Conoscere l’islam
L’hijab non ha nulla a che fare con la moralità

di Farzana Hassan e Tarek Fatah per “The Globe and Mail”

18 aprile 2007, trad. M.G. Di Rienzo


Ringraziamo Maria G. Di Rienzo[per contatti: sheela59@libero.it]per averci messo a disposizione questa sua traduzione.
Farzana Hassan è la presidente del Congresso musulmano canadese e l’autrice di: “L’Islam, le donne e le sfide dell’oggi”; Tarek Fatah, uno dei fondatori del Congresso musulmano canadese, è l’autore di “Inseguendo un miraggio: uno stato islamico o lo stato dell’Islam”.


In origine un segno di modestia, l’hijab, o sciarpa musulmana per la testa, è divenuto un attrezzo politico. La sua ultima manifestazione in Canada come attrezzo politico è avvenuta questa settimana, con il caso della bambina musulmana di dieci anni che ha rifiutato di toglierselo durante un torneo di “tae kwon do” a cui partecipava, quando il casco di protezione che avrebbe comunque dovuto usare sarebbe servito più che egregiamente allo scopo.
Tutte le donne canadesi hanno, in un determinato momento della loro vita, indossato qualcosa per coprirsi la testa. Durante una nevicata, o sotto la pioggia, non importa di quale religione si sia, coprirsi il capo è cruciale per la propria salute. Nei deserti dell’Arabia, che si fosse musulmani o no, coprirsi la testa ed il volto era un’assoluta necessità, non solo nell’affrontare le tempeste di sabbia, ma per proteggersi dal sole cocente.
Ciò che essenzialmente era un indumento relativo a climi particolari è divenuto un moderno simbolo di sfida. Non c’è un solo riferimento nel Corano che obblighi le donne musulmane a coprirsi i capelli o il volto. Il solo versetto che si avvicina ad un simile codice d’abbigliamento (Sura 24, “La Luce”, verso 31) chiede alle donne credenti di usare le sciarpe con cui si coprono le teste per coprirsi il petto.
Pure, nel giro di due decenni, gli islamisti e i musulmani ortodossi hanno fatto della copertura della testa delle donne la pietra miliare dell’identità musulmana. Hanno spinto perché si considerasse la copertura del capo il segno della devozione e perché solo la versione egiziana e saudita di tale copertura, l’hijab, fosse considerata degna di rispetto. Le coperture originatesi nell’Asia del sud, come sari e dupatta, sono state rubricate come “meno autentiche” dal punto di vista islamico.
E’ vero che, storicamente parlando, le donne musulmane hanno scelto di indossare l’hijab per ragioni di modestia. Oggi, tuttavia, molte lo indossano per ragioni opposte. “Le ragazze si infilano l’hijab e vanno a ballare, con i tacchi alti e il rossetto. Sotto il loro velo ci sono jeans stretti e bassi, fatti apposta per mostrare l’ombelico.”, ha notato di recente la femminista egiziana 75enne Nawal Al-Saadawi. La scrittrice è molto amareggiata dal fatto che la copertura delle teste delle donne, da atto di scelta individuale, sia diventata il definitivo simbolo dell’Islam.
Esso ha infatti assunto un significato politico e religioso che sta dominando il dibattito sulla libertà religiosa ed i diritti civili in Occidente. Ogni opposizione all’hijab è bollata come manifestazione di “islamofobia”. Questo è stato l’argomento usato quando, in Quebec, alla giovane Asmahan Mansour è stato chiesto di toglierselo per partecipare alle partite di calcio della sua squadra.
Un pezzo di stoffa è diventato il soggetto della controversia anche perché chi lo usa proclama di farlo per mandato religioso e pretende la sua iscrizione nelle “carte dei diritti”. Dispensare chi lo usa per lo spazio di una gara sportiva diventa un sacrilegio.
Se ci si prendesse la briga di indagare, invece, si scoprirebbe che il Corano non dà alcun mandato religioso all’hijab. Dovrebbe essere evidente che il khimar, una sciarpa per la testa che precede l’hijab, veniva indossato dalle donne arabe prima delle attestazioni coraniche sulla modestia degli abiti e del comportamento. Il famoso versetto 24:31 non introduce un nuovo capo d’abbigliamento, ma modifica l’uso di uno esistente, poiché dice che le donne musulmane dovrebbero: “indossare le loro coperture per il capo sul petto”, perché precedentemente i seni, per quanto rivestiti di gioielli od ornamenti, venivano lasciati nudi.
L’intento del versetto è esortare le donne che credono a coprire la loro nudità piuttosto che i loro capelli, che erano lasciati parzialmente scoperti anche con l’uso del khimar. Inoltre, il khimar non ha mai avuto base nei precetti religiosi, ma solo nel costume sociale. La modifica del suo uso fu introdotta nella pratica islamica quando la religione si diffuse nei territori bizantini e persiani, dove, di nuovo, la copertura della testa era una pratica sociale. Il khimar era anche un simbolo di classe e distinzione, anziché di religiosità, nella storia pre-islamica e nell’Islam degli inizi: la gerarchia dei costumi sociali, per esempio, prevedeva che le donne schiave non potessero indossarlo. Il secondo califfo dell’Islam, Omar bin Khattab, prescrisse un duro trattamento alle schiave che osassero portare un velo. E di sicuro, se il velo si fosse basato su precetti religiosi, il suo uso non sarebbe stato forzato in modo così selettivo.
Il trasformare l’hijab o il khimar in un’istanza politico-religiosa sconfina assai dai loro scopi originari. Le donne musulmane che così chiassosamente stanno difendendo il suo uso “religioso” dovrebbero fermarsi a considerare la propria storia e la storia del velo, prima di asserire che devono usarlo in nome dell’Islam.
Gli islamisti hanno trasformato l’hijab nel pilastro centrale dell’Islam. Essi considerano le donne musulmane che non coprono le proprie teste, e che sono la stragrande maggioranza, come peccatrici o musulmane di minor valore. Chiediamo loro di farsi avanti e di discutere seriamente, invece di usare le ragazzine musulmane come scudi per la loro agenda politica.



Giovedì, 26 aprile 2007