INTRODUZIONE - Tornare alle origini, all’essenziale P. Camilo Maccise mi ha chiesto di parlare sul “ritorno alle origini”. Mi ha detto “parliamo, partendo dalla Bibbia, del ritorno all’essenziale della Buona Novella che Gesù ci ha dato”. Ringrazio dell’invito, in quanto mi ha aiutato ad approfondire questo tema, cosí importante per noi Carmelitani. L’essenziale, il ritorno alle origini, è il destino di tutto, è Dio, Dio che si è rivelato a noi in Gesù Cristo. Sant’Agostino dice: “Ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”. Ma tornare a Dio non è possibile se prima Dio stesso non giunge a noi per attrarci. Per questo, mediante la meditazione che facciamo oggi, cercheremo di rispondere a due domande: 1) Come giunge a noi Dio per attirarci a sè? 2) Qual’è la via attraverso la quale Egli ci attrae, affinché possiamo arrivare a Lui? Queste due vie, quella di Dio verso di noi e di noi verso Dio, passano entrambe dalla persona di Gesù Cristo. In Lui sono le nostre origini, verso di Lui siamo sempre incamminati, soprattutto in epoche d’instabilità come la nostra. I - COME GIUNGE A NOI DIO PER ATTIRARCI “Confidano in te quanti conoscono il tuo nome!” (sal 9,10) Dio ha lasciato l’impronta della sua presenza nel cuore, nella storia, nella natura, in tutto quanto esiste (Rm 1,20 sal 19, 1-4). L’essere umano lo cerca in diversi modi. Le grandi religioni sono un’espressione di questa ricerca. Ogni religione, e quindi anche la nostra, ha i suoi riti e miti, i suoi scritti e costumi, che aprono la via d’accesso al mistero di Dio, permettendoci cosí di tornare alle origini. Il profeta Isaia esprime questa ricerca dicendo: “Al tuo Nome e al tuo ricordo si volge tutto il nostro desiderio” (Is 26,8). Per Isaia il desiderio dell’anima in ricerca di Dio si concentra sulla ricerca del Nome e su quella del Ricordo di tutto ciò che Dio ha fatto in passato. Per Lui tornare alle origini è riscoprire il significato profondo del Nome di Dio e della sua presenza operante in mezzo a noi, dal momento che è nel suo Nome che Dio si rivela e arriva fino a noi. Il nome delle persone nella convivenza quotidiana Una persona, quando si ascolta per la prima volta, è appena un uomo. Ma nella misura in cui si convive con la persona, il nome si converte nella sintesi e ricordo della persona stessa. Nei nostri incontri internazionali tutti portiamo il nostro nome in un’etichetta; si arriva e si comincia a conoscere le persone attraverso il nome che si porta. Quando s’incontra un nome conosciuto, allora non si guarda più l’etichetta, ma si alza la testa e si guarda il volto. E il nome, che prima era solamente un nome, si converte nella finestra del volto, la rivelazione di una persona. Generalmente la persona è diversa dall’idea che mi ero fatta di lei, prima di conoscerla. Quanto maggiore sarà la mia convivenza con la persona, maggiore sarà, per me, il significato e la densità del nome. Il nome evoca tutto ciò che la persona significa per me, tutto quanto ha fatto per me. Cosí nella Bibbia la vita con Dio nel corso dei secoli ha dato significato e densità al nome di Dio. Il nome di Dio nella Bibbia Nella Bibbia Dio riceve molti nomi e titoli che esprimono cosa significa o cosa può significare per noi. Ma il nome proprio di Dio è YHWH. Questo nome appare già nella seconda parte della narrazione della creazione, nel libro della Genesi (Gn 2,4). Ma il suo significato più profondo (risultato di una lunga convivenza con Dio, che ha attraversato i secoli, passando per la “notte oscura” dell’esilio babilonese) è descritto nel libro dell’Esodo, al momento della vocazione di Mosè (Es 3,7-15). Dio disse a Mosè: “Vai a liberare il mio popolo!” (Es 3,10). Mosè ha paura e si giustifica fingendo umiltà: “Chi sono io” (Gn 3,11). Dio risponde: “Vai! Io Sono con te” (Es 3,12). Anche sapendo che Dio è con