Dov’é, o guerra, la tua vittoria?

Note e pensieri contro la vittoria militare


a cura di Enrico Peyretti

Ringraziamo Enrico Peyretti per averci messo a disposizione questo testo cre riteniamo fondamentale per una cultura di pace.


(testo pubblicato come inserto in Azione Nonviolenta settembre 1998)
4 Novembre 1998
Nell’80° della fine della guerra 1915-1918


"Dov’è, o morte, la tua vittoria?"
(San Paolo, Prima lettera ai Corinti, 15,55)


Questa piccola raccolta viene pubblicata nell’occasione dell’80° anniversario della conclusione della prima guerra mondiale, celebrata come "la Vittoria" nella storia italiana, ed è offerta a chi vuole meditare sulla vacuità e falsità del successo militare omicida, che è sempre una sconfitta umana. Non si vuole entrare nella discussione storica su quella guerra, nè sul "parecchio" che secondo Giolitti si sarebbe ottenuto con la neutralità, né sul giudizio di "inutile strage" dato da Benedetto XV, nè sull’uso dei fanti come carne da mitraglia fatto da Cadorna, né sui processi per disobbedienza e diserzione, nè sulle decimazioni dei soldati ordinate dagli ufficiali nei reparti indocili. Si vuole soltanto meditare sulla vittoria in guerra, in tutte le guerre.

Questa raccolta è stata inizialmente composta (e pubblicata su il foglio n. 178, anno XXI, febbraio 1991) nei giorni tragici e vergognosi del gennaio 91, nostra universale sconfitta nella guerra del Golfo, che spezzò le nuove speranze di pace, dopo il mirabile 1989, anno dei maggiori successi, nell’Europa dell’est, delle lotte nonviolente. Qui la raccolta viene rivista e molto ampliata. E’ dedicata a tutte le vittime delle "vittorie", supplicandole di perdonare questa nostra miserabile umanità, che tuttavia è sempre di nuovo chiamata, anche proprio da quelli che calpesta ed uccide, a ritrovare una ragione e un cuore umani. L’ordine dei brani è del tutto casuale (e.p.).

1. Nel soffitto della sala del trono, nel palazzo reale di Torino, c’è un dipinto del Miel ("La Pace che tiene sottomesso il Furore guerriero e Marte addormentato"), nel quale un cartiglio porta la scritta Multis melior pax una triumphis (Una sola pace è migliore di molti trionfi), che ricorda un poco il concetto ripetuto da Erasmo (tanto nel Dulce bellum inexpertis quanto nella Querela pacis): "E’ meglio una pace ingiusta di una guerra giusta". Infatti, nella prima si può ancora ottenere la giustizia, che nella seconda è perduta.

2. "Quante ignobili vittorie!". Con queste parole Michel de Montaigne (1533-1592) salutava il trionfo in America della conquista europea.

3. "Non si può chiedere all’obiezione l’efficacia immediata, essa non è che la restaurazione della categoricità della nonviolenza di fronte alla realtà, con l’esito inevitabile della sconfitta. Per la nonviolenza la sconfitta è una vittoria". (Ernesto Balducci, La rivoluzione nonviolenta, in Testimonianze, n. 328, settembre-ottobre 1990, p. 27)).

4. "Non c’è nessuna vittoria, signor generale, ci sono solo bandiere e uomini che cadono, e alla fine non ci saranno né bandiere né uomini". (ultima lettera al proprio padre, un generale, di un soldato tedesco andato in guerra volontario, che ora sa che non tornerà vivo, in Ultime lettere da Stalingrado, Einaudi, Torino 1963, p. 50).

5. Nell’ultimo brano della classica antologia di Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, curata da Giuliano Pontara, Einaudi, Torino 1996, pagina scritta il 7 luglio 1947, risaltano i quattro caratteri che il Mahatma vide subito nella vittoria americana sul Giappone ottenuta con la strage atomica, mentre il nemico già chiedeva la resa: una vittoria ignobile, vuota, avvelenata, ingiusta.

6. Testimonianza di Alvise, nonviolento, verso la metà degli anni 80: "In questi anni ho imparato una cosa semplice: non voler vincere".

