OLTRE IL VIETNAM

di Martin Luther King

[Ringraziamo Fulvio Cesare Manara (per contatti: philosophe0@tin.it) per averci messo a disposizione l’antologia di scritti e discorsi di Martin Luther King da lui curata, Memoria di un volto: Martin Luther King, Dipartimento per l’educazione alla nonviolenza delle Acli di Bergamo, Bergamo 2002, che reca traduzioni di discorsi e scritti del grande maestro della nonviolenza.

Il testo seguente é quello del discorso tenuto nella chiesa di Riverside, New York, 4 aprile 1967.]



Credo che il cammino dalla chiesa battista di Dexter Avenue - la chiesa di Montgomery, nell’Alabama, dove ho cominciato il ministero pastorale -, conduca proprio qui, al santuario dove ci troviamo stasera.

C’é un nesso molto evidente e quasi elementare fra la guerra in Vietnam e la lotta che io e altri abbiamo intrapreso in America.

Qualche anno fa, quella lotta ha visto un momento luminoso: é sembrato che per i poveri - neri e bianchi - ci fosse una promessa concreta di speranza, grazie al programma contro la povertà.

Ci furono esperimenti, speranze, nuove aperture.

Poi cominciò a crescere la tensione nel Vietnam, e io ho visto questo programma frantumarsi e svuotarsi, come se fosse l’ozioso balocco politico di una società impazzita per la guerra.

E ho capito che l’America non avrebbe mai investito i fondi e le energie necessarie a riabilitare i suoi poveri, finché le avventure come il Vietnam avessero continuato a risucchiare uomini e talenti e denaro come una sorta di pompa aspirante, demoniaca e distruttiva.

Perciò mi sono visto sempre più costretto a considerare la guerra un nemico dei poveri e in quanto tale ad attaccarla.

Forse é stato un più tragico riconoscimento della realtà quando ho capito che la guerra faceva assai di più che devastare le speranze dei poveri in patria.

La guerra mandava i loro figli e fratelli e mariti a combattere e a morire in una percentuale straordinariamente superiore alla loro consistenza proporzionale nella popolazione.

Stavamo prendendo i giovani neri che la nostra società aveva mutilato, e li mandavamo a quindicimila chilometri di distanza, per garantire nel Sudest asiatico libertà a cui essi stessi non avevano accesso nel Sudovest della Georgia o a Harlem est.

E così ci siamo trovati più volte di fronte alla crudele ironia di vedere sugli schermi televisivi ragazzi neri e bianchi che uccidono e muoiono insieme, per un paese incapace di farli sedere insieme nei banchi delle stesse scuole.

E così li vediamo affiancati e solidali nella brutalità, mentre incendiano le capanne di un povero villaggio, ma ci rendiamo conto che a Chicago difficilmente potrebbero abitare nello stesso isolato.

Io non potevo restare in silenzio di fronte a una così crudele manipolazione dei poveri.

Mentre camminavo circondato di giovani arrabbiati, disperati, rifiutati, dicevo loro che i fucili e le bombe molotov non avrebbero risolto i loro problemi.

Ho cercato di far sentire loro la mia più profonda compassione, insieme sostenendo la convinzione che i mutamenti sociali si producono nel modo più significativo attraverso l’azione nonviolenta.

Ma loro mi chiedevano, e giustamente: "E il Vietnam, allora?".

Mi chiedevano se non era forse vero che il nostro paese impiegava la violenza in dosi massicce per risolvere i problemi, per produrre i cambiamenti desiderati.

Le loro domande coglievano nel segno; io sapevo che non avrei mai più potuto alzare la voce contro la violenza degli oppressi nei ghetti senz’aver prima parlato chiaro al maggior fornitore di violenza del mondo di oggi: il mio stesso governo.

Per amore di quei ragazzi, per amore di questo governo, per amore delle centinaia di migliaia di esseri umani che tremano sotto la nostra violenza, non posso tacere.

* Ora, dovrebbe essere chiaro fino all’incandescenza come nessuno, che abbia in qualche modo a cuore l’integrità e la vita dell’America di oggi, possa ignorare questa guerra.

Se l’anima dell’America resterà del tutto avvelenata, nell’autopsia si potrà leggere anche la parola "Vietnam".

L’anima dell’America non si potrà salvare finché continua a distruggere le più radicate speranze degli uomini di tutto il mondo.

E così, quelli fra noi che sono ancora convinti che l’"America deve esistere" devono incamminarsi sul sentiero della protesta e del dissenso, lavorare per la salvezza della nostra terra.

Come se non bastasse il peso di un simile impegno in nome della vita e della salvezza dell’America, nel 1964 mi é stato imposto un nuovo fardello di responsabilità; e non posso dimenticare che il premio Nobel per la pace era anche un incarico, l’incarico di lavorare con più impegno che mai per la fratellanza degli uomini.

Questa vocazione mi porta a superare i doveri della fedeltà nazionale.

Ma anche in mancanza di questo, dovrei pur sempre vivere con il senso del mio impegno di ministro di Gesù Cristo.

Per me é talmente evidente il rapporto che lega questo ministero al dovere di costruire la pace, che talvolta mi stupisco che mi si domandi come mai parlo contro la guerra.