lui nella missione di liberare il popolo dall’oppressione del faraone, Mosè ha paura, e si giusfica nuovamente chiedendo a Dio il suo nome, domanda alla quale Dio risponde dicendo semplicemente “Io Sono quello che sono”, ossia non puoi dubitare del fatto che sono con te, sempre. E tuttavia aggiunge: “Dirai loro YHWH (Colui che è) mi manda a voi”. E termina concludendo: “Questo è il mio nome per sempre, e con questo nome sarò sempre ricordato (= invocato) di generazione in generazione” (Es 3,14-15). Questo testo succinto, di grande densità, esprime la più profonda convinzione del popolo di Dio: Dio è con noi! Egli è l’Imma-nu El, l’Emmanuele. Una presenza intima, amica, liberatoria. Tutto si riassume nelle quattro lettere del nome YHWH, che noi impropriamente pronunciamo Javhè. Questo nome significa “Egli è in mezzo a noi!” La Bibbia permette di dubitare di tutto, eccetto di una cosa: del Nome di Dio, ossia, della certezza assoluta della presenza di Dio in mezzo a noi, espressa dal nome proprio YHWH, Egli è in mezzo a noi! L’altro nome che troviamo spesso nella Bibbia, Elohim, rappresenta la divnità. Nome comune, usato per indicare la qualità divina, applicata da altri popolo ai loro dei. YHWH no, questo è il nome proprio del Dio di Israele, proprio come noi possiamo dire di avere in comune l’umanità tra di noi, ma ognuno di noi ha un suo nome proprio. In un’altra narrazione popolare molto profonda, la Bibbia racconta che ad un certo punto nel deserto, dopo l’uscita dall’Egitto, Mosè s’incollerì con il popolo che reclamava chiedendo acqua. Egli allora prese a lamentarsi con Dio, il quale gli rispose di colpire la roccia con il suo bastone. Mosè esegue, ma dice “Potremo noi far uscire acqua da questa roccia?” (Nm 20,10) Avrebbe dovuto dire con sicurezza: “Esca l’acqua da questa roccia!” L’incredulità del popolo ha contagiato anche Mosè, il quale dubitò del Nome di Dio. Lo troviamo subito dopo: “Il Signore sta in mezzo a noi oppure no?” (Es 17,7). Questa domanda terribile equivale a dire “Dio è Dio oppure no?” Anche il salmo conferma “Mosè parlò temerariamente” (sal 106,33), ed è ciò che ripetiamo ogni mattina nel salmo invitatorio “Lo misero alla prova alle acque di Meriba” (sal 95, 8-9). Per questa stessa crisi è passato anche il profeta Elia al monte Horeb, prima di incontrare di nuovo la presenza di Dio nell’oscurità della brezza leggera (voce di mormorio silenzioso - qol demamah daqqa - 1Re 19, 11-13). La Bibbia è come un album di fotografie che il popolo ha scattato a Dio nel corso dei secoli. In fondo, non è nient’altro che la storia di questo Nome, condiviso e ricordato, raccontato e cantato dal popolo in svariate circostanze e crisi della sua storia. Il Nome di Yhwh appare più di 7000 volte solamente nell’AT! E’ lo stoppino attorno al quale si è attaccata la cera dei racconti storici. Il nome YHWH è la finestra aperta attraverso la quale Dio giunge fino a noi, ci rivela il suo volto e ci attrae, e attraverso la quale noi abbiamo accesso a Lui. “Al tuo nome e al tuo ricordo si volge tutto il nostro desiderio” dice Isaia (26,8). “Il nostro aiuto è nel nome del Signore (YHWH)” (sal 124,8). “In te confidano coloro che conoscono il tuo Nome” (sal 9,11). Il nome è il luogo dell’incontro con Dio, sempre disponibile nei confronti di coloro che lo invocano. Il nome silenzioso nasconde il volto di Dio Il tragico avvenne, e continua ad avvenire, quando nei secoli dopo la cattività babilonese il fondamentalismo, il moralismo e il ritualismo fecero sì che, poco a poco, quello che era un volto vivo ed amico, presente e amato, divenisse un ritratto rigido e severo, appiccicato indebitamente alle pareti della Sacra Scrittura. Questo poco a poco creò la paura e la distanza tra Dio e il suo popolo. Così negli ultimi secoli prima di Cristo il nome Yahvè non poteva essere