rapporto di coppia e che, prima o poi, questo rapporto “si spezzerà”.

E, qualora questo si verificasse, quale potrebbe essere una delle cause del fallimento del loro matrimonio ? Il non aver raggiunto la piena maturità affettiva e sessuale ?  O non piuttosto il fatto che, fin dall’inizio, non hanno avuto la libertà di  poter scegliere il partner con il quale condividere la vita matrimoniale? 

Lo stesso si potrebbe dire del seminarista che per diventare prete deve accettare di vivere per tutta la vita in “castità perfetta”. Una scelta che non ha fatto lui, ma che gli è stata imposta, secondo il Diritto Canonico. E’ la stessa Chiesa (giuridica) che lo afferma . “Questo discernimento deve essere fatto alla luce della concezione del sacerdozio ministeriale in concordanza con l’insegnamento della Chiesa(giuridica)”.

 

Per poter raggiungere la maturità di uomo, di cristiano, di sacerdote, di sposo è necessario tener presente i tre livelli  che contribuiscono alla sua realizzazione :  

  • il livello dell’azione : riguarda l’ambito dell’esercizio del ministero al quale uno è chiamato: in questo caso quello sacerdotale. Ma, la stessa affermazione la si potrebbe fare anche per gli sposi che, nel matrimonio, sono chiamati al  ministero di genitori.
  • Il livello della consapevolezza : riguarda la  conoscenza del mistero operante nel ministero. Il sacerdote deve diventare sempre più consapevole del MISTERO che opera nel suo MINISTERO.  Tale  mistero, per il sacerdote, è costituito dal fatto che egli è sacramento di Cristo seminatore, pescatore e pastore ed inserito nel munus apostolicum dei vescovi.

La maturità di un sacerdote, allora, consiste nello scegliere liberamente e quotidianamente il mistero presente nella sua azione ministeriale e conformarsi (cioè prendere la forma) a Cristo seminatore, pescatore e pastore.

Anche la maturità della coppia cristiana consiste nello scegliere liberamente, giorno dopo giorno, il mistero di Cristo sposo, presente nella loro vita matrimoniale e conformarsi ad esso, cioè prendere quella forma di Cristo sposo : “ Come Cristo ama la sua sposa, la Chiesa, così il marito ami la propria moglie”. Dal momento che anche gli sposi  sono sacramento di Cristo in quanto sposo della Chiesa, anche loro, all’interno delle varie comunità parrocchiali, se vogliono vivere il sacramento del matrimonio, nella dimensione della sacramentalità di Cristo, sposo della Chiesa, devono essere, con la loro famiglia, annunciatori del regno di Dio e quindi missionari.

La consapevolezza, di cui ho parlato, si potrebbe definire, allora, come il contatto cosciente col valore oggettivo delle azioni ministeriali, purificandole da quei valori che sono stati aggiunti abusivamente, dai condizionamenti ambientali o dalla propria pigrizia e che chiamiamo disvalori.

 

Tale consapevolezza riguarda diversi livelli: quello intellettuale ( che significa : conoscere, attraverso studi seri la realtà del mistero, del ministero, del tempo storico in cui si vive); quella psicologica ( che significa conoscere il mondo dei propri sentimenti, dell’affettività, della propria psiche); quella spirituale (che significa venire in contatto col proprio cammino di fede, prendendosi cura della propria anima; cfr. PVD, 73); quella pastorale ( che significa conoscere la realtà e saper discernere scegliendo l’essenziale).

 

Occorre che la consapevolezza sia una ed una sola, anche se diramata nelle diverse direzioni. La consapevolezza, infatti, è della persona e non  di una sua singola facoltà. Certamente bisogna accettare il conflitto di diverse consapevolezze, presenti in noi a causa del peccato e delle tentazioni; ma lucidamente bisogna camminare verso l’unificazione.

Bisogna aggiungere, anche, che è necessario avere la consapevolezza del limite personale e comunitario, oltre che del tempo storico in cui si vive. Senza una buona consapevolezza si cade nella routine, nel riflesso condizionato, nel pragmatismo senza anima che, alla fine, portano ad essere gestiti dai condizionamenti fisiologici, psicologici, culturali, ecclesiali e quindi portano alla perdita della libertà e di senso.

