Sin dall’invasione americana dell’Iraq sono stati uccisi circa 650.000 iracheni, con le bombe, le esecuzioni sommarie, la guerra civile, gli attacchi aerei. Ora bisogna aggiungere un’altra vittima per impiccagione: Saddam Hussein. Mentre era in vita, anche in prigione, ha ispirato molti suoi seguaci a combattere per la sua causa; ma la sua morte senza dubbio scatenerà una maggiore violenza, non soltanto da parte dei restanti luogotenenti ed ufficiali del partito Baath, ma anche da parte della comunità araba-sunnita in Iraq. L’esecuzione di Saddam ha allontanato ancora di più la speranza di una riconciliazione sunnita-sciita, ha infuocato gli animi da ambo le parti ed ha cristallizzato l’immagine degli USA in Iraq come quella di un occupante sanguinario. Incarcerato per crimini di guerra da un regime-fantoccio iracheno, Saddam Hussein fu incolpato dai suoi più accaniti oppositori - come Kanan Makiya, autore della “Repubblica del Terrore”, ed altri con validi motivi per gonfiare l’ampiezza dei suoi crimini - dell’omicidio di 300.000 iracheni durante i 35 anni di dittatura (1968-2003). In meno di quattro anni, George W. Bush è riuscito a raddoppiare il numero delle vittime, senza batter ciglio. Le 655.000 vittime statunitensi in Iraq non includono le migliaia di iracheni, per la maggior parte bambini, morti durante i dodici anni delle sanzioni imposte dagli USA all’Iraq tra il 1991 ed il 2003; ma a quelle morti, almeno, è stata data una parvenza di legalità, poiché le sanzioni erano state approvate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La guerra di Bush contro l’Iraq non ha avuto lo stesso beneplacito: venne bollata come “illegale” da Kofi Annan, l’ex Segretario Generale dell’ONU. In una dichiarazione scritta prima dell’impiccagione di Saddam, Bush ammoniva: “La sua morte non metterà fine alle violenze in Iraq”. Mai parole furono più veritiere. Dalla sua cattura, non essendo più il dittatore dell’Iraq, Saddam è diventato il simbolo della lotta di potere tra gli arabi sciiti e la resistenza sunnita, le cui armate controllano la maggior parte delle province a nord-ovest della capitale, con qualche roccaforte significativa anche in alcuni quartieri di Baghdad. La sua morte indurrà certamente i religiosi sciiti ad intensificare la loro jihad, convincendoli ancora di più della giustezza della propria causa. Ma, cosa ancor più importante, l’esecuzione di Saddam scatenerà anche un desiderio di vendetta tra gli arabi sunniti, e non soltanto tra i veterani del Baath. I comandanti e gli organizzatori dell’insurrezione provengono per la maggior parte dal disciolto esercito iracheno, dal corpo degli ufficiali e dai veterani, che erano in larga misura sunniti. Ma il loro zoccolo duro si trova tra le tribù ed i clan ad ovest, nell’Iraq sunnita; dall’invasione americana, i figli di quelle tribù si sono sempre più spesso arruolati nell’esercito della resistenza, spesso nonostante lo sgomento di alcuni membri anziani e conservatori dei clan. Una schiacciante maggioranza della popolazione araba sunnita dell’Iraq oggi sostiene la resistenza, la cui intensità crescerà ancora di più dopo la morte di Saddam Hussein. All’inizio dello scorso anno, 300 leader tribali sunniti si sono incontrati ad al-Anbar per chiedere il rilascio di Saddam; si tratta di una semplice indicazione utile a comprendere quanto l’ex leader fosse sostenuto. “L’esecuzione di Saddam implicherebbe il divampare del fuoco della vendetta, che colpirebbe il corpo dell’Iraq con ferite inguaribili”, ha dichiarato un leader sunnita al New York Times. Indubbiamente, nonostante si parli di un aumento massiccio delle forze USA per pacificare Baghdad, la battaglia più agguerrita si combatte a nord e ad ovest della capitale, nel cuore dell’Iraq sunnita. Il 24 dicembre, un commando statunitense ha annunciato la morte di altri tre marines e due militari in quella zona, portando a 108 il numero delle vittime americane: si è trattato del mese più sanguinoso del 2006. Meno di un anno fa, le truppe statunitensi dichiararono che la guerra contro l’Iraq era persa militarmente e che doveva essere risolta attraverso un accordo politico tra i sunniti, gli sciiti ed i curdi. Ora gli Stati Uniti si trovano davanti ad una dura scelta: o abbandonare al-Anbar o affrontare anni di campagne repressive che utilizzerebbero uno stile-Falluja, con combattimenti casa per casa, in dozzine di città e villaggi. Un accordo politico per la riconciliazione nazionale sarebbe stato difficile da raggiungere, anche prima dell’esecuzione di Saddam. Il blocco religioso sciita avrebbe potuto condannare Saddam all’ergastolo, come parte di un accordo che avrebbe previsto l’amnistia per i ribelli, l’eliminazione delle draconiane leggi di de-baathificazione, la ricostituzione dell’esercito ed una formula che consentisse un’equa spartizione delle risorse petrolifere irachene. Ma ora questa possibilità è perduta per sempre. Tuttavia, anche qualcos’altro è andato perduto. Dalla sua cattura nel 2003, Saddam è stato interrogato dagli ufficiali USA, inclusi quelli della CIA. Secondo alcune fonti vicine alla resistenza, i responsabili dell’amministrazione USA, inclusi il Segretario di Stato Condoleezza Rice e l’ex Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, si incontrarono con Saddam all’inizio dell’anno per chiedergli di cooperare, intimando alla resistenza di deporre le armi. (Saddam si rifiutò.) Ma qualunque cosa sia accaduta tra Saddam ed i responsabili USA dal giorno della sua cattura, non è stata resa pubblica. Nemmeno un giornalista ha intervistato Saddam. Per quanto ne sappiamo, non ha lasciato alcuna memoria in prigione. Gli innumerevoli segreti che conservava riposeranno con lui nella tomba; decenni di storia sono andati perduti, irrimediabilmente. Forse una delle ragioni per la forsennata corsa alla forca, era che i segreti di Saddam non vedessero la luce del giorno. http://www.middle-east-online.com/english/opinion/?id=19037
Venerdì, 12 gennaio 2007
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