7. I cristiani credono in un vinto, credono che il giusto vinto vince. Essi cantano a Pasqua: "La morte e la vita si sono affrontate in un grandioso duello: il signore della vita morto regna vivo".

8. La guerra, l’uccidere invece di discutere, è un vincolo di morte, un orrendo amplesso fisico che assimila l’uno all’altro. E’ l’immagine capovolta del vincolo d’amore, che il Cantico dice forte come la morte, cioè in grado di sfidare la morte. Infatti, se uccidi con la guerra il violento, diventi come lui, è lui che ti vince. Se uccidi il giusto, lui vinto ti vince: Abele redime Caino, Cristo redime l’umanità omicida. Vince sempre il vinto, che sia buono o cattivo. La vittoria della forza non esiste, è apparenza sulla breve scena del tempo. La verità è sempre nel contrario di questa vittoria. La forza che presume di distruggere il nemico distrugge se stessa, piomba nel proprio vuoto. Vince il vinto cattivo: Hitler vinto ha vinto, perché la distruttività che lui non ha raggiunto è stata perfezionata e raffinata nello sterminismo atomico dei vincitori, non importa se entro altre ideologie. E vince il vinto buono: Cristo vinto ha vinto, perché nessuna speranza resta davanti a noi come la sua, seppure tante volte smentita.

9. Gandhi vedeva bene l’inconsistenza della vittoria armata: "Non riuscirete mai a eliminare il nazismo usando i suoi stessi metodi" (messaggio agli inglesi sotto i bombardamenti tedeschi, 7 luglio 1940, in Teoria e pratica della nonviolenza, curata da Giuliano Pontara, Einaudi, Torino 1996, pp. 248-249). Unica vittoria è quella che dà vita, quella della verità disarmata.

10. Nel film Wargames di John Badham (1983), un supercomputer calcola le possibilità di vittoria nella guerra totale e risponde: "L’unica mossa vincente è non giocare". La vittoria in guerra non esiste più. Le vittorie di ieri non erano vittorie, sembravano. La luce atomica illumina la guerra in ciò che è sempre stata: un’atroce stoltezza. Lo dimostrava già Bertrand Russell nel 1957 nella sua Lettera ai potenti della terra, facendo vedere che la vittoria è un’illusione (cit. in E. Balducci, L. Grassi, La pace, realismo di un’utopia, Principato, Milano 1985, p. 192).

11. "Una vittoria può dirsi tale soltanto se tutti in egual misura sono vincitori e nessuno è vinto". E’ questa una massima buddista antica di più di due millenni, citata da Gorbaciov per la sua grande attualità, nel discorso in cui sottolineava l’importanza della Dichiarazione di Nuova Delhi del 26 novembre 1986, firmata da lui e dal primo ministro indiano Rajiv Gandhi. In questo documento, nel quale si affermava che "la nonviolenza deve essere alla base della vita della comunità mondiale", Gorbaciov vedeva il punto di incontro dei "massimi genî" dei due paesi, alludendo a Tolstoj e al Mahatma Gandhi. (Cfr E. Balducci, Gandhi, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1988, pp. 7-8).

12. Altri aforismi di Buddha sulla vittoria in guerra: "Fra chi vince in battaglia mille volte mille nemici e chi soltanto vince se stesso, costui è il migliore dei vincitori di ogni battaglia" (Dhammapada, n. 103). "La vittoria alimenta inimicizia, perchè chi è vinto giace dolente. Chi ha abbandonato vittoria e sconfitta, costui ristà tranquillo e felice". (Dhammapada, n. 201, in Aforismi e discorsi del Buddha, a cura di Mario Piantelli, TEA, Milano 1988).

13. "Obiettivo della strategia della pace deve essere, in antitesi con la strategia di guerra - ed è questa la cosa sostanziale, quello di impedire la sconfitta del nemico" (Erich Fromm, La disobbedienza e altri saggi, Mondadori, Milano 1988). Cioè, la pace non nasce mai dalla vittoria sul nemico, ma dalla vittoria sull’inimicizia. La vittoria della saggezza è impedire la sconfitta del nemico, sempre foriera di volontà di rivincita. La vera vittoria è quella comune alle parti, è l’attingere un risultato sovraordinato comune. Vincere è pericoloso. L’unica sicurezza è con-vincere, vincere insieme. E per questo è necessario con-vincer-si, cioè acquistare il potere su di sé, il più difficile e prezioso, la vera potenza.