pronunciato. Al suo posto, i fedeli dovevano leggere e pronunciare Adonay, che significa “Signore”, tradotto dalla LXX con Kyrios. La religione strutturata attorno all’osservanza delle leggi, il culto incentrato attorno al Tempio di Gerusalemme e la chiusura intorno alla razza hanno creato una nuova prigionia che soffocava l’esperienza mistica e impediva il ritorno alle origini, il contatto con il Dio vivo. Il Nome che doveva essere come un cristallo trasparente per rivelare la Buona Novella del volto amico e attraente di Dio, si convertiva in una specie di specchio, che poteva mostrare solamente il volto di colui che vi si contemplava. Tragico inganno dell’autocontemplazione! Essi continuarono a guardare l’etichetta con il nome, senza alzare lo sguardo sul volto. Non bevevano più direttamente alla fonte, bensì bevevano acqua imbottigliata, preparata dai dottori della legge, come spesso capita tuttora anche noi, beviamo molta acqua imbottigliata, senza nemmeno sentire il desiderio di andare direttamente alla fonte. La nuova manifestazione del Nome in Gesù Citando un cantico della comunità, san Paolo scrive ai Filippesi: “Gesù ha ricevuto un Nome che è al di sopra di ogni altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi, in cielo, sulla terra e sottoterra, e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore” (Fil 2, 9-11). Il giorno di Pentecoste, Pietro terminò il suo primo annuncio rivelando la grande scoperta di ciò che l’esperienza della risurrezione significava per lui: “Che tutto il popolo lo sappia: Dio ha costituito Gesù Cristo il Signore!” Gesù, morto e risorto, è la rivelazione che Dio, lo stesso Dio di sempre, è e continua ad essere YHWH (Adonay, Kyrios, Signore), presenza intima, amica e apportatrice di libertà in mezzo al suo popolo, capace di vincere persino la barriera della propria morte. Con la sua morte e risurrezione Gesù ha rotto le catene (Col 2,14), ha rotto lo specchio dell’autocontemplazione idolatra, ed ha aperto di nuovo la finestra attraverso la quale Dio mostra il suo volto e ci attrae a sé. A partire da Gesù e in Gesù, il Dio dei padri, che pareva tanto distante e severo, acquisì i tratti di un Padre pieno di bontà e tenerezza. Abba! Padre nostro! Per noi cristiani la cosa più importante non è confessare che Gesù è Dio, bensì testimoniare che Dio è Gesù. Vi faccio un esempio: mi sono recato in una comunità di base in Brasile, e ho appeso una fotografia al muro. Tutti guardavano: un uomo serio, con i baffi, con il dito puntato verso chi guardava la foto, con un’espressione che non attirava certamente la simpatia. E in effetti quando ho cominciato a chiedere di descrivere quella persona ai presenti, essi hanno cominciato a dire cose del tipo: “Che antipatico dev’essere! Come dev’essere difficile vivere con lui! Poveretta sua moglie!”. Poi è entrato un bimbo, ha guardato la foto e ha esclamato: “E’ mio padre! Guardate, è avvocato, ed ho fatto questa foto quando era ad un processo. Stava difendendo dei poveri, che alcuni riccastri volevano derubare, espropriando la loro magra proprietà per i loro interessi, per arricchire ancora di più a spese loro. Stava puntando il dito su di loro, ed ha vinto la causa!” Mi sono allora rivolto di nuovo alla gente, e stavolta tutti dicevano: “Che simpatico! Che uomo in gamba!” e altre espressioni simili. Vedete: non era cambiato niente, ed era cambiato tutto. La foto era la stessa, ma era cambiato lo sguardo con cui essi lo guardavano. Cosi per noi: abbiamo una concezione così errata del Dio dell’Antico Testamento che pensiamo sia un Dio diverso da quello di Gesù Cristo. Ed Egli è venuto dicendoci: è mio Padre! Gesù non ha tolto assolutamente niente di ciò che era scritto di Dio nell’Antico Testamento, ci ha semplicemente dato la chiave di lettura! Grazie a quello che ci ha detto Gesù