Uno dei drammi più dolorosi, per lo più non avvertiti, consiste nel fatto che l’azione ministeriale possa essere compiuta senza la consapevolezza che le è propria, ma con una consapevolezza diversa. Di conseguenza anche la decisione della libertà avverrà secondo la consapevolezza che si ha di fatto e non secondo quella oggettiva. Il risultato è che  la stessa azione viene svuotata. Infatti, si può compiere un’azione ministeriale (celebrare i sacramenti, organizzare la comunità) avendo la consapevolezza di costruirsi una carriera o di guadagnare, oppure di godere di stima…Questa consapevolezza che non è quella specifica, oggettiva, dell’azione ministeriale, muove la libertà a decidere l’azione per uno scopo che non è il suo. “Ognuno fa i propri interessi, non quelli di Cristo Gesù” (Fil 2,21). Occorre, invece, che la consapevolezza abbia come oggetto il mistero di Cristo operante in quell’azione e non un’altro e quindi che la decisione sia di volere quel mistero e non altre cose.

Questa crescita esige dal presbitero una grande fatica quotidiana. Si tratta di un impegno che solo lui può decidere di  attuare oppure no. Solo lui può e deve prendersi cura della propria persona. Nessuno lo può fare o lo farà al posto suo.

Questo vale anche per la vita matrimoniale.

Ma, la consapevolezza non basta da sola. Occorre che questa penetri nelle decisioni concrete mediante il misterioso processo della libertà che decide di compiere o non compiere le azioni ministeriali secondo la verità che si è conosciuta.

 

  • Il livello della libertà : significa che, sia il sacerdote che gli sposi cristiani devono fare una scelta personale continua e giornaliera della realtà conosciuta, cioè  di Cristo che opera, anche se in modo diverso, sia nel ministero sacerdotale  che in quello di genitori.

Ci sono diverse definizioni di libertà, a secondo del campo nel quale si  attua:

- C’è una libertà politico-sociale che significa essere liberi da condizionamenti economici e politici;

- c’è una libertà psicologica che significa essere liberi da condizionamenti della psiche;

- c’è una libertà  radicale che significa non dipendere da niente e da nessuno; indipendenza assoluta;

- ma, c’è la libertà cristiana, che si misura su Cristo : uomo sommamente libero e sommamente obbediente. La libertà cristiana non è uno status, ma una vocazione ( Gal 5,1).

 

Si diventa liberi, rispondendo ad una chiamata ( PVD, 73). Il processo per diventare liberi è indicato da Gesù: “Se rimarrete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,31-32).

 

Le tappe di questa libertà cristiana sono:

  • ascoltare la parola;
  • diventare discepoli;
  • conoscere la verità;

solo così si diventa liberi. La libertà, dunque, è un punto di arrivo della fede e della verità. Pertanto essa è un dono ricevuto, meta da raggiungere, vocazione alla quale rispondere. Il contenuto della libertà è il servizio e la carità. “Fratelli siete chiamati a libertà. Purchè […] siate a servizio gli uni degli altri nella carità” ( Gal. 5,13).

Diventare liberi significa, allora, essere liberati dai condizionamenti che impediscono il dono di sé nell’amore. Gesù dice: “Per questo il Padre mi ama, perché io offro la mia vita […]Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso. Ho il potere di offrirla e di riprenderla” (Gv 10,17-18).

Libero è quel sacerdote che, unito a Cristo, impara, rispondendo al dono, ad amare donando se stesso e a ricevere l’amore ed il dono degli altri.

Lo stesso si può dire degli sposi cristiani: liberi sono quegli sposi che, uniti a Cristo, imparano, rispondendo al dono, ad amare donando se stessi ed a ricevere l’amore e il dono degli altri.

 

In questa prospettiva, è chiaro, che la maturità affettiva e sessuale, non riguarda soltanto il seminarista, ma è un obiettivo al quale deve tendere anche il giovane che Dio chiama, per esempio, alla vita matrimoniale, se non vuole che il suo matrimonio, alle prime difficoltà, vada “a rotoli”.

