RIFLESSIONE
Capitini e noi

di Goffredo Fofi

[Ringraziamo Antonello Ronca ed Enrico Peyretti per averci fatto pervenire questo articolo di Goffredo Fofi apparso sulla bella rivista "Lo Straniero" nel fascicolo del maggio 2005.

Goffredo Fofi, nato a Gubbio nel 1937, ha lavorato in campo pedagogico e sociale collaborando a rilevanti esperienze. Si é occupato anche di critica letteraria e cinematografica. Tra le sue intraprese anche riviste come "Linea d’ombra", "La terra vista dalla luna" e "Lo straniero". Per sua iniziativa o ispirazione le Edizioni Linea d’ombra, la collana Piccola Biblioteca Morale delle Edizioni e/o, L’ancora del Mediterraneo, hanno rimesso in circolazione testi fondamentali della riflessione morale e della ricerca e testimonianza nonviolenta purtroppo sepolti dall’editoria - diciamo così - maggiore. Opere di Goffredo Fofi: tra i molti suoi volumi segnaliamo almeno L’immigrazione meridionale a Torino (1964), e Pasqua di maggio (1989). Opere su Goffredo Fofi: non conosciamo volumi a lui dedicati, ma si veda almeno il ritratto che ne ha fatto Grazia Cherchi, ora alle pp. 252-255 di Eadem, Scompartimento per lettori e taciturni, Feltrinelli). Aldo Capitini é nato a Perugia nel 1899, antifascista e perseguitato, docente universitario, infaticabile promotore di iniziative per la nonviolenza e la pace. E’ morto a Perugia nel 1968. E’ stato il più grande pensatore ed operatore della nonviolenza in Italia. Opere di Aldo Capitini: la miglior antologia degli scritti é (a cura di Giovanni Cacioppo e vari collaboratori), Il messaggio di Aldo Capitini, Lacaita, Manduria 1977 (che contiene anche una raccolta di testimonianze ed una pressoché integrale - ovviamente allo stato delle conoscenze e delle ricerche dell’epoca - bibliografia degli scritti di Capitini); recentemente é stato ripubblicato il saggio Le tecniche della nonviolenza, Linea d’ombra, Milano 1989; una raccolta di scritti autobiografici, Opposizione e liberazione, Linea d’ombra, Milano 1991, nuova edizione presso L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2003; e gli scritti sul Liberalsocialismo, Edizioni e/o, Roma 1996; segnaliamo anche Nonviolenza dopo la tempesta. Carteggio con Sara Melauri, Edizioni Associate, Roma 1991; e la recentissima antologia degli scritti Le ragioni della nonviolenza, Edizioni Ets, Pisa 2004. Presso la redazione di "Azione nonviolenta" (e-mail: azionenonviolenta@sis.it, sito: www.nonviolenti.org) sono disponibili e possono essere richiesti vari volumi ed opuscoli di Capitini non più reperibili in libreria (tra cui i fondamentali Elementi di un’esperienza religiosa, 1937, e Il potere di tutti, 1969). Negli anni ’90 é iniziata la pubblicazione di una edizione di opere scelte: sono fin qui apparsi un volume di Scritti sulla nonviolenza, Protagon, Perugia 1992, e un volume di Scritti filosofici e religiosi, Perugia 1994, seconda edizione ampliata, Fondazione centro studi Aldo Capitini, Perugia 1998. Opere su Aldo Capitini: oltre alle introduzioni alle singole sezioni del sopra citato Il messaggio di Aldo Capitini, tra le pubblicazioni recenti si veda almeno: Giacomo Zanga, Aldo Capitini, Bresci, Torino 1988; Clara Cutini (a cura di), Uno schedato politico: Aldo Capitini, Editoriale Umbra, Perugia 1988; Fabrizio Truini, Aldo Capitini, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1989; Tiziana Pironi, La pedagogia del nuovo di Aldo Capitini. Tra religione ed etica laica, Clueb, Bologna 1991; Fondazione "Centro studi Aldo Capitini", Elementi dell’esperienza religiosa contemporanea, La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 1991; Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Per una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1998; AA. VV., Aldo Capitini, persuasione e nonviolenza, volume monografico de "Il ponte", anno LIV, n. 10, ottobre 1998; Antonio Vigilante, La realtà liberata. Escatologia e nonviolenza in Capitini, Edizioni del Rosone, Foggia 1999; Pietro Polito, L’eresia di Aldo Capitini, Stylos, Aosta 2001; cfr. anche il capitolo dedicato a Capitini in Angelo d’Orsi, Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi, Torino 2001; per una bibliografia della critica cfr. per un avvio il libro di Pietro Polito citato; numerosi utilissimi materiali di e su Aldo Capitini sono nel sito dell’Associazione nazionale amici di Aldo Capitini: www.aldocapitini.it, altri materiali nel sito www.cosinrete.it; una assai utile mostra e un altrettanto utile dvd su Aldo Capitini possono essere richiesti scrivendo a Luciano Capitini: capitps@libero.it, o anche a Lanfranco Mencaroni: l.mencaroni@libero.it, o anche al Movimento Nonviolento: tel. 0458009803, e-mail: azionenonviolenta@sis.it]


