Il potere vince con una barzelletta

di STEFANO CATUCCI (IL MANIFESTO, 12.02.2004)

La massa di parole che si spendono quotidianamente per commentare le gaffes, le iperboli e le menzogne di Silvio Berlusconi, produce ormai in chi legge un senso di nausea e di impotenza. Le due reazioni sono collegate, perché la nausea deriva anche dal sospetto che ben poco di quel volgare teatro servirà a smuovere le opinioni già consolidate: gli ammiratori del premier continueranno probabilmente a seguirlo nonostante le sue pantomime, mentre chi lo avversa non ha certo bisogno di altre prove a suo carico. C’è sicuramente una vasta terra di mezzo nella quale la patente di inaffidabilità del capo avrà il suo peso, anche in termini elettorali, e verso la quale le armi della critica possono rivelarsi non del tutto inutili. Ma l’insistenza sull’inettitudine personale del Presidente del Consiglio ha evitato, sinora, di porsi una domanda di fondo: da cosa dipende il ridicolo berlusconiano? E’ un fatto da attribuire al suo carattere, è un aspetto del folklore politico nostrano, oppure si tratta di un elemento funzionale al consolidamento del caratterre personalistico del suo potere? Il ridicolo e il grottesco, ha osservato Michel Foucault, sono alcuni fra gli ingranaggi più antichi e perversi dei meccanismi di potere. Da sempre, nella nostra società, la politica si è data la possibilità di produrre i suoi effetti, o addirittura di «trovarne l’origine», in una dimensione che è «volontariamente ed esplicitamente squalificata dall’odioso, dall’infame e dal ridicolo». Esempi della meccanica grottesca del potere si trovano ovunque, nella storia del mondo occidentale, anche se assumono il volto di una vera e propria tecnica della sovranità nell’Impero Romano, dove la figura di chi detiene il potere si identifica spesso con quella di un essere fisicamente e moralmente spregevole. Da Nerone a Eliogabalo, la storia romana è straordinariamente ricca di sovrani al tempo stesso infami e ridicoli, irrisi per il loro modo di comportarsi, di parlare, di vestire, ma non per questo destituiti della loro maestà. Svetonio giunse a distinguere la serie degli imperatori virtuosi (principes) da quella degli imperatori viziosi (monstra) per evidenziare non solo gli eccessi del potere imperiale, ma proprio la logica dell’eccesso alla base di ogni forma di potere fondata, in ultima analisi, sulla maestà della persona. L’immagine letteraria del re Ubu, osserva ancora Foucault, è l’emblema che riassume l’insieme di questi attributi ed è un modello le cui riproduzioni abbondano anche nel corso del XX secolo. Il grottesco di Mussolini, per esempio, apparteneva alla meccanica di un potere «che si dava l’immagine di essere generato da qualcuno teatralmente vestito, disegnato come un clown, come un buffone». E il tremendo grottesco di Hitler, l’uomo che somigliava come una goccia d’acqua alla maschera di Charlot e che nel chiuso del suo bunker chiedeva che tutto, fuori, fosse distrutto e che gli si portassero dei dolci al cioccolato fino a scoppiare, è un altro tragico epilogo della stessa storia.

Che ci si atteggi a clown o che si esprimano desideri spaventosamente ridicoli, la natura dell’autorità grottesca non cambia: «mostrando il potere come abietto, infame, ubuesco o semplicemente ridicolo, non se ne limitano gli effetti». Al contrario, il grottesco e il ridicolo diventano mezzi per manifestare «l’insormontabilità e l’inevitabilità del potere, che può funzionare in tutto il suo vigore» o, eventualmente, in tutta la sua violenza, «anche quando è nelle mani di qualcuno realmente squalificato». Le immagini di Bush che circolavano su Internet appena un anno fa, e che lo mostravano in abiti militari, intento a guardare da un binocolo con le lenti chiuse dai loro tappi, non hanno evitato che la guerra si facesse, né che l’opinione pubblica americana la sostenesse. Nelle società arcaiche, le cerimonie che ridicolizzano il capo potevano avere l’effetto di limitarne il potere. Nella nostra, attraverso il ridicolo passa la percezione dell’inevitabile, dunque di un automatismo del potere opporsi al quale appare vano come discutere con un clown.

Fin qui Foucault: chi volesse, può leggere le sue pagine nel testo di un corso da lui tenuto a Parigi nel 1976 e intitolato Gli anormali, alle pagine 21-23 dell’edizione italiana (Feltrinelli). Proiettate sulla nostra attualità politica, le sue parole hanno un peso particolare. Non c’è dubbio che anche a sinistra molte delle decisioni del governo Berlusconi - in materia di pensioni, di politica del lavoro, della scuola... - appaiano inevitabili, iscritte nella logica degli eventi, e che proprio questa sotterranea consonanza con la parte avversa renda ancora più inefficace la loro polemica contro i vizi del capo.