Infatti, la “maturità affettiva e sessuale” è un elemento essenziale  della personalità di ogni individuo, qualunque sia la sua professione o il servizio che è chiamato a prestare all’interno della comunità.

La triade che entra nella formazione e porta alla maturità del presbitero, come degli sposi cristiani, è data dall’ Agire, dal sapere e dallo scegliere. Prima viene l’azione, poi la consapevolezza ed infine la scelta libera.

Troviamo questa successione nella lavanda dei piedi (Gv 13):

  • Cristo compie un’azione ( lava i piedi) = ( l’azione);
  • poi chiede “ Sapete cosa vi ho fatto?”  = (la consapevolezza);
  • ed infine proclama: “Beati voi se, sapendo queste cose, le mettete in pratica” = (la scelta libera).

 Solo così si può arrivare alla beatitudine : agendo, avendo consapevolezza del mistero presente nell’azione e scegliendolo.

 

Azioni ministeriali, consapevolezza del mistero e scelta di esse, costituiscono un processo che, come una spirale ascendente, conduce gradualmente ad un’azione più gioiosa, ad una più vigile consapevolezza e ad una più facile decisione. Ciò elimina lentamente le resistenze ed i condizionamenti vari che si oppongono all’azione, alla consapevolezza ed alla libertà. Vi è, dunque, una circolarità ed una interdipendenza dei tre aspetti, che si influenzano reciprocamente. L’azione investita dalla consapevolezza diventa più trasparente e favorisce la decisione, la quale, a sua volta, rende la consapevolezza più alta e l’azione più autentica. Si tratta di un processo all’infinito attraverso il quale il mistero di Gesù cresce sempre più nel sacerdote e lo conduce verso una maturità più piena.

Si tratta di un processo ( azione, consapevolezza e libertà) che va applicato ad ogni singola azione ministeriale. Infatti, altra è l’azione dell’annunciare, altra quella del celebrare un sacramento ed altra, ancora, quella del guidare la comunità. La stessa libertà che decide, si caratterizza diversamente, arricchendosi di molte sfumature: a volte è facile, a volte difficile ed a volte sembra impossibile.

La grazia di Gesù, poi, è molteplice e costruisce i diversi aspetti della persona del prete.

Si tratta di una vita che è in continuo movimento. O si cresce secondo questo processo o si cade nella stasi, nei riflessi condizionati, nella ripetizione burocratica e professionale di gesti, senza vita per nessuno. Se non si cresce così, si va incontro alla frustrazione, che prova chi è gestito dagli avvenimenti e dalle azioni ministeriali che rimangono non scelte e quindi mute.

La formazione permanente è  necessaria perché aiuta il prete, ma anche gli sposi, facendoli crescere come  persone di fede, nella coscienza del mistero di Dio, nella comunione e nella missione (PVD,73).

Le condizioni di vita (abitazione… cibo…), le strutture ecclesiali ( seminari…), le relazioni umane arricchenti (vita comune…) e la formazione programmata costituiscono un aiuto prezioso, ma solo un aiuto, perché non possono sostituirsi alla misteriosa ed insondabile libertà che porta il singolo prete alla decisione a favore o contro il mistero presente nel suo ministero.

La formazione permanente non deve sostituirsi a questa libertà, né forzarla, ma deve condurre il singolo alla soglia oltre la quale incomincia la zona sacra del mistero della libertà. A quel punto l’uomo è solo nel decidere le sorti della propria vita e del proprio ministero.

Come e perché si dice un “sì” oppure un “no” ? Non lo sappiamo. Ma quello che è certo è che il primo protagonista della crescita verso la maturità è il sacerdote stesso ( cfr. PVD, n. 69). Se il singolo prete non decide di prendersi cura della propria vita, ogni formazione dall’esterno è inutile. Lo scopo della formazione permanente è quello di far crescere la qualità, il livello della consapevolezza e muovere la libertà.

Infatti, la rivelazione di Dio, fatta da Gesù veniva annunciata alla libertà della persona perché si decidesse. Anzitutto è il prete stesso che deve ravvivare, in sé, il dono ricevuto, imparando il discernimento e progettando seriamente la propria formazione, cioè avere un vero progetto formativo.