Che si parli di Capitini, che lo si racconti e che lo si legga é importante, ma da questo dovrebbe conseguire che si prenda esempio e si riparta dal suo pensiero e dalla sua azione, mettendoli al passo con le necessità di oggi, con un’epoca radicalmente cambiata rispetto a quella in cui egli é vissuto. In Europa non ci sono più le grandi dittature, semplicemente non ce n’é più bisogno, almeno per ora, grazie al benessere e a un accorto uso dei mezzi di comunicazione di massa produttori di consenso; all’"assoluto dello Stato" (come Capitini definiva il sistema sovietico) é succeduto, non più soltanto sua controparte yankee, "l’assoluto del benessere" (come Capitini definiva il sistema statunitense, l’american way of life), e un’unica proposta, un unico "consiglio per gli acquisti", un unico modello di società esportato dagli Usa nelle nostre lande e verso tutti i possibili altrove.

A questa invasione che, in molti casi, dopo la caduta dell’Impero sovietico, é stata ed é anche invasione militare e che, come negli antichi tempi, si dice ed é convinta di agire per il bene contro il male e addirittura nel nome del Cristo, si reagisce con disperati e non diversamente criminali eserciti di molti (o di pochi, i kamikaze) in difesa di una "vera fede" contro quell’altra "vera fede". E se al tempo di Hitler (o con lo Stalin che reagiva all’invasione nazista riaprendo abilmente le chiese dopo anni di persecuzioni) i capi di governo si servivano della religione, oggi si sentono e sono credenti e religiosi, parlano e sparano in nome della fede. Prima dell’11 settembre 2001 che ha davvero cambiato di nuovo il mondo, i dati del problema, e ha reso urgente come mai prima una risposta dei singoli e dei gruppi che sia davvero altra, di rifiuto dell’aggressione e della violenza, il teologo Bernhard Haering aveva scritto che "una delle maggiori minacce del genere umano é costituita da quelle persone e da quei gruppi di potere che si trincerano in una pseudo-innocenza e auto-giustizia, al punto di sacralizzare ogni tipo di violenza, di tortura, di guerra insensata". La religione, che all’inizio del Novecento si credeva destinata a non contare, alla fine del secolo, più nulla, é tornata invece a dominare, a vincere, e in modi antichi, di piena brutalità; non c’é intorno molta "religione aperta" e tollerante, come la voleva Capitini, bensì una religione chiusa e ferina... E questo in tanti paesi, negli Stati Uniti come in Iraq, e in Africa e in Asia e nei nostri dintorni - lasciando, per ora, che sia un’isola felice l’Europa occidentale e ricca cui apparteniamo, una zona privilegiata del pianeta. (E di essa l’Italia é forse l’unica isola esente da guerre dopo il 1945). L’Europa é per buona misura teatro di una secolarizzazione che non può soddisfarci, tanto é il prodotto di cinismo e benessere e di una democrazia sempre manipolabile.