14. Ascoltiamo Erasmo (1466-1536), il grande difensore della pace all’inizio del ’500. Egli avvertì che lo Stato moderno si andava costituendo sul diritto di guerra, per il quale disponeva dei nuovi terribili armamenti da fuoco. Cioè, la guerra era il primo reale articolo delle costituzioni statali, ancora non scritte. Erasmo propose un’ alternativa storica che non fu seguita. Noi oggi, al termine della modernità, nell’era della distruggibilità atomica, abbiamo un compito uguale: superare gli Stati e i super-Stati costituiti sulla violenza e la guerra. Erasmo fu un grande cristiano, che oggi la chiesa fa molto male a non ricordare. Dovrebbe essere proclamato "dottore della chiesa", Dottore Pacifico.

In guerra, "il trionfo di questi è il lutto di quelli... atroce e grondante di sangue è la felicità". "Alla fine, anche se ottengo vittoria completa, è più lo scapito che il guadagno". "Se vogliamo vincere con Cristo... vinceremo veramente allorquando saremo vinti". "Il bello è che non ottengono mai proprio quello che vogliono, e mentre stupidamente cercano di evitare questo o quello scoglio, piombano in altri guai, o negli stessi ma molto peggiorati". "Chi vince è un assassino. Chi è vinto muore, ma non è meno colpevole: muore solo per non essere riuscito a compiere lui l’assassinio che tentava". "In guerra piange anche chi vince". "Noi ti preferiamo pacifico piuttosto che vittorioso" (a Filippo di Borgogna). "La vittoria (in guerra) non rientra mai fra i beni che appagano".

Sono parole tratte dal Dulce bellum inexpertis (la guerra piace a chi non la conosce), dalla Querela pacis, dalla Lettera ad Antonio di Bergen, e da altri testi, oggi accessibili a tutti nel libro curato da Garin nelle Edizioni Cultura della Pace (Fiesole, 1988). In Erasmo si coalizzano contro la guerra l’argomento del sano utilitarismo e quello morale, per cui l’uomo è fallito quando uccide l’uomo.

15. All’obiezione del realismo cinico che si ammanta di giustizia, Erasmo risponde: "Quanto meglio lasciare impunito il misfatto di pochi, che cercare di infliggere una problematica pena a un paio di furfanti a prezzo del rischio certo di amici e nemici (come li chiamiamo), che non hanno fatto nulla". Leggevo queste parole nel gennaio 1991, durante le prime ore dell’orribile sacrificio umano in cui si celebrava, contro innocenti vite irachene, una sanguinaria "giustizia internazionale" nei confronti del dittatore e aggressore Saddam. Trovavo deboli le parole di Erasmo, per quella strage, ma vi riconoscevo lo stesso dolore che in quel momento ci schiacciava. Si dirà poi che avrà vinto la ragione e la giustizia... Quando "giustiziare" vuol dire uccidere - fosse anche il colpevole, con la pena di morte, e a maggior ragione migliaia di innocenti - la parola giustizia è del tutto falsata, tradita, sconfitta: ha vinto solo il mistero di male che oscura il mondo.

