Dalle molte testimonianze che ascolto, giorno dopo giorno, emerge questo tratto. Il prete/religioso in balia dei propri sensi di colpa, che interpreta la "doverosa rinuncia" come una sorta di strumento di fedeltà, che porterà a chissà quale premio futuro.
Quindi, dapprima si lascia andare, cerca, trova, promette, poi, tra varie altalene di ripensamenti, spesso giunge alla conclusione che è meglio "non vedersi più".
Il superiore lo chiede, il diritto canonico lo prevede, e il sacro ministro risponde. E intanto la donna che fine fa?
Di solito... aspetta. Aspetta che lui ci ripensi nuovamente, o di riuscire a dimenticare. Ma, pur nell'attesa, continua a farsi mille domande, per le quali però non esiste una risposta logica, né dal punto di vista teologico, né tanto meno sentimentale o umano.
Si domanda: "chi è lui veramente"? Non lo riconosce più. E non si riconosce più. E' stata parte di una coppia, pur se per breve tempo, ma il suo cuore non riesce a spiegarsi come tutto possa sembrare finito, svanito nel nulla. Che fine ha fatto l'amore che è stato dichiarato, dove sono gli abbracci, i baci che ci si scambiavano fino a poco tempo prima? Può lui rinunciare a questo? E perché?
Perché prevale tutto ciò che amore non è. Prevale la legge, prevale la vergogna di aver disubbidito, prevale la paura di perdere la faccia, il ruolo e anche lo stipendio, perché no...
Ma se l'amore non fa parte della vita di un uomo che ha scelto le ragioni dell'amore (almeno in teoria), di che vita stiamo parlando?
Dio vuole la felicità degli uomini, quindi anche dei preti, come delle donne che si imbattono in loro, allora perché tanta infelicità, procurata e subita?
Aiutiamoci a capire.