Oggi l’intralcio al pensiero e all’autonomia dell’individuo, e a una qualsiasi forma di forte spiritualità é dato dal rumore, dall’ossessione della comunicazione, dalla spettacolarizzazione del pubblico e del privato, dalla violenza della pubblicità come espressione centrale del "fascismo del nostro tempo". Non c’é più bisogno di dittature, nella parte d’Europa benestante, poiché basta la manipolazione del consenso, diventata perno di ogni politica. Basta, insomma, la produzione di persone di poca mente, condizionate al tempo libero da un’economia che ci ha tolto il sudore dalla fronte e ci ha regalato larghi spazi di ozio e reso passivi consumatori, di consumi indotti e superflui. Di cose e di televisione. E di festa. Ma che differenza tra le feste chiassose che scandiscono la nostra vita e la festa teorizzata, sognata, proposta da Capitini, punto centrale di un’aspirazione all’armonia del tutto, di noi nel tutto, e con tutto il vivente, dell’io-tutti e anche oltre, nella compresenza dei morti e dei viventi! La festa é per lui quella che "può soddisfare la parola inesprimibile da individuo a individuo", che é "di là dall’utile", che unisce "tutti", tutte le creature e anche le morte, ciò che é stato vivo, poiché "compensa ogni perdita", poiché "apre l’unità a purificate presenze"... La festa in cui noi oggi siamo immersi e a cui siamo addirittura obbligati é invece la festa della colpevole dimenticanza, dell’osmosi o dell’incrocio tra la nostra parte animale con la parte meccanica e robotica in cui ci vanno chiudendo, noi compiacenti e consenzienti. Il paradosso é che, per rendere accettabile questa festa "laica" del non-pensiero, abbiamo bisogno anche noi, ricchi europei, del conforto della religione. Ma si tratta allora di una religione priva di spigoli e di difficoltà, di prove e di fatica - una parodia: una religione di sdilinquita superficialità, una new age di blando e basso spiritualismo che confronti e rallegri ciò che si é, come si é, che non esiga cambiamento alcuno, nessun peso di trasformazione, nessuno scandalo di verità, e che allontani ed esorcizzi il tragico della nostra addomesticata finitudine.

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Scriveva nel 1956 Capitini nel "Colloquio corale", il suo poema da riscoprire, che "pedanteria e volgarità hanno occupato la vita", che "bellissimi volti dicono insulse parole". Ci sarebbe da obiettare oggi su quel "bellissimi volti", poiché decenni di televisione, di consumismo brutale, di supinità alle mode, si direbbe abbiano abolito anche quel tipo di bellezza residuale, e viene da sposare la domanda che Capitini si pone nei versi che seguono a questi: "Perché portare temi di musica alta, nel frastuono di vite scomposte?". Ma per Capitini si tratta, per una volta, di una domanda retorica; egli non é mai crudele con l’uomo, neanche con il peggiore, e tutto il "Colloquio corale", anzi tutta la sua opera, é un invito alla bellezza e all’armonia, é di incitamento all’apertura, a liberare la realtà dalla paura, dalla violenza, dalla bruttezza, dalla morte. Capitini era nonostante tutto un grande ottimista, un uomo che amava le creature e amava i propri simili e che praticava la fiducia e il dialogo; era il "persuaso" che sa come cambiare l’uomo e il mondo sia possibile soltanto amando l’uomo: "sempre siamo interessati alle altre persone e agli altri esseri, al tu, al dialogo, alle assemblee. Noi sappiamo sempre che c’é da praticare e da perfezionare questo rapporto, a ogni livello e occasione della nostra vita".

Ma é proprio questo che oggi siamo tentati di mettere in discussione del suo pensiero... Oggi il mondo non va più in salita, la fiducia nella possibilità di "completare" o "correggere" la Creazione che, diceva molto semplicemente Anna Maria Ortese, é "sbagliata" ed é un fallimento, non ci appartiene più; anche se non per questo vogliamo rinunciare alla sfida e al rischio che comporta la non-accettazione del mondo come é. Ancora Capitini, ancora il "Colloquio corale": "No, non si creda, non ho fatto la pace col mondo". E anche: "Venga pure il pericolo in questo mio essere nel mondo, cosa ambigua".

Capitini é morto nel ’68, l’anno che gli permise di entusiasmarsi ancora per un movimento, nuovo e di giovani, che purtroppo rientrò molto presto nell’ordine, dopo le prime sconfitte e i recuperi da parte della politica (la politica con la kappa, come la si scriveva allora, e avrebbe ancora più senso scrivere ora...), pronto a ri-adattarsi e a ri-accettare il mondo dato, ricuperando la convinzione dei cinici che non é possibile far qualcosa che risulti davvero incisivo, per poterlo cambiare in meglio. Dopo il ’68, quando si poteva sperare nella purezza e nella forza della gioventà, dei "ragazzini" morantiani che avrebbero dovuto e potuto cambiare il mondo, c’é stato il ’75, una data per noi simbolica: la morte di Pasolini; ma anche storica: la fine di un grande ciclo internazionale di lotte; della fiducia nella decolonizzazione, nel socialismo, nella solidarietà tra i popoli e le etnie, per esempio tra i bianchi e i neri (e nel ’68 fu assassinato Martin Luther King, profeta di rivolta nonviolenta, mentre nel ’65 era già stato assassinato Malcolm X, profeta di rivolta violenta). C’é stato l’89, ma nonostante quel felice ’89, la parte del mondo che si liberò allora dal giogo di una burocrazia che si diceva comunista ed era colonialista, classista e dittatoriale, quei paesi e quei popoli non ci hanno dato per ora motivo di grandi speranze, non hanno potuto offrirci modelli di nuova socialità e giustizia. E c’é stato infine il 2001, inizio di un nuovo secolo e millennio, e quell’11 settembre che ci impone, o dovrebbe imporci, una tensione d’urgenza per evitare le catastrofi che a esso sono seguite e che seguiranno.