16. "Non sarebbe male che un popolo, a guerra finita e dopo aver concluso il trattato di pace, dopo la festa del ringraziamento decretasse un giorno di espiazione per chiedere persono al Cielo, in nome dello Stato, per la grave colpa della quale il genere umano continua a macchiarsi, rifiutando di sottomettersi ad una costituzione legale che regoli i rapporti con gli altri popoli, e preferendo usare, fiero della sua indipendenza, il barbaro mezzo della guerra (per mezzo del quale tuttavia non si decide ciò che si cerca, vale a dire il diritto di ogni Stato). I festeggiamenti coi quali si rende grazie per una vittoria conseguita in guerra, gli inni cantati (alla maniera degli Ebrei) al Signore degli eserciti, non contrastano meno nettamente con l’idea morale del padre degli uomini; infatti, a parte la già abbastanza triste indifferenza a riguardo dei mezzi coi quali i popoli perseguono il proprio reciproco diritto, esprimono per di più la soddisfazione d’avere annientato un bel numero di uomini, o distrutto la loro felicità". Così Kant, in una nota del suo grande scritto Per la pace perpetua. Progetto filosofico (pubblicato nel 1795; traduzione e cura di Alberto Bosi; Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1995, pp. 135-136). La guerra è dunque per lui la "grave colpa", il "barbaro (e inutile) mezzo", e ringraziare Dio per la vittoria è offesa all’idea morale di Dio, indifferenza alla crudeltà dei mezzi bellici, soddisfazione per aver dato morte e dolore.

17. Ma non è solo il grande nobile animo di Kant a parlare così. Ascoltiamo un altro autore, il quale dice che in guerra le potenze belligeranti sono "tutte d’accordo su un punto solo, fare il maggior male possibile. La cosa più strabiliante di questa impresa infernale è che ogni capo assassino fa benedire le sue bandiere e invoca solennemente Dio prima di andare a sterminare il prossimo. Se un capo ha avuto la fortuna di far sgozzare solo due o tremila uomini, non ne ringrazia Dio; ma quando ce ne sono almeno diecimila sterminati dal ferro e dal fuoco e, per colmo di grazia, è stata distrutta fino all’ultima pietra qualche città, allora si canta a quattro voci una canzone abbastanza lunga [il Te Deum laudamus, preghiera usata come bestemmia classica nelle feste per la vittoria; n.d.r.], composta in una lingua sconosciuta a tutti coloro che hanno combattuto... La medesima canzone serve per i matrimoni e per le nascite, e al tempo stesso per la strage: questo è imperdonabile" . E’ quell’arciscomunicato di Voltaire (nella voce Guerra del suo Dizionario filosofico), in questa occasione vero teologo, più cristiano di un papa e più pio di un monaco.

18. Tommaso Moro (1478-1535), il grande amico di Erasmo, non arriva ad escludere la guerra dalla sua isola di Utopia, eppure scrive: "La guerra è profondamente detestata in Utopia, come cosa veramente belluina [come dice il suo nome latino; n.d.r.], sebbene nessuna specie di belva la pratichi così spesso come l’uomo; e nulla si ritiene tanto inglorioso - al contrario di quasi tutti gli altri popoli - quanto la gloria acquistata con la guerra". Se è la cosa più ingloriosa, la vittoria in guerra è dunque la cosa più vergognosa.

Ma questo, dirà il realista freddo, avviene nell’isola che non c’è. A parte il fatto che Utopia può significare anche il buon luogo, il solo criterio che dà respiro e futuro all’intelligenza e alla vita è quello che lo stesso Moro ci dice: "Ci interessa tutto quello che non conosciamo ancora".

19. Ancora Kant cita un detto antico, nel fare il bilancio dei vantaggi e svantaggi della guerra: "La guerra è un male, perché fa più malvagi di quanti ne toglie di mezzo" (Per la pace perpetua, Primo supplemento). Dunque, chi vince nella guerra? Il male.

20. "Inutile strage, orrenda carneficina che disonora l’Europa". Così definì la guerra in corso, nel 1917, papa Benedetto XV, e fu coperto di improperi come disfattista.

"La guerra sarebbe il declino dell’umanità intera". "La pace ottenuta con le armi non potrebbe preparare che nuove violenze". Così, il 12 gennaio 1991, inutilmente avvertì le potenze occidentali papa Giovanni Paolo II, delegittimando solennemente la guerra del Golfo e la volontà di potenza dell’Occidente. Declino, in luogo del progresso. Nuove violenze, in luogo del nuovo ordine internazionale. E’ questa la vittoria della legalità, della democrazia?

