Popoli - Marzo 2006 - Chiese e religioni in dialogo
Brunetto Salvarani, il coraggio di incontrare l’«altro»

di Federico Tagliaferri

Dal sito:
http://www.popoli.info/

È una figura significativa del dialogo interreligioso in Italia. Studioso e «praticante» del dialogo, Brunetto Salvarani ha al suo attivo un lungo percorso culminato nell’organizzazione della Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico, un evento annuale di rilievo. In questa intervista gli abbiamo chiesto di ricostruire la storia del dialogo tra le due grandi fedi monoteiste in Italia e di fare il punto sulla situazione attuale.

Quali sono le origini del suo impegno nel dialogo interreligioso?
Devo necessariamente fare riferimento alla mia storia personale. Dopo il liceo classico, ho studiato teologia a Reggio Emilia, dove ho avuto la fortuna di appassionarmi a questo tema incontrando docenti assai preparati (da don Pietro Lombardini a don Enrico Mazza), visitando monasteri e altri luoghi di dialogo: Bose, Camaldoli, Spello, la Cittadella di Assisi. Erano gli anni Settanta. Ho scoperto allora la ricchezza di leggere il Vangelo insieme all’«altro», di aprire la Bibbia insieme agli «altri». Il primo passaggio è stata la scoperta dei «fratelli maggiori», quegli ebrei che ancora non erano chiamati normalmente così perché papa Giovanni Paolo II non aveva ancora compiuto la storica visita al Tempio Maggiore di Roma, che avvenne solo nel 1986. Mi hanno poi largamente influenzato i testi letterari in cui mi sono imbattuto: i meravigliosi racconti dei chassidim raccolti da Martin Buber, i romanzi di Isaac Bashevis Singer e degli scrittori israeliani, da Grossman a Oz, ecc. È da questo vasto mondo che sono partito, ma mi sono ben presto reso conto che la mia non poteva limitarsi a essere un’avventura intellettuale, non era sufficiente accontentarsi di capire le radici ebraiche del cristianesimo e di Gesù: dovevo incontrare le persone in carne e ossa. Forse in questo mi ha aiutato la mia amata «emilianità», un carattere che porta all’incontro conviviale, alla curiosità e alla giovialità.

Come sono nati i primi incontri?
Con alcuni amici siamo andati in giro per l’Italia - talvolta, un po’ avventurosamente - alla ricerca di sinagoghe e di rabbini, abbiamo incontrato maestri come Paolo de Benedetti e Amos Luzzatto, mi sono recato in Israele a lavorare in un kibbutz, abbiamo conosciuto padre Bruno Hussar e l’esperienza straordinaria del villaggio di Nevè Shalom-Waahat as-Salaam («Oasi di pace»). Con quegli amici abbiamo fra l’altro fondato la rivista Qol («voce» in ebraico), che esce tuttora, dedicata al dialogo e al dibattito teologico ebraico-cristiano.
Questo approccio vivo, fatto non solo di intelletto e di letture, ma di rapporti con le persone, ha fatto sì che non riuscissi a frenarmi, per cui il dialogo con l’Islam, incontrare i musulmani e le musulmane è stato il passo successivo normale e ovvio di chi, come me, non concepisce e non è in grado di concepire un dialogo a compartimenti stagni: l’essere esperti in una materia non deve limitare la nostra esperienza e chiuderci in una sorta di recinto dorato. Il mio percorso per arrivare al dialogo con l’islam è stato diverso rispetto a quello con l’ebraismo: ha contato molto di più l’approccio diretto con le persone, con quegli immigrati che in anni recenti hanno popolato le nostre città e le nostre scuole, che incrociamo al supermercato e in tanti altri luoghi. Giovanni Paolo II, nell’enciclica Ut unum sint (1995) scrive: «Il dialogo non si articola esclusivamente attorno alla dottrina, ma coinvolge tutta la persona: esso è anche un dialogo d’amore» (n. 47). Ciò mi ha spinto a organizzare (ho il dono del buon organizzatore...) alcune iniziative al riguardo al Centro studi religiosi della Fondazione San Carlo a Modena, di cui ero allora responsabile.