Come é possibile essere oggi ottimisti sui destini dell’uomo e del suo giardino - "l’aiuola che ci fa tanto crudeli"? Ma, prima, che tipo di ottimista era Capitini? Il suo ottimismo era fatto di persuasione, ma mai di ingenuità, era l’ottimismo di chi spende la vita nella scommessa sul cambiamento più radicale di tutti, nella fiducia nei mezzi di cui si serve, nella giustizia della lotta che si propone o a cui si aderisce, nella bellezza dei fini giusti. Era un ottimismo che si faceva azione, intanto, quello di chi dice: Non ci sto. (Un suo grande contemporaneo, Albert Camus, elaborò una formula che doveva forse piacere a Capitini: "mi rivolto dunque siamo", ma non precisava modi e mezzi della ribellione...). Era l’ottimismo di chi dice "non accetto"... e fosse pur vero che il pesce grande mangerà sempre il piccolo... che ci sarà sempre la morte... che l’uomo non metterà mai le ali... io non ci sto, io dico di no, io faccio tutto ciò che mi é dato di poter fare perché avvenga il contrario.

Così Capitini: "Quando incontro una persona, e anche un semplice animale, non posso ammettere che poi quell’essere vivente se ne vada nel nulla, muoia e si spenga, prima o poi, come una fiamma. Mi vengono a dire che la realtà é fatta così, ma io non accetto. E se guardo meglio, trovo anche altre ragioni per non accettare la realtà così com’é ora, perché non posso approvare che la bestia più grande divori la bestia più piccola, che dappertutto la forza, la potenza, la prepotenza prevalgano: una realtà fatta così non merita di durare. E’ una realtà provvisoria, insufficiente, ed io mi apro ad una sua trasformazione profonda, ad una sua liberazione dal male nelle forme del peccato, del dolore, della morte. Questa é l’apertura religiosa fondamentale, e così alle persone, agli esseri che incontro, resto unito intimamente per sempre qualunque cosa loro accada, in una compresenza intima, di cui fanno parte anche i morti; i quali non sono né finiti né stanno a fare cose diverse da noi, ma sono uniti a noi, cooperanti, a fare il bene, i valori che facciamo, e che nessuno può vantarsi di fare da sé. Così anche chi é, per ora, sfinito, pallido, infermo, e pare che non faccia nulla di importante; anche chi é sfortunato, pazzo (per ora), é una presenza e un aiuto unito a tutti. La religione é semplicemente un insieme di pensiero e di azione, di principi e di atti (che possono anche accrescersi e variare) allo scopo di preparare e formare in noi l’apertura religiosa. Ma ciò che conta non é di avere sempre la religione, ma che venga una realtà liberata che comprenda tutti; e perciò incontriamo ogni persona, ogni essere, senza l’apprensione che possa finire, e con la gioia di essere in seguito sempre più uniti e cooperanti, verso delle realtà aperte che non possiamo descrivere".