del Padre capiamo il senso della legge, della severità, della sua difesa di un popolo povero e misero, che da solo non può certamente difendersi né procurarsi la salvezza. Gesù è il nuovo Nome di Dio. Egli è la Via attraverso la quale Dio giunge a noi, e attraverso il quale noi possiamo arrivare a Lui. Egli è il centro della Buona Novella che ci ha portato, Egli è l’essenziale del Vangelo, verso il quale dobbiamo sempre tornare. Egli è la nostra origine e la nostra destinazione. Questa nuova rivelazione del Nome di Dio in Gesù è un’iniziativa di totale gratuità dell’amore di Dio, della sua fedeltà al proprio Nome. Dio può giungere a noi solo grazie all’obbedienza radicale e totale di Gesù: “obbediente fino alla morte e alla morte di Croce”. Gesù è giunto ad identificarsi totalmente con la volontà di Dio. Egli stesso dice: “Faccio sempre ciò che il Padre mi comanda di fare” (Gv 12,50). “Mio cibo è fare la volontà del Padre” (Gv 4,34). Per questo Egli è totale trasparenza, rivelazione del Padre: “Chi vede me vede il Padre!” (Gv 14,9). In Lui è giunta ad abitare la pienezza della divinità (Col 1,19). “Io e il Padre siamo una cosa sola”: questa obbedienza non fu facile. Gesù ebbe momenti difficili, nei quali giunse a gridare: “Allontana da me questo calice!” (Mc 14,36). Lo dice anche la lettera agli Ebrei: “con forti grida e lacrime pregò Colui che poteva salvarlo dalla morte” (Ebr 4,7). Dovette imparare cosa significhi l’obbedienza, imparò l’obbedienza dalle cose che patì (Ebr 4,8). Vinse però, per mezzo della preghiera. Per questo Egli diventa per noi rivelazione e manifestazione del Nome, di tutto ciò che quel Nome significa per noi. L’obbedienza di Gesù non è disciplinare, bensì profetica. E’ azione che rivela il Padre. Per mezzo di essa vennero distrutte le barriere, si ruppe in due il velo che nascondeva il volto di Dio. Per noi si aprì una nuova via verso Dio. II – IL CAMMINO VERSO DIO, APERTO PER NOI DA GESU’ Umanizzare la vita, servire i fratelli, accogliere gli esclusi La convivenza di tre anni con Gesù e l’esperienza della sua risurrezione, furono qualcosa di così forte e sorprendente, fuori dagli schemi tradizionali, che i primi discepoli non avevano parole per esprimerlo. L’esperienza di Dio non sta nelle nostre parole. San Giovanni della Croce scrive un verso della sua poesia: un no se que que queda balbuciendo. Verso stupendo e lapidario, nel quale ci fa dire, mentre lo pronunciamo, tutta la nostra balbuzie, la nostra incapacità di raccontare la nostra esperienza di Dio, di parlare di Lui. E quando le parole non bastano allora, dal momento che tale esperienza ci scoppia dentro e non può non essere narrata, ricorriamo al canto, ai simboli, alle immagini, alla poesia, per esprimere la bellezza e la profondità di quanto stiamo vivendo. In questo modo cominciò la Cristologia, il nostro parlare di Cristo: con immagini, simboli, cantici, poesia. Testi che troviamo ancora oggi profondi, nei quali i primi cristiani tentavano di esprimere quanto stavano vivendo, la loro esperienza del Dio che Cristo aveva fatto riscoprire. E la maggior parte delle immagini furono prese proprio dall’Antico Testamento. Come diceva sant’Agostino: il nuovo è contenuto nel vecchio e il vecchio sottostà al nuovo. Furono soprattutto tre le immagini o i nomi che lì trovavano, atti ad esprimere la novità antica del Dio che stavano sperimentando. Gesù stesso usò queste tre espressioni in una sola frase, quando disse: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mc 10,45). Abbiamo dunque : Figlio dell’uomo, Servo di Dio, Redentore (riscattatore – Go’el). Sono le tre fotografie più antiche che hanno conservato i primi cristiani, per dirci ciò che Gesù significava e qual’è la via che Gesù ci ha aperta affinché noi potessimo arrivare a Dio. Come una grande bottiglia d’acqua non può