Se questo avviene anche la comunità cristiana potrà dare il suo contributo nella realizzazione di questo progetto. La formazione, infatti, affidata al solo presbitero sarebbe un’impresa difficile e faticosa, perché la comunità è  un mistero di comunione missionaria; per sua natura è chiamata a formare i suoi membri. La condizione richiesta perché la formazione, decisa dal singolo prete e quella programmata dalla comunità, siano efficaci, consiste nel vivere realmente in comunione con tutte le componenti ecclesiali ( vescovi, preti, laici). Fuori dalla rete di comunione non si dà processo di maturità.

Il primo aiuto che una comunità diocesana può dare al presbitero consiste nel presentare se stessa impegnata seriamente non solo nella prassi pastorale, ma anche nella formazione. Una comunità ferma, statica, ripetitiva, rallenta e raffredda l’impegno formativo dei singoli e quello della comunità.

La consapevolezza e la libertà, dunque, non riguardano solo la vita del singolo, ma anche quello della comunità, della società umana, perché si tratta di una partecipazione alla consapevolezza ed alla libertà con cui Cristo ha salvato e salverà il mondo. E’ una questione di fede.

Allora, per uscire dall’illusione che il prete uscito dal seminario possa essere “un prodotto finito”, nel senso che ci si aspetta da lui subito e per sempre, maturità e piena efficienza, bisognerebbe rivedere il rapporto esistente tra i luoghi della formazione (il seminario in quanto struttura) ed i luoghi del ministero.

Oggi, la formazioni avviene usualmente lontana dal ministero. Mentre dovrebbe essere proprio questo il luogo primario e non tanto il seminario che, di fatto, risulta un luogo artificioso e teorico. Anche le esperienze pastorali, durante gli anni di seminario, pur essendo utili non risolvono molto. Il seminario che, comunque, rimane importante andrebbe pensato come un tempo, o come diversi tempi forti, nel normale cammino formativo che dovrebbe sostanzialmente avvenire nel luogo del ministero.

Studio teologico, vita spirituale e vita ministeriale devono equilibrarsi, mentre oggi sono squilibrati a favore dello studio. Inoltre, le tre dimensioni andrebbero intrecciate sempre in tutta la vita del sacerdote.

Infine, la decisione definitiva di scegliere il sacerdozio ministeriale (sia in una condizione di vita celibe oppure nel contesto della vita matrimoniale) andrebbe spostata ad un’età più avanzata e non legata quasi automaticamente alla conclusione degli studi teologici o dell’itinerario formativo.

La fine del seminario non dovrebbe significare automaticamente ordinazione sacerdotale; ma il punto fondamentale dovrebbe essere quello che anche la formazione iniziale dovrebbe avvenire nel vivo di una Chiesa in missione e non solo come preparazione ad essa.

Il seminario non dovrebbe essere visto solo come formazione, ed il ministero solo come prassi pastorale, perché, sia il seminario che il ministero dovrebbero essere, contemporaneamente, missione in atto e formazione[1].

 

Benedetto XVI – incontrando i seminaristi a Colonia – disse che “il seminario è tempo di preparazione alla missione”. Ed il card Ruini all’Assemblea generale straordinaria della Cei commentò : “Avvertiamo in questa duplice sottolineatura l’eco delle parole evangeliche : “ Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici che stessero con lui ed anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni” (Mc 3,13-15).

In una Chiesa che avverte sempre più acutamente la necessità e la priorità dell’evangelizzazione, anzitutto la figura del sacerdote deve assumere una più marcata caratterizzazione missionaria. Ciò richiede in lui una identità spirituale e ministeriale ben chiara e profondamente radicata in Cristo, lieta e convinta della propria appartenenza ecclesiale, e al contempo aperta e per così dire “estroversa”, capace cioè di capire le persone ed i contesti sociali e culturali in cui si è chiamati ad operare, di testimoniare con la vita e di proporre amabilmente e coraggiosamente la fede e la sequela di Cristo, in maniera diretta e personale ed in ogni opportuna circostanza.