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Che cos’era religione per Capitini? Era, diceva, "la coscienza appassionata della finitezza [dei limiti che sono la possibilità del peccato, del dolore, della morte] e il superamento della finitezza stessa". Questa "persuasione", punto di partenza e non di arrivo, ha fatto di Capitini un "servo, credente, sacerdote, profeta [sinonimi di persuaso], della realtà di tutti, che dal di dentro tramuta la realtà inaccettabile". Interessa, della religione, quanto essa possa aiutare a modificare, a cambiare, quanto possa contribuire a una liberazione che comprende tutti. "Perciò la mia vita religiosa avrà due caratteri essenziali: 1) si aggiungerà al mondo circostante come contributo che vuole arricchire e non opprimere; 2) sarà aperta a tutto ciò che possa incontrare per approfondire, rivedere, ascoltando e parlando, e non con la pretesa di soltanto parlare e rivelare". Da questo discendono azioni, pratiche, interventi, che si concentrano nell’idea di una nonviolenza attiva, che nasce dalla "non-paura", uno stato d’animo e una persuasione che saranno i religiosi, i persuasi, a dover diffondere; ed é, aggiungeva Capitini, "una vergogna per noi che i governi abbiano paura dei rivoluzionari politici e non dei religiosi. E’ una vergogna che avvengano guerre senza che i religiosi contrappongano e dispieghino il metodo nonviolento". Se il religioso non sente questa duplice vergogna, é meglio che cessi di parlare di religione. Fatto religioso, essenza religiosa la nonviolenza lo é in quanto "la nonviolenza non é soltanto una cosa della vita e nella vita. Nel suo sforzo continuo di migliorare il rapporto tra gli esseri, e di congiungere più saldamente la vita del singolo con la vita di tutti, avviene effettivamente un’influenza sulla così detta ’naturà, che é la vitalità, la volontà di forza, di vita come vita, come piacere, come guadagno e profitto, come potenza, come riposo utile, come schiacciante energia dal seno stesso della realtà fisica. Il Vesuvio sterminatore osservato dal Leopardi e che uccise tanta gente; l’acqua di un’inondazione, che copre indifferente un sasso e il volto di un bambino, sono aspetti della natura. Ma natura é anche la vitalità che spinge il bambino a nascere e a crescere; la forza che ci affluisce ogni giorno mediante il cibo, il riposo, l’aria. Non si può tagliare da noi tutta la natura; ma si può scegliere: o svilupparci come bruta natura, o svilupparci come crescente nonviolenza verso gli esseri, rimediando la crudeltà della natura e proseguendola nel buono, nel vivo, trasformandola progressivamente. Perché al limite estremo c’é la sua trasformazione e il suo portarsi al servizio di tutti gli esseri affratellati. Un atto di nonviolenza é perciò anche un atto di speranza in questa trasformazione della cruda forza della natura".

La nonviolenza, però, é anche un programma politico, che distingue i suoi "persuasi" dai "militanti" della sinistra tradizionale. Certo, si può essere, nel gruppo dei nonviolenti, "il persuaso religioso della compresenza". Ma se non si tendesse a diventare tutti tali, ciò toglierebbe alla nonviolenza la sua più intima carica, la ridurrebbe a un metodo politico importante ma limitato. Senza "religione" la nonviolenza non sarebbe altro che un insieme, lodevolmente radicale, di tecniche d’intervento politico; il suo orizzonte rimarrebbe quello di un insieme di mezzi per la politica, o per la conquista del potere, e avrebbe obiettivi troppo realistici per modificare la realtà nelle sue ingiustizie originarie.

Che cosa caratterizza e definisce la politica di un gruppo nonviolento? Il gruppo nonviolento "1) si sente impegnato, nella contrapposizione al sistema, al potere, al meglio nella condotta e in ogni agire in modo che cada più evidente la squalifica di merito sul potere; 2) essendo convinto che la sacralità é fuori del potere, vede negli umili, sfruttati, oppressi, colpiti, proprio estranei al sistema del potere e della potenza, qualche cosa di infinitamente nobile, che rappresenta la vera realtà di tutti; 3) e vede negli altri, quelli del potere e della potenza, un rapporto con la realtà di tutti anche se a loro non presente; quindi conduce le lotte della rivoluzione aperta nonviolenta sapendo che negli avversari c’é una possibilità, e perciò non li distrugge; 4) distingue... il potere senza governo, quel potere di tutti che in tanti modi può essere, attivamente e coordinatamente, rafforzato dai nonviolenti mediante l’incoraggiamento a prender posizione, a controllare, a collegarsi, a formare comunità, a sacrificarsi".

Ciò che sembra mancare ai nonviolenti di oggi é proprio questo empito "religioso", ed é forse questo che limita gli effetti della loro azione, la portata del loro richiamo, l’influenza del loro modello. La nonviolenza é diventata soltanto politica. Un piccolo, significativo volume di questi mesi intitolato appunto "Nonviolenza" (Fazi) porta come firma principale quella di Fausto Bertinotti. E’ un pamphlet politico che sembra escludere il religioso e cioé la "persuasione" capitiniana. A questa sinistra che a malapena cita Aldo Capitini viene da dire: provate a leggerlo e meditarlo, Capitini, per davvero; oppure: cercate, paradossalmente, di tirare le conseguenze che stanno a monte dei vostri discorsi, pena la perdita di efficacia della vostra nonviolenza, una formula tra tante con il sospetto di una sorta di nuovo marchio pubblicitario per discorsi che non investono davvero le pratiche politiche di sempre.