Non è un buffone

L’editoriale di Valentino Parlato apparso in prima pagina qualche giorno fa, intitolato «Non è un buffone», coglieva precisamente questo stato di cose. Ma c’è qualcosa in più, ci sono almeno due aspetti da considerare. Il primo riguarda il tipo di autorità che veste gli abiti del grottesco: è un’autorità arbitraria, che tende cioè ad assumere su di sé poteri che non gli sono attribuiti per legge, ma che diventano suoi precisamente in forza dello slittamento dal piano del confronto politico a quello del personalismo indotto dalla chiacchiera sull’indegnità del capo. Il ridicolo, in altre parole, è una tecnica, spesso adottata più per istinto che per calcolo, ma comunque funzionale all’idea di fondare il proprio potere personale su una base plebiscitaria non solo costituzionalmente inesistente, ma incompatibile con l’idea di democrazia. Che proprio all’interno degli apparati democratici stia riemergendo, oggi, e non solo in Italia, la figura dell’autorità grottesca, è un segno del pericolo che le nostre società stanno attraversando e nei confronti del quale c’è da sperare che ancora abbia forza un sistema di anticorpi. Il secondo aspetto riguarda l’uso del linguaggio, un elemento che aggiunge qualità al ridicolo berlusconiano e che, di nuovo, mostra quanto le sue gaffes siano uno strumento per l’ottimizzazione di un livello di teatralità attraverso il quale, di fatto, si esprime un’idea intrinsecamente autoritaria della politica. Il linguaggio usato dal potere grottesco ha il dono di staccare l’effetto comunicativo delle parole dal loro significato condiviso, di trasformarle in qualcosa di irriconoscibile, friabile, reversibile a piacere. A decidere il loro senso non è il contenuto che esse esprimono, ma il semplice fatto di pronunciarle e di riaffermare, con l’atto che le ribalta, la distanza incolmabile che separa il potere dal terreno comune sul quale, di solito, si esercita lo scambio linguistico. E d’altra parte, il fatto che un simile virus linguistico si sia diffuso a macchia d’olio e che la stessa reversibilità delle parole abbia contagiato, ormai, sia la maniera di trattare pubblicamente le questioni private, sia il modo di gestire l’economia della produzione, mostra come l’arbitrio sia un bene circolante e non appannaggio di uno solo, dunque che un’ampia misura di grottesco appartenga in modo costitutivo a processi sociali sempre meno rispecchiati dalle forme del linguaggio ordinario e sempre più pronti a rendere flessibili le parole per ricondurle a proprio vantaggio.

Se si vuole una descrizione del modo in cui, a ogni livello, viene praticato il linguaggio da parte dell’autorità ridicola, bisogna riandare alla logica del bipensiero formalizzata da George Orwell e ricordata su queste pagine da Marco d’Eramo: «raccontare deliberatamente menzogne e nello stesso tempo crederci davvero»; «saper applicare il procedimento al procedimento stesso». Ma se si vuole passare al piano di chi quel discorso non lo produce, ma lo subisce, bisogna riconoscere che nel ridicolo e nel grottesco è contenuto sempre un principio di reversibilità che lo rende sfuggente di fronte alle critiche, come se non lo si trovasse mai là dove si pensa di averlo colpito, dato che sposta continuamente il suo terreno d’esercizio.

Il potere grottesco

Bisognerebbe riflettere sul motivo per cui tante energie vengono dedicate, oggi, alla censura di programmi di satira: forse perché il ridicolo dell’autorità vede nelle forme linguistiche della satira non il suo doppio deformante, ma il suo specchio fedele. Forse perché il discorso ubuesco può essere depotenziato solo da quello comico. L’arbitrio del linguaggio, d’altra parte, è l’alleato più fedele del potere grottesco. E poiché è contagioso, rischia spesso di rendere ridicoli anche i discorsi di chi vi si oppone, con l’aggravante che questi sono inefficaci, non producono effetti immediati di potere, e dunque vengono realmente screditati. Questa è la ragione del senso di nausea e di impotenza da cui siamo partiti: sul terreno del ridicolo l’autorità arbitraria si rafforza, mentre i discorsi privi di potere rischiano di squalificarsi quando si lasciano prendere dalla logica ubuesca del ridicolo. Un esempio per tutti è l’infelicissimo manifesto affisso dalla Margherita con il quale si rimproverava a Berlusconi di non essere andato a Nassirya, ma a farsi il lifting. Se ci si limita a ripetere che il capo è un clown, non si fa che accettare il gioco di un potere che tende, per la sua logica interna, a fondare sulle sembianze del grottesco la sua difesa degli interessi personali e la sua stessa sostanza autoritaria. Ed è sul terreno del linguaggio, sulla condivisione di un senso non reversibile da restituire alle parole, che si deve agire con attenzione, se si vuole che la critica non perda di efficacia e non si trasformi in un boomerang.



Giovedì, 12 febbraio 2004