Chi ha creduto di più in questo suo percorso?
Sì, più di una. Qui voglio ricordare in particolare la figura di un grande cristiano laico, Innocenzo Sigillino, che è stato un dirigente delle Acli, un lucano trapiantato a Modena che, forte della sua esperienza con i lavoratori italiani all’estero, ebbe l’intuizione, davvero profetica, che fosse giunta l’«ora dei musulmani», la cui visibilità, in effetti, era nel frattempo cresciuta moltissimo. Nel ’95 mi venne a trovare alla Fondazione San Carlo, proponendomi di lavorare con lui a una serie di convegni, che sarebbero poi diventati gli Incontri cristiano-musulmani di Modena. All’inizio si chiamavano Incontri cristiano-musulmani per il dialogo sociale, come per sottolineare questa dimensione nei rapporti umani. Purtroppo Sigillino è scomparso presto, il 1° settembre 2001, lasciando un grande vuoto in chi ha avuto la fortuna di stargli accanto.

Quale sono stati la storia e gli esiti degli Incontri di Modena? Che ruolo hanno svolto?
Questi Incontri sono stati una prima esperienza di dialogo tra cristiani e musulmani, non l’unica in Italia, certamente, ma direi abbastanza importante. Ne parlo al passato perché oggi, dopo dieci edizioni, questa esperienza è conclusa, avendo esaurito la propria spinta propulsiva. Il segreto del loro successo è dovuto, direi, alla felice combinazione di due fattori: la calda esperienza organizzativa di Sigillino, improntata al senso pratico e a un’ospitalità intelligente da un lato, dall’altro l’opera di indirizzo e supervisione di un comitato scientifico ecumenico e interreligioso appositamente costituito, che ha visto operare al suo interno - con comprensibile fatica ma anche con tanta passione e disponibilità - esperti cristiani, cattolici e non, e musulmani. Questo comitato ha deciso di anno in anno i temi da discutere e i relatori da invitare (sono stati tantissimi!), sempre con una forte attenzione al sociale. In altre parole, l’ipotesi era scommettere sui temi sociali e lasciare che il dialogo teologico scaturisse in seguito: ci rendevamo conto che i tempi non erano ancora maturi. Le esigenze erano anzitutto quelle di accogliere questi nostri fratelli e sorelle privilegiando le questioni sociali, politiche e istituzionali. Si trattava di farlo alla luce della dottrina recente della Chiesa cattolica, che ci confortava in tal senso, in particolare della Nostra Aetate, delle dichiarazioni di Giovanni Paolo II a Casablanca nel 1985, e poi a Damasco nel 2001, e così via.

Può stilare un bilancio di questa iniziativa?
Il bilancio è senz’altro molto positivo. È stata una bella fucina di incontri, conoscenze e complicità, lo ammettono i nostri stessi amici musulmani. Soprattutto, lo ribadisco, ha avuto successo l’idea che ogni incontro (della durata di un giorno e mezzo) fosse dedicato a un tema concreto: per fare qualche esempio, abbiamo dato spazio alla città, ai bambini, alla donna, alla famiglia, alla violenza urbana e non, alla scuola. A testimonianza del lavoro svolto, ne sono sempre stati pubblicati gli atti, da Cens, Franco Angeli e, da ultimo, da Emi. Agli Incontri hanno partecipato soprattutto operatori sociali, dell’informazione, del volontariato, dell’associazionismo, funzionari delle amministrazioni locali, insegnanti, tutte persone che si sono trovate a relazionarsi con i musulmani senza preparazione specifica, ma con tanta passione. In questo senso gli Incontri hanno avuto un ruolo educativo, oltre che sociale.
Ho voluto soffermarmi su questa iniziativa perché mi pare che essa abbia costituito il «brodo di cultura» in cui è nata la Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico, e ha rappresentato l’esperienza di cui si avvertiva il bisogno per creare una condizione, una cultura, una sensibilità in grado di fornire frutti a tempo debito. Il motivo per cui gli Incontri si sono chiusi è legato soprattutto alle conseguenze dell’11 settembre, che hanno messo in evidenza il bisogno di fare un salto di qualità.