21. "La guerra è una sconfitta anche per coloro che pensano di esserne eventuali vincitori" (L’Osservatore Romano, 20 gennaio 1991). "Una guerra è sempre una sconfitta" disse una ragazza della 1ªE, quattordici anni, durante un’assemblea nel mio liceo contro la guerra del Golfo. Era più saggia di quei pazzi potenti, più capace di Andreotti, Demichelis e Cossiga, di governare l’Italia.

22. E ogni sconfitta camuffata
con sonanti peana
di vittoria. Poi
il rimorso inutile:
e lamenti e preghiere
a riempire i cieli, e sempre
un Salvatore atteso
e poi respinto.


David Maria Turoldo
Nel segno del Tau, Mondadori, Milano 1988, p. 109

23. "Le stesse potenze che hanno "vinto" l’ultima guerra mondiale a proprio danno (...) non sono riuscite a ricavarne altro insegnamento se non che bisogna armarsi più accanitamente che mai. (...) Nulla hanno imparato e nulla vogliono imparare, dopo la loro triste "vittoria" hanno fatto poco o nulla per la pace e molto invece per rendere possibili nuove guerre". (Hermann Hesse, nel settembre 1950, in Non uccidere, Considerazioni politiche, Mondadori, Milano 1987, p. 178).

24. Tra i commenti americani immediatamente successivi alle bombe di Hiroshima e Nagasaki troviamo anche questo, del settimanale cattolico Commonwealth, in un editoriale intitolato Orrore e vergogna: "Non dovremo più affannarci per mantenere limpida la nostra vittoria. E’ disonorata. Il nome Hiroshima, il nome Nagasaki, sono i nomi della vergogna e della colpa americana". (Dal libro di Gar Alperovitz, Atomic Diplomacy, 2a edizione 1985).

25. L’Onu è una preziosissima conquista del nostro secolo per il futuro dell’umanità, e deve sviluppare il suo significato e le sue potenzialità, al di là dei suoi limiti attuali. Infatti, il suo vizio costituzionale, diventato col tempo tragicamente evidente, è di essere una istituzione nata per "salvare le future generazioni dal flagello della guerra" (Preambolo dello Statuto), ma fondata sulla vittoria, sul diritto di guerra, sul privilegio dei vincitori, sul loro potere di veto. Nessuna pace può nascere dal diritto della forza, che è l’unico diritto sancito dalla vittoria in guerra, solo occasionalmente e casualmente coincidente con il diritto e la ragione.

26. "La lettera bagnata di lacrime con cui il duca di Wellington annunciava di avere vinto Napoleone a Waterloo, perdendo 50 mila soldati, è stata acquistata dalla British Library per 350 mila sterline (750 milioni di lire)" (da La Stampa, 23 gennaio 1990). Se ben ricordo una lontana lettura, Wellington disse allora che una vittoria è poco meno tragica di una sconfitta.

27. Un film di Peter Brook (1989) ha proposto agli europei il Mahabharata, antico poema sacro indiano di tre o quattro secoli precedente all’era cristiana, che contiene il famoso Bhagavadgita (il Canto del Beato). Questo testo sembra addirittura inculcare il dovere della guerra, contro le esitazioni della coscienza. Ecco uno dei punti (nemmeno il più importante) dell’interpretazione datane da Gandhi, che lo ha meditato per tutta la vita: "L’immortale autore (...) ha mostrato al mondo l’inutilità della guerra, dando ai vincitori una vuota gloria" (Teoria e pratica della nonviolenza, cit., p. 9).

28. "Il dolore inflitto a milioni di individui non è nemmeno per il presunto vincitore configurabile come il prezzo della vittoria, quanto l’indice della sconfitta che su ogni piano lo accomuna al nemico". (Luciano Gallino, La Stampa, 12 settembre 1990).

29. "L’esito della guerra dimostrò ancora una volta quanto illusoria sia la convinzione popolare secondo cui "vittoria" significa pace. Valse, invece, a confermare che essa è solo un "miraggio nel deserto": il deserto che una lunga guerra, tanto più se combattuta con armi moderne e metodi illimitati, si lascia inevitabilmente alle spalle". (B.H. Liddell Hart, Storia militare della seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano 1974, p. 6).