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Più serie e forse necessarie sono state, così poco discusse dai movimenti, le obiezioni alla nonviolenza di un filosofo contemporaneo di Capitini, Guenther Anders, quello del "Pilota di Hiroshima", di "Noi, figli di Eichmann", di "L’uomo é antiquato", attivo sin dal primo dopoguerra in tante imprese di ripudio della guerra, di denuncia del ritorno della guerra, di domande sulla realtà presente e sui modi di reagire alle sue storture. Anders aveva molto chiaro cosa il potere é andato facendo del mondo, e dell’uomo. Se Capitini poteva sembrare a volte condizionato da una visione troppo italiana, Anders ha avuto il vantaggio (o svantaggio!) di essere cresciuto nella Germania di Weimar a contatto con alcuni tra i maggiori filosofi del secolo, da Heidegger ad Arendt ad Adorno, e di essere stato ebreo, errante nell’esilio negli anni del nazismo, costretto a confrontarsi anche con la realtà americana e con un sistema di potere che ha colonizzato, nel XX secolo, più di ogni altro.

Nei suoi ultimi anni di vita - é morto a Vienna nel ’92 - Anders ha finito per alienarsi la simpatia dei movimenti pacifisti di cui era stato uno degli iniziatori e teorici, perché ha osato parlare delle loro manifestazioni come di inutili happenings, di sfilate salutiste domenicali, di marce di autosoddisfazione, di nuove forme di spettacolarità sociale, nel mentre che il potere - oggi la finanza, con la politica e la scienza al suo servizio - andava e va modificando le condizioni di vita sul pianeta rendendo probabile per la prima volta nella storia la fine della vita, la distruzione di tutto. Grazie all’aggressione e alla distruzione della natura in cui viviamo, alle mutazioni radicali cui andiamo assistendo senza reagire, sostanzialmente complici. Si pensi all’uso e abuso dell’automobile, feticcio universale, insidiosa portatrice di morte per noi e per l’ambiente. Per Anders la risposta nonviolenta é obsoleta, é inefficace perché sono fiacchissime le sue azioni rispetto alla terrificante capacità di portar morte che ha la sua controparte, un potere che bada solo ai suoi interessi immediati e che sa come truccare le carte, come manipolare e convincere noi, suoi sudditi, attratti da quegli immediati vantaggi che esso sa offrirci. Questo sarà presto il futuro, dice Anders: "nei cimiteri in cui riposeremo nessuno verrà a piangerci, perché i morti non possono piangere altri morti". E ancora: "Per me la pace non é il mezzo, ma il fine. Non sopporto più di vedere che ce ne stiamo con le mani in mano, mentre assieme ai nostri discendenti veniamo esposti al pericolo di morte da parte di uomini violenti; non sopporto più di vedere che abbiamo paura di impiegare la violenza contro la violenza che ci minaccia. L’affermazione di Hoelderlin, citata tanto volentieri dai retori della domenica, quella secondo cui là dove il pericolo minaccia é prossimo anche il principio della salvezza, é semplicemente non vera: ad Auschwitz e a Hiroshima é noto che non si é avvicinato nulla di salvifico. E’ compito nostro impegnarci come salvatori: dunque annientiamo il pericolo mettendo in pericolo gli annientatori... L’uso della violenza da parte nostra può essere introdotto sempre solo come mezzo disperato, sempre solo come controviolenza, sempre solo come provvisorio... Noi siamo obbligati da questo stato di necessità a rinunciare alla nostra rinuncia alla violenza. In altri termini: in nessun caso possiamo abusare del nostro amore per la pace per offrire a chi non ha scrupoli l’opportunità di annientare noi e i nostri discendenti. Guardare impassibilmente negli occhi il pericolo e, nello stesso tempo, starsene con le mani in mano, come fa il 90% dei nostri simili, non é prova di coraggio e neppure di valore, ma di servilismo".

Non seguiremo Anders sul suo finale terreno (per noi, come per Capitini e per Gandhi, la coerenza nel rapporto tra i fini e i mezzi é decisiva per ogni proposta politica rispettabile) ma la sua critica é stata così provocatoria da venir semplicemente ignorata, cioé censurata, dai movimenti pacifisti e nonviolenti, e va invece affrontata. (Una parentesi necessaria: Capitini, sia chiaro, era un nonviolento, solo di conseguenza era un pacifista, non era prima un pacifista e poi un nonviolento, e le sue critiche al pacifismo non furono meno severe di quelle di un Anders, a quel pacifismo che non mette in discussione e non contribuisce a mutare lo status quo di situazioni e paesi dove l’ingiustizia e l’oppressione sono dominanti). Noi abbiamo il vantaggio (lo svantaggio!) di parlare dopo l’11 settembre, quando l’analisi di Anders sui pericoli che corre il mondo non può che venir mutata in peggio, e renderci ancora più disperati, facendoci tremare di fronte alla inarrestabile degradazione dei rapporti internazionali, all’accrescimento della violenza e della disumanizzazione ulteriore degli scontri. In qualche modo, non possiamo che essere ancora più pessimisti di Anders nell’analisi, e però, proprio per questo, dovremmo essere più decisi nel considerare i rischi che dobbiamo correre, la sfida che dobbiamo accettare - ultima, direbbe Anders, e destinata con molta probabilità all’insuccesso; ma proprio per questo, perso per perso, sconfitti per sconfitti, che almeno si tenga fede alla nostra persuasione come direbbe, forse, Capitini!