essere contenuta in un solo bicchiere, così anche noi abbiamo bisogno spesso di molte parole per esprimere tutta la ricchezza din un solo termine nel suo originale biblico. Vediamo comunque qualcosa di questi tre titoli di Gesù. 1. Figlio dell’Uomo E’ il nome che piaceva di più a Gesù. Questo nome appare con grande frequenza nei Vangeli, 15 volte solo nel Vangelo di Marco (Mc 2, 10.28 8, 31.38 9, 9.12.31 10, 33.45 13,26 14, 21.21.41.62). Il titolo “Figlio dell’Uomo” viene dall’Antico Testamento. Nel libro di Ezechiele indica la condizione umana del profeta (Ez 3, 1.4.10 ecc.). Nel libro di Daniele lo stesso titolo appare in una visione apocalittica (Dn 7, 1-28), nella quale Daniele descrive quattro Regni, quello dei Babilonesi, dei Medi, dei Persiani e dei Greci dei successori di Alessandro Magno. Nella visione del profeta, questi quattro Regni hanno l’apparenza di “animali mostruosi” (Dn 7, 3-8). Infatti si tratta di regni animaleschi, brutali, disumani, che perseguitano, disumanizzano e ammazzano (Dn 7, 21.25). Nella visione del profeta, dopo i Regni disumani, appare il Regno di Dio, il quale invece nella visione non ha l’apparenza di animale bensì di una figura umana, il Figlio dell’Uomo. Ossia è un regno con apparenza di gente, volti umani, regno umano che promuove la vita e umanizza (Dn 7, 13-14). Nella profezia di Daniele, la figura del Figlio dell’Uomo non rappresenta un individuo singolo ma, come dice egli stesso, il popolo dei santi dell’Altissimo (Dn 7,27; cf. 7,18). E’ il popolo di Dio, che non si lascia disumanizzare, né ingannare o manipolare dall’ideologia dominante dei regni animaleschi. La missione del Figlio dell’Uomo, ossia del popolo di Dio, consiste nel realizzare il Regno di Dio come regno umano. Regno che non perseguita la vita, ma che la promuove! Umanizza le persone. Presentandosi ai discepoli come Figlio dell’Uomo, Gesù assume come sua questa missione che è la missione di tutto il popolo di Dio. E’ come se dicesse ad essi e a tutti noi: “Venite con me! Questa missione non è solo mia, ma di tutti noi! Andiamo insieme a realizzare la missione che Dio ci ha affidato, a realizzare il Regno umano e umanizzante che Egli sogna!” E questo fu ciò che Gesù fece e visse durante tutta la sua vita, soprattutto negli ultimi tre anni. Diceva papa Leone Magno: “Gesù fu tanto umano, ma tanto umano... come solamente Dio può essere umano!” Tanto più umano, quanto più divino. Quanto più “Figlio dell’Uomo” quanto più “Figlio di Dio”. Tutto ciò che disumanizza le persone allontana da Dio, anche nella vita religiosa, anche nella vita carmelitana. Fu ciò che Gesù condannò, collocando la persona umana come priorità nei confronti delle leggi, prima del sabato (Mc 2,27). Nell’ora in cui venne condannato dal tribunale religioso del Sinedrio, Gesù si attribuì questo titolo. Quando gli venne chiesto se era “Figlio di Dio” (Mc 14,61), egli risponde “Sì Io Sono, e vedrete il Figlio dell’Uomo seduto alla destra del trono dell’Altissimo” (Mc 14,62). Proprio per questa affermazione fu messo a morte dalle autorità. Lui stesso lo aveva annunciato: “Il Figlio dell’Uomo non è venuto per essere servito ma per servire, e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mc 10,45). 2. Servo di Yahvè Per Gesù il Figlio dell’Uomo è colui che realizza la missione del Servo di YHWH. Nelle tre volte in cui predice la sua passione e morte, Gesù si orienta sulla profezia del Servo di Dio, così come viene descritto nel libro di Isaia, e la applica al Figlio dell’Uomo (Mc 8,31 9,31 10,33). In quel tempo fra i Giudei c’era una grande varietà di aspettative messianiche: secondo le diverse interpretazioni delle profezie, alcuni aspettavano un Messia Re (Mc 15, 9.32); altri un Messia Santo o Sommo Sacerdote (Mc 1,24); altri un Messia guerriero sovversivo (Lc 23,5 Mc 15,6); altri un