Com’é possibile che i miei interlocutori non sappiano che la Buona Novella si rivolge a tutti gli uomini: ai comunisti e ai capitalisti, ai loro figli e ai nostri, ai neri e ai bianchi, ai rivoluzionari e ai conservatori? Hanno dimenticato che il mio ministero é istituito in obbedienza a Colui che ha amato i suoi nemici al punto di morire per loro? E allora, che cosa posso dire ai vietcong, o a Castro, o a Mao, in qualità di ministro fedele di Costui? Posso minacciarli di morte, o non dovrò invece condividere con loro la mia vita? Infine, mentre cerco di spiegare a voi e a me stesso il percorso che da Montgomery conduce a questo luogo, darei la spiegazione più valida se dicessi semplicemente che devo restare fedele alla mia convinzione di condividere con tutti gli uomini la vocazione a essere figlio del Dio vivente.

Al di là del richiamo della razza o della nazione o del credo religioso, vale questa vocazione filiale e fraterna.

Proprio perché credo che il Padre si prende cura in modo particolare dei suoi figli sofferenti e impotenti e reietti, stasera sono venuto a parlare per loro.

Credo che in questo consista il privilegio e il fardello che tutti noi, che ci riteniamo vincolati da fedeltà e lealtà più vaste e più profonde del nazionalismo e tali da oltrepassare e sopravanzare le mete e le posizioni che la nostra nazione fissa per se stessa, dobbiamo aspettarci.

Siamo chiamati a parlare per i deboli, per chi non ha voce, per le vittime della nostra nazione, per coloro che essa definisce "il nemico", perché non esiste documento di mano umana che possa rendere questi esseri umani meno che nostri fratelli.

* La guerra in Vietnam non é che il sintomo di un malessere assai più radicato nello spirito americano, e se ignoreremo queste realtà che ci obbligano a riflettere, nella prossima generazione ci ritroveremo a organizzare altri "comitati del clero e dei laici preoccupati": si preoccuperanno per il Guatemala e il Perù, per la Thailandia e la Cambogia, per il Mozambico e il Sudafrica.

Ci toccherà scendere in corteo per questi nomi e per una dozzina d’altri, andare a infiniti raduni e manifestazioni, se non si verificherà un cambiamento significativo e radicale nella vita e nella politica americana.

E dunque questi pensieri ci portano oltre il Vietnam, ma non oltre la nostra vocazione di figli del Dio vivente.

Nel 1957, un funzionario americano dotato di sensibilità disse che secondo lui il nostro paese sembrava situato sul versante meno vantaggioso di una rivoluzione mondiale.

Negli ultimi dieci anni abbiamo visto affiorare uno schema di repressione che oggi giustifica la presenza di consulenti militari statunitensi in Venezuela.

La necessità di mantenere la stabilità sociale per favorire i nostri investimenti spiega l’opera controrivoluzionaria compiuta dalle forze americane nel Guatemala; spiega come mai contro i guerriglieri cambogiani si usino elicotteri americani, come mai contro i ribelli in Perù siano già stati usati napalm americano e le truppe dei Berretti Verdi.

Riflettendo su queste attività, le parole del compianto John F.

Kennedy tornano a ossessionarci; cinque anni fa Kennedy disse: "Coloro che rendono impossibile la rivoluzione pacifica renderanno inevitabile la rivoluzione violenta".

Per scelta o per caso, la nostra nazione si é investita sempre più spesso di questo ruolo: il ruolo di coloro che rendono impossibile una rivoluzione pacifica, rifiutandosi di rinunciare ai privilegi e ai piaceri derivanti dagli immensi profitti degli investimenti in tutto il mondo.

* Io sono persuaso che se vogliamo passare al versante positivo della rivoluzione mondiale, come nazione dobbiamo compiere una radicale rivoluzione dei valori.

Dobbiamo al più presto cominciare a passare da una società orientata alle cose a una società orientata alle persone.

Finché considereremo le macchine e i computer, le motivazioni del profitto e i diritti di proprietà più importanti delle persone, i tre giganti del razzismo, del materialismo estremo e del militarismo non potranno mai essere sconfitti.

Una vera rivoluzione dei valori ci indurrebbe ben presto a mettere in discussione l’equità e la giustizia di molte nostre scelte politiche del presente e del passato.

Da un lato siamo chiamati a operare come il buon samaritano sul ciglio della strada della vita, ma questo é soltanto il principio: un giorno dovremo arrivare a capire che bisogna trasformare l’intera strada per Gerico, in modo che gli uomini e le donne non continuino ad essere picchiati e rapinati mentre sono in viaggio sull’autostrada della vita.

La vera compassione non si limita a gettare una moneta al mendicante, ma arriva a capire che, se produce mendicanti, un edificio ha bisogno di una ristrutturazione.

Una vera rivoluzione dei valori guarderebbe ben presto con disagio al violento contrasto fra povertà e ricchezza.