30. "L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è che ci si incoraggi a ricuperare la stima di noi stessi sui campi di battaglia... Il senso di fiducia in se stessi e di autostima che gli americani desiderano veder ripristinato sarebbe sentito in modo più appropriato, in una democrazia come la nostra, se si fondasse sulla prova di salute e forza anziché su riferite distanti glorie di battaglie". (Paul Kennedy, storico statunitense, su L’Unità, 26 gennaio 1991).

31. "...Infatti la guerra, diventando sempre più stupida, più sporca, più tragica, non potrà non partorire che una vittoria stupida, sporca, tragica... Invece che il nuovo ordine mondiale sta preparando un nuovo disordine che solo i ciechi non vedono". (Alberto Cavallari, che all’inizio riteneva necessaria la guerra del Golfo, su La Repubblica, 27 gennaio 1991).

32. "Ora, poiché le armi più eccellenti sono oggetti sfortunati, ognuno le detesta. Perciò colui che segue la via non se ne occupa. (...) Le armi sono strumenti di sventura, non sono strumenti del nobile. Questi le usa solo se non ha nessun’altra alternativa, e considera superiori la calma e l’indifferenza. Se vince, non lo trova bello. Colui che lo trova bello gioisce di uccidere degli uomini. Ora, chi gioisce di uccidere uomini non può realizzare i propri intenti sull’impero. (...) L’uccisione di una moltitudine di uomini è pianta con dolore e lamentazioni; vinta una battaglia, ci si dispone come nei riti funebri". (Lao-tzu, Tao-teh-ching, Il libro del Tao, traduzioni diverse, n. 31).

33. Asoka, il grande re buddhista dell’India antica (3° sec. a.C.), si era dedicato in un primo tempo all’espansione dell’impero. Nel corso della conquista del Kalinga rimase profondamente scosso dall’orrore e dalla pietà provati di fronte alle stragi perpetrate dai suoi soldati. Allora - sappiamo dal suo XIII editto rupestre - espresse pubblicamente il suo rimorso e dichiarò solennemente che da quel momento solo la vittoria del Dhamma (dovere, precetto, pietà) sarebbe stata da lui considerata vera vittoria. (cfr Per un percorso etico tra culture, Testi antichi di tradizione scritta, a cura di Pier Cesare Bori e Saverio Marchignoli, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1996, p. 123).

34. L’alternativa è questa: o vittoria, o giustizia. Scrive Norberto Bobbio: "Fra due contendenti la pace può essere ottenuta o con la vittoria e la supremazia dell’uno sull’altro, o con la interferenza determinante di un terzo super partes. Nel primo caso si ha la cosiddetta pace d’impero, nel secondo caso una pace di compromesso, che Raymond Aron ha chiamato la "pace di soddisfazione"" (Autobiografia, Laterza 1997, p. 234). Quindi, la vittoria in guerra fa finire la guerra, ma non ottiene la pace giusta, bensì un dominio, che è impero, offesa, ingiustizia, della stessa qualità della guerra, benché non così immediatamente cruenta. Ricordiamo Erasmo: meglio una pace ingiusta di una guerra giusta. Ma non accontentiamoci. O vittoria, o giustizia.

35. "Per quanto giusta sia la causa del vincitore, per quanto giusta sia la causa del vinto, il male prodotto dalla vittoria come dalla sconfitta non è meno inevitabile". (Simone Weil, Quaderni, I, trad. di G. Gaeta, 3ª edizione, Adelphi, Milano 1991, p. 232).

36. "La Giustizia fugge dal campo dei vincitori", scriveva Simone Weil (Quaderni, III, trad. di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1988, p. 158). Fugge per andare a pesare sull’altro piatto, a pareggiare la giusta bilancia. In questo brano la Weil dice che la società è forza, e che, se si è consapevoli dello squilibrio sociale, occorre "aggiungere peso sul piatto troppo leggero", con ogni mezzo, ma "bisogna aver concepito l’equilibrio, ed essere sempre pronti a cambiare parte, come la Giustizia". Ogni vittoria, per diventare giusta, deve essere riequilibrata, abbandonata in favore dei vinti.