Messia Dottore sapiente nella Legge (Gv 4,25 Mc 1, 22.27); altri ancora un Messia Giudice (Lc 3, 5-9 Mc 1,8); altri un Messia Profeta (Mc 6,4 14,65). Ciascuno secondo il proprio interesse o classe sociale, guardava con speranza verso il Messia, costringendolo dentro le proprie aspettative e desideri. Pare che nessuno, se non una certa categoria di persone di cui non rimane traccia, in quanto i poveri non scrivono libri, aspettavano un Messia Servo, come annunciato dal profeta Isaia (Is 42,1 49,3 52,13). Si tratta degli anawim, i poveri di Yhwh che, unici, capivano la rivalutazione della speranza messianica come servizio ecumenico del popolo di Dio all’umanità. Maria, povera di Yhwh, ci lascia traccia di questa speranza, quando disse all’angelo: “Eccomi! Sono la serva del Signore”. Da lei Gesù apprese il suo cammino di servizio. L’origine dei quattro cantici del Servo di Dio (Is 42 49 50 e 52) risale ad un gruppo di discepoli e discepole di Isaia che vivevano in esilio a Babilonia, intorno al 550 aC. Esattamente come per Figlio dell’Uomo, anche il Servo di Dio era una figura collettiva, che indicava il popolo in schiavitù (Is 41, 8-9 42, 18-20 43,10 44, 1-2 45,4 48,20 54,17), popolo descritto da Isaia come un popolo “oppresso, sofferente, sfigurato, senza nessuna apparenza di bellezza per attirare gli sguardi, schiavo, maltrattato, ridotto al silenzio, ricoperto di piaghe, evitato dagli altri come fosse lebbroso, condannato come un criminale, senza nessuno che difendesse la sua causa” (Is 53, 2-8). E’ il ritratto perfetto di un terzo dell’umanità di oggi! Questo popolo-servo è descritto come quello che “non grida né fa udire in piazza la sua voce, non spezza la canna incrinata e non spegne il lumino dalla fiamma smorta” (Is 42,2). Ossia gente che perseguitata non perseguita, oppressa non opprime, schiacciato non schiaccia gli altri. In essi non riesce a penetrare il virus del regno della violenza che opprime. Questo atteggiamento resistente del Servo di Yhwh è la radice della giustizia che Dio vuole vedere impiantata nel mondo intero. Per questo chiama il popolo ad essere suo Servo, con la missione di irradiare questa giustizia nel mondo intero (Is 42,2.6 49,6). I quattro cantici del Servo sono una specie di pro memoria per aiutare il popolo oppresso, ieri come oggi, a scoprire ed assumere tale missione. Gesù conosceva questi cantici, e si orienta con essi. All’ora del Battesimo nel Giordano, il Padre gli indicò la missione di Servo (Mc 1,11). Quando nella sinagoga di Nazaret espose il suo programma alla gente del suo paese (Lc 4) Gesù assume responsabilmente tale missione. A partire da quel momento, Gesù percorre la Galilea per aiutare il popolo a scoprire e ad assumere, insieme a Lui, questa missione di Servo di Dio. Gesù fu il Servo di Dio che percorse il cammino dei quattro cantici fino alla fine. LA sua vita e la sua testimonianza sono il miglior commento. Attraverso il suo atteggiamento di servizio, Egli ci rivela il volto di Dio che ci attrae, e ci indica la via del ritorno a Dio. 3. Redentore Una delle espressioni più antiche usate dai primi cristiani per esprimere quello che Gesù significava per le loro vite, era quello di Redentore (Go’el – riscattatore). Nell’Antico Testiamento se qualcuno, a causa della povertà o dei debiti, perdeva la terra o era venduto come schiavo, il parente più prossimo (go’el) doveva dare tutto ciò che poteva di suo per riscattarlo (Lv 25 e Dt 15), ristabilendo così la convivenza fraterna del clan. Era quanto si sperava al ritorno del profeta Elia:. L’ultimo versetto dell’Antico Testamento termina con questo sguardo rivolto al ritorno di Elia, con un compito particolare: “ricondurre il cuore dei padri verso i figli e quello dei figli verso i padri” (Malachia 3, 23-24). Per i primi cristiani Gesù era il parente prossimo (go’el), il