In che cosa dovrebbe consistere questo salto di qualità?
I progetti sono vari: ad esempio si potrebbero avviare le scuole di formazione permanente al dialogo interreligioso, facendo sì che il dialogo entri nei curricula delle scuole di teologia e nella pastorale ordinaria delle parrocchie, cosa che avviene ancora troppo poco. Il problema è che adesso la visibilità dell’Islam è alle stelle, ma non sempre questa visibilità aiuta il dialogo. Io ritengo perciò che, paradossalmente, ora il dialogo andrebbe «deislamizzato», che cioè sarebbe più utile parlare di dialogo interreligioso tout court. Questo perché oggi l’emergenza non è esclusivamente legata al dialogo con i musulmani, ma vi è la necessità di acquisire una mentalità, una formazione per il dialogo interreligioso complessivamente inteso, e quindi pensare a una preparazione a 360 gradi. Continuo a credere nell’assoluta necessità del dialogo, e ne sono ancor più convinto da direttore della rivista Cem Mondialità, che si occupa di educazione e di scuola: nella attuale fase, proprio nella scuola siamo di fronte a uno sfacelo progressivo su questi temi, con l’abbandono da parte della riforma Moratti delle scelte relative all’interculturalità. O si investe in questo campo, o si corrono rischi gravissimi: basti pensare che il Comitato di riferimento sull’interculturalità non è stato più convocato dal 13 maggio 2001, e che le risorse per la mediazione culturale sono state le prime a essere tagliate. Queste scelte sono necessarie per pensare al futuro dell’incontro e del dialogo con serenità, ma attualmente ben poco di tutto ciò si può fare.

Che cosa pensa della nuova Consulta per l’islam nominata dal ministro Pisanu?
Io la vedo con favore, perché credo sia stata una scelta seria e necessaria, che naturalmente andrà giudicata alla prova dei fatti. È comunque un segnale positivo che nelle istituzioni italiane, indipendentemente dal governo in carica, qualcuno stia prendendo sul serio un bisogno reale di incontro e di confronto, avviando provvedimenti concreti. I primi temi in agenda, forse non proprio in tempi brevi, non potranno che essere l’Intesa (tra lo Stato italiano e la comunità musulmana) e la Legge sulla libertà religiosa.

Torniamo alla Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico. Com’è nata questa iniziativa?
La sua nascita si colloca subito dopo l’11 settembre 2001, ed è scaturita in modo informale da contatti con alcuni amici, in particolare con Stefano Allievi e Paolo Naso, che si sono subito dichiarati disponibili a tentare quella «follia»: il primo obiettivo era di evitare che quella data fatidica diventasse la bara del dialogo. Ci siamo chiesti che cosa fare, e la mia proposta, accolta con entusiasmo dagli altri, è stata quella di istituire una «Giornata». Poiché c’era già la Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico (il 17 gennaio), abbiamo avuto l’idea di dedicarne una anche al dialogo islamo-cristiano, anche se eravamo consapevoli che avrebbe dovuto essere un’iniziativa molto diversa nei toni, negli obiettivi e nelle modalità di attuazione. Ci siamo anzitutto ispirati all’appello di Giovanni Paolo II, quando chiese a tutti gli uomini di buona volontà di digiunare il 14 dicembre 2001, nel mezzo della guerra in Afghanistan, appello che ebbe una risposta eccezionale da parte di molta gente, anche di non credenti. Fu un gesto importante, che si colloca in quella «pedagogia dei gesti» del dialogo interreligioso che ci ha regalato questo pontefice. Abbiamo immaginato che, così come quella giornata si collocava nell’ultimo venerdì di ramadan, anche in seguito avrebbe potuto esserci un appuntamento nella stessa data. Lanciato un appello per questa iniziativa, che è stato diffuso via Internet, abbiamo scritto molte e-mail e designato un comitato promotore, di cui facevano parte, tra gli altri, personalità del calibro di Maria Vingiani, Paolo de Benedetti, Enzo Bianchi, e alcuni pastori, pope e vescovi.

