Riflessione
Cari sacerdoti sposati / 3

Incontrare l’altro


di Mario Pancera

Il linguaggio di chi contesta. Che cosa si può imparare dall’altro, anche quando si dissente


C’è chi dialoga e chi no, è difficile incontrare l’altro. In un libro intitolato «I nuovi preti», edito da Sperling e Kupfer nel 1977, quindi per i sacerdoti dissenzienti in tempi non meno difficili di quelli di oggi, ho dedicato un capitolo a don Ambrogio Valsecchi, teologo moralista, sacerdote dal 1953, dispensato dai voti nel 1974, sposatosi con rito religioso nel 1975. Per molti, questi dissenzienti erano «nuovi» cioè portatori di novità nel loro ministero e, più apertamente, nel mondo cattolico. Il loro agire e il loro parlare erano scomodi, discutibili, ma alti.

Li cito per fugare qualsiasi eventuale ombra in chi legge queste righe senza pregiudizi. Valsecchi, lombardo, di famiglia operaia, ha insegnato in seminario, alla Facoltà teologica di Venegono, è stato consulente del cardinale Giovanni Colombo al Concilio, redattore per la Cei di documenti sulla catechesi e sulla regolazione delle nascite, direttore del Dizionario enciclopedico di teologia morale, rettore del famoso collegio Borromeo di Pavia, poi prete operaio a Torino. Da laico, è stato psicologo analista e consulente e terapista di coppia in un centro specializzato. Era una voce autorevole.

È stato uno dei principali studiosi di morale sessuale: divorzio, aborto, rapporti prematrimoniali, eros, contraccezione, omosessualità... Contrastatissimo da una parte della gerarchia cattolica. Non ho mai letto di suo, né ho sentito da lui, espressioni offensive o arroganti o irritanti, sia prima sia dopo il matrimonio: i suoi concetti erano forti, senza possibilità di cedimenti o di dubbi, ma il suo linguaggio era all’altezza del suo pensiero e, se mi è consentito parlarne da laico, della sua dignità di uomo di fede. Per motivi di lavoro e di vita ho pure conosciuto Balducci, Mazzolari, Mazzi (Isolotto), Turoldo, Girardi e altri sacerdoti, ritenuti sbrigativamente «contestatori», rimasti nella Chiesa o usciti dalla Chiesa, dei quali non si può dire niente di diverso da ciò che ho detto di Valsecchi.

Questi sapevano parlare, esprimersi, ascoltare l’altro, senza ironia né livore. Discutevano, non respingevano. Il linguaggio è importante, non è solo forma, è sostanza perché serve a spiegare il pensiero e a evidenziare e distinguere gli individui che lo esprimono. Ci fa conoscere l’altro e ci fa conoscere agli altri. La parola è un fondamento del nostro vivere come individui e come componenti di una società. Se si nega la parola a un essere umano o a un popolo, lo si riduce in schiavitù. Il linguaggio automatizzato e meccanico è tipico delle dittature, delle varie propagande militari, politiche e mercantili. È molto arduo, dunque, sostenere che il modo di manifestarsi di una o più persone, specie se hanno compiuto lunghi studi, in seminario o fuori, è questione di pura forma.

Ho segnalato qui il tema «linguaggio» con un paio di note nelle settimane scorse, riferendomi agli interventi di vari religiosi. È tempo di concludere. Era un invito al dialogo, all’ incontro con l’ altro, a capire qualche perché della nostra società. Mi pareva ragionevole. Gli intervenuti non sono stati molti, e questo è già indicativo (non interessa, lo si teme, si preferisce stare alla finestra): una lettrice molto civile che ha espresso le sue opinioni commentando le mie, e due lettori che, alla fin fine, mi hanno consigliato di occuparmi d’altro. Uno ha sostenuto che l’argomento non interessa granché. Forse questi due lettori si sbagliano. Dalle loro risposte (che si possono leggere su questo stesso sito) e da come sono state formulate, dallo stile, dalle citazioni, chi vuole ha molto da imparare.


Mario Pancera



Venerdì, 29 giugno 2007