Salve a tutti, alcune tra voi mi conoscono già, benchè sia una presenza relativamente “nuova” all’interno di questo microcosmo in espansione rappresentato da donne e uomini che vivono l’esperienza dell’amore negato,e voglio ringraziare Stefania per avermi dato la possibilità di partecipare a questo tipo di confronto, e quanti altri si sono adoperati per far venire alla luce questo sito. Ho letto qua e là i vari interventi dei partecipanti, e mi fa piacere constatare che ci siano persone sensibili alla problematica, benchè non direttamente coinvolte in un’esperienza del genere. Vorrei ringraziare a questo proposito anche Donfy, non capita spesso di sentire il parere di chi sta “dall’altra parte della barricata” senza che questo sia accompagnato da giudizi più o meno gratuiti , consigli elargiti altrettanto facilmente,e, naturalmente, ammonimenti riguardo la necessità,più o meno irreprensibile, di mantenere il silenzio. Il silenzio è certamente l’arma più potente nelle mani di uno stratega, peccato che questo potere spesso e volentieri venga usato da noi donne contro noi stesse. Al di là delle contraddizioni della Chiesa cattolica estremamente istituzionalizzata e legata a doppio filo con il potere,al di là dell’assurdità di molti precetti e prescrizioni del diritto canonico,lontane anni luce dallo spirito evangelico,penso che l’ostacolo più grande da affrontare non sia la mal disposizione del clero verso argomenti considerati spinosi e scomodi,ma proprio la volontà manifesta da parte di molte persone di non affrontare il problema da un punto di vista che non sia velato dalla clandestinità e offuscato dalla paura. C’è un universo di parole non dette, gesti mancati, lacrime soffocate dietro un’apparente tranquillità per paura, per “amore” di chi non può ricambiare alla luce del sole i nostri sentimenti, che nasce nello stesso istante in cui capiamo di esserci innamorate di un prete, e che purtroppo, molto spesso, muore nello stesso silenzio di cui si è nutrito. Quante tra noi hanno represso e costretto all’implosione questo universo, per il timore di perdere la persona amata, di ferirlo, o più semplicemente, di non essere capite? Ma non è forse l’amore con-divisione? Non significa forse partecipare all’altro e dell’altro pienamente,ciascuno con le proprie luci e le proprie ombre?
Personalmente, dopo aver oltrepassato il limite della dipendenza affettiva, non raro in dinamiche relazionali così complicate,credo che una relazione profonda e matura implichi il rispetto e la reciprocità,nonché la necessità che ciascuno mantenga spazi ben definiti dentro di sé. Purtroppo nella maggior parte dei casi questo risulta difficile da realizzare,soprattutto per noi donne,proprio perché si tende a identificare questa necessità di mantenere ben distinta la propria individualità con l’abbandono, nel senso più negativo del termine,del partner a se stesso. E finiamo per annullarci e negare la nostra condizione di donne,quindi la nostra dignità, per una semplice svista. Perchè non abbiamo la lucidità e la lungimiranza adatta per comprendere che questo “lasciare all’altro ciò che è suo” è l’inizio della sua salvezza, e della nostra. Credo sia fondamentale che il prete che si innamora trovi la forza di affrontare il cammino difficile del discernimento,e che lo faccia senza forzature,in solitudine; il sostegno da parte della donna è un ottimo coadiuvante, ma deve essere gestito con estrema delicatezza,senza interferenze. E’ il primo passo verso una maturazione più profonda,che porta allo sganciarsi da quella mentalità stagna e perciò debole che viene costruita negli anni del seminario, e di una vera crescita spirituale. Mi rendo conto, tuttavia, di quanto questo proposito sia lontano dalla realtà,dove nella migliore delle ipotesi il prete vive una doppia vita,nascondendo il proprio legame con una donna e costringendola a fare altrettanto,vivendo perennemente con la paura di essere scoperti,e il senso di colpa più o meno latente. E chi paga lo scotto maggiore,come al solito,non è chi indossa i paramenti. Non sto negando il dolore immenso che tocca la vita di chi sta dall’altra parte,per carità; non è una gara a chi soffre di più. Ma la donna è senza alibi, è comunque “la tentatrice”,o comunque, colei che non è riuscita a stare al proprio posto, e ha macchiato la veste immacolata di un uomo santo. E non ha voce in capitolo,perché lei, per prima, la soffoca. E’ per questo che credo sia necessario cominciare a parlare,a raccontarsi,a condividere esperienze e sofferenze,e fare in modo che anche i preti con i quali si intreccia una relazione trovino il coraggio di fare altrettanto. Credo che altrimenti non abbia molto senso stare qui a discuterne. Va bene il confronto, è senza dubbio uno strumento efficace e di grande conforto,ma si rischia di fare la fine del gatto che si morde la coda,e di far riecheggiare tante belle parole in uno spazio chiuso,proprio quando è forte la necessità di farle uscire,e diffondersi il più possibile. E non possiamo far accettare agli altri l’esigenza di affrontare la problematica del celibato se noi,per prime, non prendiamo atto della necessità di coinvolgere tutti coloro che ci stanno dentro. Sia che si porti la veste,sia che invece si indossi il rossetto. Voi cosa ne pensate?
Un abbraccio
ange