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Quando nel dopoguerra Capitini lavorò al "Movimento di religione" assieme a Ferdinando Tartaglia, il rapporto tra i due, la loro differenza impedì che esso crescesse e durasse, l’uno, Capitini, così attento alla "aggiunta religiosa", alla religione vissuta anche come progetto etico e pratico - la nonviolenza, la solidarietà, la compresenza, il concreto dei bisogni fuori da ogni ipotesi sistematica, totalizzante e "partitica"; l’altro, Tartaglia, fondamentalmente metafisico, nella sua ricerca della "novità", e fondamentalmente pessimista nella possibilità dell’uomo di dare il meglio e di farcela. Quella di Capitini era una visione sostanzialmente positiva, le sue radici pescavano nei dubbi dei Kierkegaard e dei Leopardi, mentre quella di Tartaglia era una visione sostanzialmente negativa, e per questo di estrema radicalità, "apocalittica". Oggi, ci può perfino, a noi che abbiamo ascoltato Capitini, apparire più attuale la seconda della prima. Poiché la prima, così legata alla storia e alla possibilità di modificarla, ha verificato nel tempo tutte le sue difficoltà; e però é ancora alla prima che noi ci rivolgiamo poiché non ci soddisfano le invocazioni e le attese di chissà quali altre grandi trasformazioni, né la così grande sfiducia nelle possibilità dell’uomo di liberare la storia o almeno di viverla nel rischio, e perché abbiamo dato per acquisito, con Capitini, il "non accetto", la ribellione contro la realtà, e tanto più contro la contingenza storica, tanto più contro il destino cui il potere ci costringe, e il conformismo che ne consegue.

Eppure della seconda visione, quella di Tartaglia, in termini meno metafisici dei suoi, ci sentiamo costretti ad apprezzare maggiormente la disperazione. Come ha affermato Heinrich Boell, solo chi davvero é disperato può avere il senso, l’intuizione della speranza. I più chiamano oggi speranza il loro attaccamento alla vita: un loro eterno presente benestante che in verità ha rinunciato al futuro, così come la cultura italiana di questi anni ha rinunciato a ragionare sul futuro (ma, a ben vedere, anche sul presente e anche sul passato...). Ma possiamo rimproverare a Capitini la speranza? Sarebbe davvero eccessivo! Ma sarebbe anche ipocrita non ricordare come, oggi, di speranza praticabile se ne veda in giro poca. Il suo "non accetto" assume allora, proprio per questo, il senso di una sfida sempre più alta e sempre più ardua. Ora davvero tragica, assai più, forse, di quella tartagliana che, non a caso, finì per ritrovar rifugio e conforto nella consueta eterna madre, la Chiesa.

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Pensare cosa direbbe e farebbe oggi Capitini é abusivo, e allora bisognerà abbandonare Capitini e parlare di noi, suoi amici e allievi, diretti e indiretti, e di come ci sia impossibile oggi "accettare" lo stato di cose presente: gli scontri militari e religiosi tra civiltà contrapposte, il rapporto Nord-Sud del mondo, le guerre locali, la violenza, l’alienazione, la "stupidità" di massa, l’ipocrisia occidentale, e in particolare la nostra stessa ipocrisia, il nostro non volerci guardare nello specchio - movimenti e associazioni e volontari e pacifisti e la sinistra tutta - e tanto meno in quello più grande e panoramico che ci vede dentro un preciso contesto, dentro una precisa rete di privilegi e di complicità. Come per molti altri maestri e "maggiori", anche assai diversi tra loro, spaziando da Gobetti a Salvemini, da don Milani al pastore Vinay, da Malatesta ad Alex Langer, si deve tornare a parlare di volontarismo etico, di un atteggiamento che ha per base la convinzione dei doveri (anche dei diritti). Si deve inoltre parlare dell’assoluto bisogno di un incontro tra la quantità di piccole esperienze in corso (benché "recuperate" tramite leggi e sostegni condizionati e l’affermazione al loro interno di una nuova burocrazia autoreferenziale e autoprottettiva) e delle analisi, e una teoria; perfino di "pensiero e azione" secondo antichi connubi che si ritenevano un tempo indispensabili ma che, oggi, vedono la scarsa incidenza delle pratiche anche per causa della povertà delle teorie e i vicoli ciechi, i poveri sbocchi e successi delle azioni per l’assenza di un quadro di riferimento più vasto e convinto, di un "pensiero"... Gli immani fallimenti di questo secolo, il fallimento del comunismo ma anche della socialdemocrazia, si sono allargati fino alla democrazia, stravolta dalla difesa di privilegi chiamati diritti dentro maggioranze consenzienti e incontentabili.