fratello maggiore, che diede tutto quanto era suo, svuotò se stesso per riscattare i suoi fratelli e sorelle, vittime della schiavitù della legge, del razzismo, dell’ideologia imperiale, di una religione opprimente, in modo che potessero nuovamente vivere in fraternità. Dato il nostro legame di Carmelitani con la spiritualità eliana, chissà che anche questo versetto non costituisca una sfida per noi oggi con la quale confrontarci. Al tempo di Gesù, nel nome della Legge di Dio, molta gente era esclusa ed emarginata. Gesù, a partire dalla sua esperienza di Dio come Padre, denuncia questa situazione che nasconde il volto di Dio ai piccoli (Mt 23, 13-36). Come parente prossimo (go’el) offre un luogo a coloro che non avevano più alcun luogo nella convivenza umana. Accoglie quanti non erano accolti e nella sua nuova famiglia accoglie quanti la religione o il governo disprezzavano ed escludevano: gli immorali, prostitute e peccatori pubblici (Mt 21, 31s Mc 2,15 Lc 7, 37s Gv 8, 2-11); gli eretici, pagani e samaritani (Lc 7 17 Mc 7 Gv 4); gli impuri, lebbrosi e posseduti (Mt 8 Lc 11 17 Mc 1, 25-26); gli emarginati, donne, bambini e malati (Mc 1,32 Mt 8,17 Lc 8,2); i collaboratori con il potere romano occupante, pubblicani e soldati (Lc 18 19); i poveri, il popolo della terra e i poveri senza voce e autorità (Mt 5,3 Lc 6, 20.24 Mt 11, 25-26). Tutte queste persone, compreso Paolo, il persecutore, ebbero l’esperienza di essere stati “riscattati” da Dio per mezzo di Gesù, il fratello maggiore, il primogenito (Col 1,15 Ap 1,5), che compì per essi il suo dovere di Go’el: “Egli mi amò e diede se stesso per me” (Gal 2,20); “si fece schiavo, si svuotò per arricchirci con la sua povertà” (2Co 8,9), perché potessimo ricuperare la libertà e riprendere la vita in fraternità. Il termine ebraico Go’el è tanto ricco che le traduzioni nostre non possono essere univoche. Nel Nuovo Testamento appare tutta una serie di vocaboli che si radicano in questa idea: liberatore, redentore, salvatore, consacrato, avvocato, unto, paraclito, difensore, parente prossimo, fratello maggiore, primogenito. Tutti questi termini, usati per designare Gesù, si riferiscono in un modo o nell’altro a quest’antica tradizione del go’el applicata a Gesù, nostro fratello maggiore. Presentandosi come Go’el, Redentore dei fratelli e delle sorelle esclusi dalla vita della comunità, Gesù rivela il volto di Dio come Padre, come Madre, che accoglie tutti e si prende cura degli abbandonati. Riassumendo. Fu attraverso la finestra di questi tre nomi, Figlio dell’Uomo, Servo del Signore e Redentore, tutti e tre tratti dall’Antico Testamento, che i primi cristiani guardavano Gesù, e trasmettevano agli altri il significato di Gesù per la loro vita: il Figlio dell’Uomo si caratterizza per la sua umanità; il Servo di Dio per il suo servizio; il Redentore per l’accoglienza degli esclusi. Umanizzare, servire, accogliere, sono i tre tratti principali attraverso i quali Dio ci rivela il suo volto in Gesù e ci attrae a sé. Indicano il cammino più antico e più tradizionale per farci tornare alle origini e vivere la Buona Novella di Dio che Gesù ci ha trasmesso. Ci aiutano a capire Gesù come Figlio di Dio. CONCLUSIONE “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!” Il titolo con cui Marco comincia e termina il suo Vangelo è lo stesso: Figlio di Dio! Ascoltando questo titolo all’inizio del vangelo (1,1) il lettore è portato istintivamente a guardare in alto, a levare la testa verso il cielo, dove Dio dimora, dal momento che ci aspettiamo sempre dall’alto del cielo la rivelazione del nostro Dio. Ma durante la lettura del Vangelo di Marco, accompagnando Gesù dalla bellezza del lago di Galilea alla tristezza del Calvario a Gerusalemme, il lettore poco a poco abbassa la testa, e guarda a terra. Alla fine, all’ora della