37. Quando alla vittoria si aggiunge il piacere di trionfare e di umiliare il vinto (il che accade ben facilmente), la vittoria diventa più vergognosa. Dice ancora Simone Weil: "Avevo dieci anni al tempo del trattato di Versailles. Fino ad allora ero stata patriota con tutta l’esaltazione dei bambini in periodo di guerra. La volontà di umiliare il nemico vinto, che invase tutto in quel momento (e negli anni successivi) in maniera così repellente, mi guarì una volta per tutte da questo patriottismo ingenuo. Le umiliazioni inflitte dal mio paese mi sono più dolorose di quelle che può subire". (Al termine della Lettera a Georges Bernanos, scritta presumibilmente nel 1938, si trova in G. Gaeta, Simone Weil, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1992, pp. 95-100).

38. La vittoria delle armi dimostra la maggior forza e ferocia delle armi, nient’altro. Non dimostra nulla riguardo al diritto e alla giustizia. Può anche darsi che vinca la parte più giusta. Ma accade pure che le armi indeboliscano e inquinino le ragioni giuste, fino a perderle.

39. Quando Davide ricevette la notizia della morte di Assalonne, che si era ribellato contro di lui, fu scosso da tremito e salì a piangere nella stanza di sopra, gridando: "Assalonne, figlio mio, figlio mio! Perchè non sono morto io al tuo posto? Figlio mio, figlio mio Assalonne!". Davide, che pure fu un duro guerriero, qui profetizza la verità su ogni vittoria omicida: è sempre un figlio, un fratello, un consanguineo, che il vincitore ha ucciso. Ogni vittoria è sporca di sangue familiare. E’ lutto, tanto quanto la sconfitta. "La vittoria in quel giorno si trasformò in lutto per tutto il popolo. (...) I soldati entrarono in città quasi di nascosto, come quando un esercito torna vergognoso dopo essere fuggito in battaglia" (2° libro di Samuele, 19, 1-4).

40. Accanto alla foto di un bambino col braccio destro amputato compare la scritta in inglese: "E’ per questo che combattiamo? La guerra non vince la pace". E’ un manifesto del National Peace Council, di Colombo, nello Sri Lanka (da Echoes, rivista del Consiglio Ecumenico delle Chiese sul programma Giustizia, Pace, Salvaguardia del creato, n. 13/1998, p. 23).

41. I calciatori che, fatto un gol, danno in furiose esultanze, tirano pugni nell’aria, esibiscono grinte più feroci che felici, come se stessero sbranando un odiato nemico, dimostrano una malsana cultura della vittoria sportiva. Il gioco, la prova di abilità e forza fisica rappresenta, nel corso del lungo faticoso processo di umanizzazione, la neutralizzazione della guerra, la trasformazione della vittoria da dolore ad allegria. Invece, quel brutto modo di giocare e di vincere fa il cammino inverso, è la regressione umana dal gioco alla guerra. La barbarie di quei calciatori, corrotti dai troppi soldi che guadagnano e dalla psicosi sportiva di massa, riflette le violenze collettive degli stadi, che tornano a somigliare all’arena dei gladiatori. In questo senso, Alex Langer denunciava il motto olimpico "citius, altius, fortius" (più veloce, più alto, più forte) come emblematico del "modello della gara" che informa fino all’esasperazione e alla follia il modo di vita dominante (cfr Alexander Langer, Il viaggiatore leggero, Scritti 1961-1995, Sellerio editore, Palermo 1996, p. 329). Se giocare vuol essere solo vincere, quel vincere non è più leggero come il giocare, ma pesante come il combattere. A questa civiltà della competizione che produce più vittime che successi umani, più rifiuti che prodotti, a questo "progresso" che (come dice Eduardo Galeano) è un viaggio con più naufraghi che passeggeri, Alex Langer opponeva un altro motto: "lentius, profundius, suavius" (con più calma, più profondità, più dolcezza).

