Sono stato cinque o sei volte a Konya (Iconio) in Turchia e naturalmente ero in quella che è ormai una metropoli di 1.800.000 abitanti per ricordare il duplice passaggio di san Paolo, registrato negli Atti degli Apostoli. Ma ormai quella città reca su di sé unaltra impronta e anchio, durante i miei soggiorni, mi recavo sempre verso il cosiddetto monastero di Mevlana, ridotto a un museo da Atatürk ma ancor oggi tutto impregnato della spiritualità del suo fondatore, il grande mistico e poeta Jalāl al-Dīn Rūmī. Là, infatti, sullonda del suono tenue e tenero del flauto, convergono ancora tanti visitatori che, entrati nella sala ove si erge il sontuoso cenotafio ligneo, sotto la solenne cupola verde, depongono idealmente i trasandati abbigliamenti di turisti per trasformarsi senza volerlo in pellegrini. Accanto a quella tomba si leggono, infatti, questi versi del Mevlana (dal persiano mawlānā, "nostro maestro"): «Fratello, se vieni a visitare la mia tomba, non ti dimenticare la tua bara. Non è giusto addolorarsi per lunione con Dio. Dopo la mia morte non cercare la mia tomba sulla terra: la mia tomba è nel cuore di coloro che sanno». Rūmī, in realtà, era un soprannome che evocava paradossalmente Roma, anche se si trattava di Bisanzio, la "nuova Roma", e del successivo sultanato selgiuchide di Rum che a Konya aveva la sua splendida capitale. Egli, però, era un persiano, nato nel 1207 a Balkh nellattuale Afghanistan e, dopo varie peregrinazioni, era approdato definitivamente a Konya nel 1241: là egli morirà nel 1273, dopo aver radunato attorno a sé quella comunità popolarmente nota come la confraternita dei dervisci danzanti. Alle origini cera la dottrina sufi, espressione di una corrente mistica musulmana dalle molteplici iridescenze, spesso osteggiata dallortodossia sunnita ma sempre viva e vivace, capace di elaborare nel suo grembo i più svariati contributi filosofici, teologici, ascetici e persino scientifici. A questo orizzonte molto fluid o e affascinante è da iscrivere anche il pensiero e la spiritualità di Rūmī. Ora, dopo lanaloga esperienza inglese di R.A. Nicholson e quella francese di E. di Vitray Meyerovitch, è possibile anche al lettore italiano accostare il capolavoro del Mevlana, quellimmenso poema in sei libri, fatto di ben 51.630 versi, il Mathnawī. A condurre in porto limpresa è stata una coppia, Gabriele Mandel Khan e Nur-Carla Cerati-Mandel in un cofanetto dei Tascabili Bompiani, fatto appunto di sei volumetti. Difficile è suggerire una guida di lettura per questo gioiello mistico e poetico: anche lintroduzione - che pure abbonda in informazioni biografiche, storiche e cerimoniali con qualche reiterazione - non offre unattrezzatura ermeneutica e tematica per quello che è simile a un pellegrinaggio testuale. Certo, importante è conoscere il semā (o samā), labbacinante danza rituale che rende i celebranti simili a un fascio rotante di luce: Mandel ne descrive minuziosamente la sequenza con le sue rubriche simboliche, espressioni di unascesa spirituale in Dio e di un ritorno nella storia, recando in sé lorma del divino e la nostalgia dellinfinito. Seguirne la trama cerimoniale - come è accaduto a me nella data emblematica della seconda settimana di dicembre - è unesperienza indimenticabile che non è comparabile a quelle modeste contraffazioni rifilate a ingenui spettatori occidentali da compagnie di ballo che nulla hanno da spartire con questo che rimane un rito e una sorta di orazione totale in cui corpo e anima sono coinvolti, avvolti e travolti dal sacro. Ma ciò che è importante è affrontare le pagine del Mathnawī, definito come «un Corano in versi» non solo per il suo rilievo religioso ma soprattutto perché spesso i suoi distici sono intarsiati di citazioni coraniche che questa edizione mette giustamente in luce. Scritto in farsi, ossia nellantico persiano, il poema si rivela arduo al lettore occidentale perché il suo procedere risponde ai canoni della simbolica orientale, capace di un suo rigore che però non replica le norme della nostra logica formale. Le idee si incastonano in terreni fluidi, germogliano e si ramificano in modo impressionante e si configurano come in un caleidoscopio che, a ogni tocco, cambia scenario e soggetto pur basandosi su materiali identici o analoghi. Gli stessi generi letterari adottati sono molteplici e il transito dalla teologia alla fantasia, dalla filosofia alletica, dalla parabola allinvocazione, dallesegesi coranica alla libera creazione, dallatmosfera più rarefatta alla carnalità vitale avviene non di rado in modo insensibile. Č un viaggio in un mondo di meraviglie, popolato di re e di schiavi, di musulmani poveri e di mercanti, di santi e di peccatori, di cristiani e di beduini, di animali e di scenette quotidiane, in un pulviscolo simbolico sempre irradiato dalla luce del divino. Come insegna già il proemio col lamento del flauto di canna, il ney, usato appunto nel semā, la danza sacra, noi incarniamo una «storia di separazione». Sarà pur felice il flauto che ora emette suoni dolci e malinconici, accompagnando il riso e le lacrime, la vita e la morte, lamore e il silenzio degli uomini. Eppure egli è intimamente triste perché ha nostalgia del canneto da cui è stato tagliato: là era vivo e unito alla sua radice. Ed è per questo che canta la nostra parabola, quella di essere vivi in un mondo mirabile ma separati da Dio e dal suo amore. In noi, perciò, mai tace la nostalgia di quel ritorno alle sorgenti della vita e dellessere pieno, eterno e infinito: «Da quando mi hanno tagliato dal canneto, il mio lamento fa gemere luomo e la donna. Cerco un cuore straziato dalla separazione per versarvi il dolore del desiderio. Colui che è lontano dalla propria fonte aspira allistante in cui le sarà di nuovo unito». Non per nulla la danza del semā finisce con una sola parola, proclamata da tutti, un semplice suono, un pronome unico e perfetto, Hū, "Lui", Dio!
Jalāl āl-Dīn Rūmī Mathnawī Il poema del misticismo univerale Bompiani. Pagine 2290 Euro 46,00 (6 volumi)
Lunedģ, 19 giugno 2006
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