Con l’indignazione del giusto, getterebbe lo sguardo oltre i mari, e vedrebbe i singoli capitalisti dell’Occidente investire immense somme di denaro in Asia, in Africa, nell’America del Sud, soltanto per ricavarne profitto, senza curarsi affatto del progresso sociale di questi paesi, e direbbe: "Questo non é giusto".

Guarderebbe alla nostra alleanza con i proprietari terrieri dell’America Latina e direbbe: "Questo non é giusto".

Il senso di arroganza tipico dell’Occidente, che crede di avere tutto da insegnare agli altri, e nulla da imparare da loro, non é giusto.

Una vera rivoluzione dei valori metterà mano all’ordinamento mondiale, e della guerra dirà: "Questo modo di comporre i dissidi non é giusto".

Bruciare gli esseri umani con il napalm, riempire le nostre case di orfani e di vedove, iniettare germi velenosi di odio nelle vene di popoli che di norma sarebbero pieni di umanità, rimandare a casa uomini che hanno combattuto in campi di battaglia tenebrosi e sanguinosi e tornano menomati nel fisico e turbati nella psiche: tutti questi atti non possono conciliarsi con la saggezza, la giustizia, l’amore.

Una nazione che continua, un anno dopo l’altro, a spendere più denaro per la difesa militare che per i programmi di elevazione sociale, si avvicina alla morte dello spirito.

L’America, che é la nazione più ricca e potente del mondo, in una rivoluzione dei valori potrebbe certo fare da battistrada.

Soltanto un tragico desiderio di morte ci può impedire di riordinare la nostra scala di priorità, in modo che il perseguimento della pace abbia la precedenza sul perseguimento della guerra.

Niente ci può impedire di usare le mani ferite per plasmare uno status quo recalcitrante fino a trasformarlo in fraternità.

I nostri sono tempi rivoluzionari.

In tutto il mondo gli uomini si ribellano contro antichi regimi di sfruttamento e di oppressione; dalle piaghe di un mondo fragile nascono regimi nuovi ispirati alla giustizia e all’uguaglianza.

I popoli scamiciati e scalzi della terra si stanno sollevando come non mai.

Il popolo che era nelle tenebre ha visto una grande luce [Is, 9, 2].

Noi in Occidente dobbiamo sostenere queste rivoluzioni.

E’ una triste realtà che a causa dell’amore per le comodità, dell’autocompiacimento, di una paura morbosa del comunismo, della tendenza ad adeguarci all’ingiustizia, le nazioni occidentali, che hanno avuto un ruolo da iniziatori per quanto riguarda gran parte dello spirito rivoluzionario del mondo moderno, oggi siano diventate arcicontrarie alle rivoluzioni.

Perciò molti sono stati indotti a credere che soltanto il marxismo possieda spirito rivoluzionario; e, di conseguenza, il comunismo é la punizione che abbiamo meritato per non essere riusciti a tradurre in realtà la democrazia e a portare fino in fondo le rivoluzioni che avevamo iniziato.

Oggi abbiamo una sola speranza: riuscire a riconquistare lo spirito rivoluzionario e uscire in un mondo talvolta ostile dichiarando eterna ostilità alla povertà, al razzismo, al militarismo.

Questo impegno potente ci permetterà di lanciare una audace sfida allo status quo e alle consuetudini ingiuste, e così avvicineremo il giorno in cui "si colmi ogni valle, ogni monte o colle si abbassi, l’erta si cambi in piano e la scabrosità in liscio suolo" [Is, 40, 4].

Un’autentica rivoluzione dei valori significa in ultima analisi che dobbiamo avere una forma di lealtà ecumenica e non settoriale.

Ogni nazione, ormai, deve sviluppare sopra ogni altra cosa una lealtà verso l’umanità, verso l’umanità nel suo insieme, in modo da riuscire a conservare il meglio delle singole società.

* Dobbiamo superare l’indecisione passando all’azione.

Dobbiamo trovare nuovi modi per parlare a favore della pace nel Vietnam e della giustizia in tutti i paesi in via di sviluppo, il cui confine comincia alla soglia delle nostre case.

Se non agiremo, saremo certo trascinati lungo gli oscuri, lunghi e infamanti corridoi del tempo riservati a quanti possiedono potere ma non compassione, potenza ma non moralità, forza ma non giudizio.

Cominciamo.

Rinnoviamo la nostra dedizione alla battaglia per un mondo nuovo, lunga e aspra ma bellissima.

Questa é la vocazione a cui sono chiamati i figli di Dio, e i nostri fratelli aspettano con ansia la nostra risposta.

Diremo che siamo troppo svantaggiati in partenza? Diremo che la lotta é troppo aspra? Il nostro messaggio sarà che le forze della vita americana militano contro la loro possibilità di diventare uomini in senso pieno, e noi inviamo i sensi del più profondo rammarico? Oppure ci sarà un messaggio diverso: di desiderio, di speranza, di solidarietà con le loro aspirazioni, di impegno verso la loro causa, a qualsiasi costo? Tocca a noi scegliere, e anche se forse preferiremmo che non fosse così, dobbiamo scegliere in questo momento cruciale della storia umana.

Tratto da
LA NONVIOLENZA E’ IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 974 del 27 giugno 2005



Martedì, 05 luglio 2005