42. Conosco questa storia familiare: il padre era tornato vincitore, nel 1918, e trovò disoccupazione, miseria, disordini, sofferenze, violenze, sfociate nella dittatura fascista. Passano più di vent’anni e Mussolini, dopo la vigliacca vittoria sull’Etiopia, butta l’Italia nella fornace della seconda guerra mondiale. Il figlio di quell’uomo viene mandato in guerra. Il padre gli dice: "Senti bene, figlio mio: io l’altra guerra l’ho vinta e non ho avuto che guai. Tu prova a perderla, chissà che non ti vada meglio". Spedito in Africa, il ragazzo appena vede gli inglesi butta a terra il fucile e si arrende. Passa il resto della guerra da prigioniero. Tornato a casa, trova un lavoro come reduce e se la passa a sufficienza nell’Italia della ricostruzione. In quella famiglia non credono molto nella vittoria. Del resto, è vero in generale che all’Italia sconfitta nel 1945 è andata assai meglio che all’Italia vittoriosa nel 1918.

43. Le feste per la vittoria sono "danza sulle bare". Così scrive Benjamin Constant in Dello spirito di conquista e dell’usurpazione, edizione BUR.

44. La guerra che verrà

non è la prima. Prima

ci sono state altre guerre.

Alla fine dell’ultima

c’erano vincitori e vinti.

Fra i vinti la povera gente

faceva la fame. Fra i vincitori

faceva la fame la povera gente

egualmente.

Bertolt Brecht

* * *

Prego i lettori di voler continuare, con altri documenti e testimonianze, a disonorare la vittoria militare.

Enrico Peyretti


45. Aggiunta 24-9-02
La guerra non ha più senso per il semplice fatto che non si vince più. Per il semplice fatto che anche una guerra vinta non chiude il conflitto che voleva chiudere: lo riapre in forme più nuove e terribili.
Ernesto Balducci

46. Aggiunta 3-10-02
Lamento di David sul gigante ucciso
La vittoria di David su Golia è una delle vittorie in armi più celebrate e di più "santa" fama. Perciò la aggiungo nella mia raccolta Dov’è, o guerra, la tua vittoria? come uno dei pezzi più significativi per togliere gloria alla vittoria in guerra e mostrarne tutta l’infinita tristezza.
La notte è troppo pesante sopra il mio capo
la luna non s’alza
non s’alza sulle colline,
io grido
e non mi risponde la terra di bronzo.
Ma ieri chiamavo la luna su quelle colline
e il giovane vento a giuocare
nella foresta
e i cani e le nuvole
l’acqua del fiume
ed il sonno.
Docile sonno, o mio agnello perduto
io non so dove.
Giuochi che David
non giuocherà mai più.
Se io fossi morto, mia madre
piangerebbe su di me,
s’io fossi ferito, qualcuno
laverebbe il mio sangue.
Non piange nessuno
se in qualche parte ho perduto
il mio vergine cuore;
se grondo del sangue di un altro
nessuno mi lava.
Tutti laggiù fanno festa,
io sono qui solo
con quello che ho ucciso.
Alzati, rosso gigante
ammucchiato ai miei piedi,
riprenditi il tuo respiro le cento teste
e l’ira e le armi di bronzo.
Ridammi la semplice fionda
e il mio cuore
il mio veloce cuore
in corsa sulle colline.
Tu non rispondi, gigante di bronzo.
Terra, tu non rispondi.
E sia pure così. È inutile gridare.
Dunque la luna ieri
non si alzava per me.
------------
Elena Bono, Dalla raccolta Alzati, Orfeo, riproposta nel 1981 nella antologia Piccola Italia, p.37-38.

47. Aggiunta 6-1-03
Alessandro Manzoni, Il Conte di Carmagnola, Coro dall’atto secondo:
I fratelli hanno ucciso i fratelli:
Questa orrenda novella vi do.
Odo intorno festevoli gridi;
S’orna il tempio, e risona del canto;
Già s’innalzan dai cori omicidi
Grazie ed inni che abomina il ciel.
…….
……..
Stolto anch’esso! Beata fu mai
Gente alcuna per sangue ed oltraggio?
Solo al vinto non toccano i guai;
Torna in pianto dell’empio il gioir.
Ben talora nel superbo viaggio
Non t’abbatte l’eterna vendetta;
Ma lo segna; ma veglia ed aspetta;
Ma lo coglie all’estremo sospir.



Venerdì, 11 aprile 2003