morte, muoiono anche le idee e i criteri che le quali egli intendeva capire e inquadrare l’immagine del Figlio di Dio. Al Calvario siamo davanti ad un essere umano torturato, escluso dalla società, condannato come eretico e sovversivo da tre tribunali: religioso, civile e militare. Ai piedi della croce, per l’ultima volta, le autorità religiose confermano la sentenzia: si tratta realmente di un ribelle finito miseramente, e lo rinnegano pubblicamente (Mc 15, 31-32). Messo sul patibolo della croce, privato di tutto, Gesù grida “Eli, Eli!” Il soldato pensava: “sta chiamando Elia” (Mc 15,35). I soldati erano tutti stranieri, mercenari. Non capivano nemmeno la lingua dei Giudei, per questo il soldato pensa che Eli fosse lo stesso di Elia, e dice “Forse chiama Elia”. Ogni Giudeo sa molto bene che “Eli” significa “Dio mio”. Gesù si trova in un isolamento totale. Anche se avesse potuto parlare con qualcuno, questi non avrebbe potuto capire la sua lingua. Rimase totalmente solo: Giuda lo tradì, Pietro lo aveva rinnegato, i discepoli fuggirono, le autorità si burlavano di lui, i passanti lo schernivano, e nemmeno la lingua usata da Gesù poteva servirgli per comunicare con qualcuno. Le donne, uniche amiche fedeli, dovevano restare lontane, non potevano far altro se non guardare, senza poter fare niente (Mc 15, 40). Isolato, senza nessuna possibilità di comunicazione umana, Gesù si sente abbandonato persino dal Padre: “Dio mio! Dio mio! Perché mi hai abbandonato?” (Mc 15, 34). E dopo un forte grido, muore. Muore in questo modo il Figlio dell’Uomo, il Messia Servo. Questo fu il prezzo che Gesù dovette pagare per la sua fedeltà alla scelta di seguire sempre il cammino del servizio all’umanità, per riscattare i suoi fratelli e sorelle in modo che potessero nuovamente ricuperare il contatto con il Dio vivo e vivere in fraternità. E fu precisamente in quest’ora di morte, l’ora in cui tutto crollava, che dalle ceneri rinacque un nuovo senso di vita. La sua morte fu una vittoria. La sua obbedienza radicale, fino alla morte, nell’abbandono totale di una Notte Oscura senza eguali, fece crollare le barriere che nascondevano il Nome. La cortina del Tempio, simbolo del potere che condannava Gesù, si lacerò da cima a fondo. Il sistema che isolava Dio nel Tempio, lontano dalla vita della gente, era finito. Il centurione, pagano, che comandava il plotone di esecuzione, fa una solenne professione di fede: “Veramente quest’uomo era figlio di Dio” (Mc 15,39). Egli scopre e accetta quello che i discepoli non erano capaci di scoprire ed accettare, ossia, riconoscere la presenza del Figlio di Dio in un essere umano crocifisso. Abbiamo cominciato la nostra meditazione con la domanda: Come fa Dio ad arrivare fino a noi per attirarci a sé? E qual è la via attraverso la quale ci attira, per farci giungere a Lui? E abbiamo detto che queste due vie, quella di Dio verso di noi e la nostra verso di Lui passano entrambe per la persona di Gesù. Ora, in conclusione, una conclusione ci sale alla coscienza: chi voglia veramente tornare all’essenziale della Buona Novella di Dio che Gesù ci ha portato, e chi voglia veramente incontrare il Figlio di Dio, non deve cercarlo in alto, in un cielo lontano, ma deve guardare in basso, al suo fianco, verso ogni essere umano escluso, torturato, sfigurato, senza bellezza, e verso coloro che donano la loro vita per i fratelli. E’ lì dove Gesù si nasconde, si rivela e ci attrae, è lì dove Egli può e vuole essere incontrato. E’ lì dove Dio ci da la prova che Egli continua ad essere YHWH, presenza intima, amica e liberante, in mezzo a noi. E’ lì dove si trova l’immagine sfigurata di Dio, del Figlio di Dio, dei figli e figlie di Dio. “Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i fratelli”.
Martedì, 22 giugno 2004
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