di ornella » 16 apr 2009, 7:30
Cara Stefania,
per parlare di ricatto bisogna risalire al "senso di colpa" che genera "paura". Il nocciolo della questione sta tutto lì. Ora, qualsiasi religione si dà delle regole, anche minuziose, come qualsiasi società umana, e fa leva sul giusto/sbagliato secondo una visione temporalistica della fede, sovente ignorando gli uomini e le donne che questa fede praticano. Ho parlato di "paura" e non di "rimorso" perché sono due concetti ben diversi. Il rimorso va insieme al senso del peccato, la paura alla consapevolezza del "giudizio", non quello di Dio, ma quello dei confratelli e delle consorelle, inclusi i preti e incluso per i preti. Bisogna stare attenti nel maneggiare questi temi delicati, perché la paura ha molto a che fare col sacro incarnato dalla struttura religiosa, mentre il senso del peccato (della propria mancanza che ha bisogno di perdono) ha a che vedere con la crescita della propria coscienza. Riguardo ai ricatti, quando ne ho parlato io intendevo quelli molto concreti che so esistere da persone terze, anche al di fuori dal problema delle relazioni clandestine, che mi dicono che molti "sono presi per fame" (sic). Questo va oltre la questione che stiamo trattando, comprende una miriade di situazioni diverse che causano pressioni indebite e violente nei confronti di chi, per molti motivi, non si riconosce più all'interno di una struttura, incluse le monache. Il salto qualitativo tra la pratica e la grammatica, ovvero tra quello che uno/a si trova a vivere e l'ideale che gli/le viene proposto all'inizio o che cerca di seguire è tale da essere suscettibile di generare situazioni come questa. Per quanto riguarda noi donne, siamo ricattabili nella misura in cui ci isoliamo, vivendo da sole il conflitto interiore che ci troviamo davanti. L'isolamento non è altro che la conseguenza della "paura del giudizio", prima che del senso del peccato. Ammesso che si possa parlare di peccato per un innamoramento che fa soffrire come bestie e io non lo credo. Però desidero essere molto chiara: non penso che liquidare il nostro senso del peccato ci aiuti a crescere, anche perché il nostro disagio di coscienza permarrebbe e peserebbe come piombo sulla nostra vita spirituale. Credo invece che si debba fare ogni sforzo per eliminare la paura del sacro, quella davvero sì. "Sacro" e "giudizio" vanno purtroppo insieme, e generano mostri, sia in carne ed ossa, ovvero i giudizi degli altri/e tagliati con l'accetta, sia dentro noi stessi/e, facendoci sentire disprezzabili prima ancora che ricattabili.
Uscire dalla pania passa dalla maturazione interiore, che ci consente di guardarci dentro come siamo e non come vorremmo tanto essere, del resto lo dice san Paolo quando si chiede "perché faccio il male, che non voglio, e non il bene, che voglio?".
Ma uscire dalla pania implica anche un minimo di fiducia nella condivisione di vita con altri/e, e soprattutto non confondere la fallibile, peccatrice, umanissima struttura umana, con la ecclesìa che tutti/e siamo chiamati/e, con carismi diversi, a costruire: il Regno. Ora, almeno per come la vedi io, il Regno si costruisce partendo da un po' di serenità personale e da un minimo di sororità/fraternità collettiva, qui e adesso, e da una confidenza maggiore con le parole e la prassi trasmesseci nei vangeli. Una ricerca al positivo, quindi, e non appoggiandoci sempre sui divieti ufficiali. Non perché non ne dobbiamo tenere conto, ma perché i soli divieti servono, e neanche tanto, per i bambini piccoli, i figli della "madre ansiosa" chiesa-gerarchia che mostra di avere paura anche dell'acqua fredda... . Talvolta indubbiamente in buona fede. Inerzia? Tentativo di far permanere un potere coercitivo? Ignoranza della quotidianità della gente? Mille sono le risposte possibili, ma le risposte non mi interessano più di tanto. Quello che mi importa dire è che non concepisco nessuno/a che non possa venire perdonato in una comunità, per quanto gravi siano i peccati commessi. Perché la "scomunica", ovvero l'imposizione giudiziaria a uscire dalla comunione dei credenti, significherebbe una sorta di inappellabilità di giudizio che nessun cristiano sano di mente può imporre, a meno di non sostituirsi a Dio e non diventare quindi blasfemo. E riguardo a Dio, e al nostro divenire, io credo che più rimarremo dentro il nostro carcere di paure, più sarà facile che questa prigione ci perseguiti, rendendoci asfittici, timorosi, ripiegati su noi stessi. Non credo che un Dio buono, che ha accolto il prodigo dopo avergli data la sua parte di eredità senza condizioni, non stia aspettandoci a braccia aperte. Tutti. Anche i papi che sbagliano. Anche i peggio figuri. Una fede "libera" non ci rende tutti innocenti e santi, ma ci aiuta a non drammatizzare le nostre mancanze, e a vedere le pagliuzze come tali e le travi come tali. Una fede infantile fatta di divieti, genera, solitamente, non solo la paura del giudizio ma il giudizio nostro e altrui, intendedo come "giudizio" una chiusura senza possibilità di appello. Dimenticando che "con la stessa misura con la quale giudicate sarete giudicati"... . Ora, permanendo all'interno delle nostre fantasie e frustrazioni, finiremo col giudicare gli altri, magari su altri punti di dottrina o di morale che paiono non coinvolgerci direttamente. Questo lo ho riscontrato abbastanza spesso, purtroppo.
Un bacio
Ornella