Come sono andate le Giornate fin qui svolte?
Finora si sono tenute quattro edizioni (l’ultima il 28 ottobre 2005). Sono rimasto commosso dal loro successo, perché ora più che mai c’è bisogno, a tutti i livelli, di percorsi di dialogo, di incontrarsi, di capire. Per fare un esempio, sono stato colpito dalla decisione del vescovo di Verona, monsignor Flavio Roberto Carraro, che ha istituito ufficialmente nel 2002 la «Giornata diocesana del dialogo cristiano-islamico». Abbiamo registrato una grande mobilitazione di comunità locali, di amministrazioni pubbliche, di gruppi associati e anche di singole persone, c’è stata l’operazione «moschee aperte»... La Giornata è già diventata una piccola tradizione, anche se la Cei non ha ancora ufficialmente preso posizione: cosa che, mi auguro, avverrà presto! Questo però non toglie nulla al fatto che abbiamo risposto a un bisogno, che ogni anno decine di iniziative in tutta la penisola costellino la celebrazione della Giornata: marce, serate, dibattiti, testimonianze... In un certo senso, la mia più grande soddisfazione è che le cose ormai vanno avanti per conto loro. È stata una scommessa da parte mia, perché non ho alcun mandato istituzionale, non sono un prete, non ho incarichi ufficiali: ma forse proprio questa libertà mi ha aiutato... Devo dire peraltro che ci sono già dei «figliolini»: ad esempio, i Cantieri del dialogo, la cui prima edizione si è tenuta a Villa Buri di Verona nel 2005, un’iniziativa che punta a un altro modello, quello del forum. Non un convegno, quindi, ma un luogo che vede i protagonisti del dialogo raccontare le loro esperienze, presentandole e affrontando i problemi. È stato un inizio assai promettente, stiamo preparando la seconda edizione. Mi auguro che gli sviluppi potranno essere quelli a cui ho accennato sopra: l’estensione del dialogo a tutte le tradizioni religiose e la rottura di quella chiusura identitaria che negli ultimi tempi sembra, purtroppo, prevalere un po’ dappertutto. Mi guida, come sempre, la piccola virtù della speranza.

Federico Tagliaferri
 

Brunetto Salvarani è un laico teologo, docente liceale, autore di parecchi articoli, saggi e volumi dedicati principalmente al dialogo interreligioso e all’educazione al dialogo. Attualmente è anche direttore della rivista Cem Mondialità, interamente dedicata ai problemi della scuola, dell’educazione, dell’intercultura. Ha ideato e dirige la collana interreligiosa «Parole delle fedi», per la Emi, mentre la sua ultima opera s’intitola Educare al pluralismo religioso (Emi 2006). Promotore di svariate iniziative in questo campo, è stato uno degli ideatori degli Incontri di Modena e della Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico.
 

Il senso di una giornata
L’iniziativa della Giornata è stata possibile anche grazie all’impegno di Giovanni Sarubbi, il direttore del periodico Il dialogo.
Per saperne di più raccomandiamo il suo bel sito internet, molto frequentato: www.ildialogo.org. È un vero e proprio spazio di dibattiti, molto ricco di documentazione.
Uno degli aspetti caratteristici di questa giornata è che essa cade alla chiusura del periodo di digiuno e purificazione islamica, il ramadan, dunque in una data variabile, perché il calendario musulmano è mobile (segue le fasi lunari): questa circostanza fa sì che essa richieda attenzione e un percorso di conoscenza della cultura islamica.



Venerdì, 03 marzo 2006