E le minoranze? Nell’osmosi del tutti-dentro e del tutti-verso-il-centro, nella incapacità che dimostrano di sentirsi estranee al potere e ai suoi meccanismi, di praticare non-consumismo e disobbedienza civile, in Italia esse hanno una vita più rosea e insieme più larvatica ed effimera che altrove. Sono tante, ma quasi tutte risucchiate ossessivamente nell’orbita del sistema, perché sempre vicine al potere, sofferenti quando ne stanno lontane e non ne vengono riconosciute, approvate, foraggiate, rappresentate! Nessuno si vuole sentire solo all’opposizione, in Italia, tutti tendono al governo, tutti hanno qualcosa da chiedere alla mamma-potere, alla mamma-politica che in cambio chiede loro moltissimo, con il risultato di un paese sfibrato, privo di minoranze robuste per quanto piccole e dotate di un’identità originale e forte, estranee al pastone collettivo del reciproco riconoscimento e delle prebende.

In questo quadro potrebbe ancora incidere l’esempio capitiniano, se il richiamo alla sua opera non é solo rituale. Pacifisti e nonviolenti dovrebbero finalmente procedere a un’autoanalisi dura, nell’esame di ciò che avrebbero potuto fare di più e meglio, un’autoanalisi indispensabile per tutti coloro che ritengono di non poter accettare lo stato di cose presenti e il ruolo loro affidato dal sistema politico, di tappabuchi e rimediatori di disastri o di blandi rammentatori dei problemi. E occorrerebbe soprattutto chiedersi quale nostra azione può meglio contribuire alla costruzione di un’alterità affermativa, fattiva. Su questo piano credo che, prima ancora che di nonviolenza, oggi occorrerebbe parlare di qualcosa che appare perfino più delicato e insieme più "politico": la non-collaborazione, la differenza che si stabilisce nel fare, non accettando regole del gioco che non condividiamo, che non ci appartengono. Immaginare nuove forme di lotta a partire da queste persuasioni non dovrebbe essere così difficile, se ci si liberasse del ricatto della politica...

Personalmente, dovessi dire quale dei grandi maestri del nostro passato recente mi é servito da punto di riferimento quasi al pari di Capitini, direi che sul fronte della politica e del laicismo, quando la parola laico non era stata ancora così deprezzata e svilita dai partiti e dai media, dai modelli correnti, quel maestro é stato Gaetano Salvemini, laico, socialista, meridionalista. Il suo motto era antico, ed era: "fà quel che devi, accada quel che può". Ho sempre cercato di tener fede a questo motto, ma vi ho sempre avvertito anche qualcosa di troppo individualistico, magari di un’eroica solitudine che non mi si confaceva fino in fondo. E’ pensando a Capitini (e al Nuovo Testamento, la cui morale "si presenta come esortazione, consolazione, incoraggiamento", dicono i teologi più avvertiti, e il cui messaggio é per loro "non tu devi, ma tu puoi portare frutto nello spirito"), é pensando a Capitini che immagino la gioiosa fatica di sollecitatori che nello stesso tempo non rinunciano a denunciare, a studiare, a chiarire, a rompere le scatole al potere e ai retori (che sono il contrario dei persuasi) e ai loro complici. Quest’opera di sollecitazione andava per Aldo di pari passo con l’azione nonviolenta. "Amare, rinascere insieme, a cielo aperto". Forse non c’é nulla di così attuale e di così inattuale allo stesso tempo, di così disperato e di così pieno di carità e di "ben fare". Perderemo? Si é già perduto, ci ricorda Anders, ma forse proprio per questo si può, e non solo si deve, essere esigenti e lucidi come non mai, si può e si deve stare nella storia e nel mondo il più attivamente che ci é possibile, chiedendo alle nostre forze il massimo così come Capitini ha chiesto alle sue. Come lui, senza cedere ai ricatti della storia e della realtà.

Tratto da
LA NONVIOLENZA E’ IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 942 del 27 maggio 2005



Lunedì, 30 maggio 2005