Ne derivano conseguenze evidenti per la formazione dei seminaristi e per la stessa configurazione dei seminari: occorre aiutare i candidati al sacerdozio a fare sintesi della loro fede personale ed  ecclesiale, a livello non solo intellettuale ma anche vitale ed in rapporto alla società ed alla cultura; sostenere la crescita della responsabilità personale e delle doti e carismi di ciascuno, favorendo il formarsi e consolidarsi di soggetti forti e motivati; idonei a diventare per le comunità guide e punti di riferimento, ed evitando, invece, gli appiattimenti, come anche le fughe nell’intimismo o nell’estetismo; al contempo bisogna far superare ogni approccio individualistico ed aiutare i seminaristi a comprendere seriamente e ad integrare nella realtà della loro vita il grande principio che il “ministero ordinato ha una radicale forma comunitaria e può essere assolto solo come un’opera collettiva ( cfr Pastores dabo vobis).

In questa ottica sembra importante che nei seminari le regole da una parte non siano troppo minuziose e non pretendano di inquadrare ogni momento della giornata, dall’altra siano prese sul serio e rispettate concretamente. Di vitale importanza è finalmente che i candidati al sacerdozio imparino fin dagli anni del seminario a ritornare sempre di nuovo a Cristo, a rimanere nel suo amore ( cfr. Gv 15,9) e per così dire a riposarsi in esso: questa è infatti – come ha detto il papa a Colonia – la condizione perché quando saranno preti non si inaridiscano e non si smarriscano nelle fatiche e nei pericoli che la missione inevitabilmente comporta.

Ma per fare questo si richiede sapienza e coraggio da parte di chi nella Chiesa ha la potestà e la responsabilità del ministero per la comunità ecclesiale che dovrebbe essere a sua volta, come ho appena affermato sopra, coinvolta attivamente nel cammino di formazione dei sacerdoti, sia che scelgano la via del celibato per l’esercizio del loro ministero che quelli che invece scelgono la via del matrimonio.

Noi viviamo in un tempo di transizione, interessante, bello e doloroso. Il cristianesimo sta passando da una cristianità che dura da secoli ad un’altra di cui non sappiamo ancora nulla. Decisivo, quindi è il ruolo dei responsabili ed in primo piano dei sacerdoti. Una buona consapevolezza ed una scelta decisa, ripetutamente fatta, permetterà di vivere serenamente la solitudine e la fatica che comporta ogni cammino serio, l’essere minoranza e pionieri di un domani cristiano.

 

Chiariti i grandi orizzonti, riguardanti il presbitero che è sacramento vivente di Cristo seminatore, pescatore e pastore; l’autonomia e la maturità come capacità di scegliere e riscegliere il mistero di cui si è portatori nel e attraverso il ministero; lo scegliere ed il riscegliere la propria vocazione di uomini, di credente e di prete; l’accettazione di una Chiesa in situazioni di passaggio da una cristianità all’altra,  bisogna guardare avanti cercando di realizzare quello che storicamente e concretamente è possibile, anche se in misura minima.

In questo caso,  gli occhi (= i grandi orizzonti), guideranno i piedi (= scelte possibili, piccole e lente) ed i piedi daranno concretezza agli occhi.

Tra il non ancora ed il già, ci sarà un raccordo pieno di speranza poiché la storia è nelle mani di Cristo Risorto. L’esperienza c’insegna che la speranza sorge nel cuore della prova. Spesso prende corpo nello sconforto. Nel momento in cui tocchiamo il fondo del pozzo, ecco che tutto può ripartire di nuovo. E’ nel corso della notte, infatti, che possiamo vedere l’alba sorgere.

Ma la speranza non è una semplice attesa di un domani più felice. C’è speranza solida e vivace solo nell’impegno personale che ci incita a porre fin da ora i fondamenti per migliori condizioni di vita.

Infine la speranza non si vive mai da soli. E’ portata da un gruppo, da una comunità, da un popolo.  Questo impegno acquista maggiore dinamismo, se si consolida nella fede in un Dio-amore e non in un Dio-“curiale”, formalizzato dai canoni del Codice di Diritto Canonico, ma presente, come Padre amoroso, nel cuore del nostro mondo in divenire, come ci testimoniano la vita ed il messaggio di Gesù di Nazareth.

Giuseppe




[1] Cfr. Vita pastorale, n. 7- luglio2004, pp.24-31.



Lunedì, 05 dicembre 2005