I Musulmani e lo Stato

di Mario Castellano

A proposito delle critiche velenose che sono state rivolte al documento dell`UCOII di condanna del terrorismo, il dott. Mario Castellano, insigne giurista, ha inviato alle Edizioni Al Hikma [alhikma@uno.it] questo interessante contributo al dibattito, che le Edizioni Al Hikma ci hanno messo a disposizione e che molto volentieri pubblichiamo.


Il documento recentemente approvato a Bologna da una assemblea rappresentativa di buona parte del Musulmani d’Italia è importante soprattutto perché afferma un principio fondamentale per la sopravvivenza stessa dello Stato di Diritto: il principio per cui ai cittadini, come pure agli stranieri che vi risiedono o comunque si trovano per qualsiasi motivo sul suo territorio non incombe solamente il dovere di astenersi da qualsiasi comportamento proibito dalle leggi penali, ma anche il dovere di denunziare chi abbia commesso o si stia preparando a commettere un reato.
Vero è che mentre la norma penale sanziona comunque la sua consumazione – ed in alcuni casi lo stesso tentativo – non si può dire lo stesso per l’omissione di denunzia, che viene considerata reato soprattutto tenendo conto della qualifica di chi la commette.
Non vi è comunque alcun dubbio sul fatto che la denunzia di ogni comportamento criminoso costituisca un dovere civico, indipendentemente dalla esistenza di una sanzione per chi la commetta.
Anche l’esercizio del voto costituisce un dovere, anche se praticamente chi non esprime il proprio suffragio non viene sanzionato.
Possiamo anzi affermare che se l’omissione della denunzia dei reati, così come ogni altra forma di mancata collaborazione da parte dei cittadini nei confronti degli organi di Polizia Giudiziaria e nei confronti della Magistratura inquirente, dovesse generalizzarsi, questa circostanza – più ancora della stessa diffusione dei comportamento criminosi – determinerebbe quel fenomeno che i giuristi definiscono come “deperimento dello Stato”, generato dal venire meno dell’esercizio del suo Potere di Imperio.
Se poi facciamo riferimento alla concezione dello Stato come risultato di un patto sociale, cioè di un accordo tra lo Stato stesso ed i consociati, in base al quale costoro gli affidano il compito di tutelare la propria pacifica coesistenza accettando in cambio una limitazione della libertà di ciascuno, arriviamo a concepire l’omessa denunzia del reato come una vulnerazione di questo patto, di questo accordo.
L’omissione di denunzia degli altri reati si può giustificare soltanto quando
Siano anche giustificate tutte le altre forme di azione illegale, o addirittura di azione violenta, e cioè quando lo Stato neghi gli elementari diritti politici e civili dei cittadini.
Possiamo allora trarre una prima conclusione: fino a che lo Stato rispetta le libertà pubbliche, i cittadini sono tenuti a prestargli obbedienza; quando lo Stato non le rispetta, non vige più l’obbligo di mantenere l’azione politica nei limiti della legalità.
Non è però questo il caso dell’Italia di oggi, né degli altri Stati dell’Europa Occidentale, ed anche questo è riconosciuto nel documento dei Musulmani italiani.
Essi constatano che essendo riconosciuta e tutelata la loro libertà di culto, non si giustifica nessuna azione illegale, compresa – come si è visto – l’omissione della denunzia dei reati altrui.
Il noto giornalista Magdi Allam, ricercando qualche aspetto degno di critica nel documento approvato a Bologna, crede di trovarlo laddove esso qualifica i Musulmani italiani come una comunità, e laddove esso afferma il loro diritto di non più attenersi al rispetto dei limiti della legalità nel caso i diritti collettivi e individuali dei cittadini di fede islamica non fossero più riconosciuti.
Per quanto riguarda la prima di queste due affermazioni, basta ricordare che la libertà di associazione, e segnatamente la libertà di associazione religiosa comporta naturalmente il diritto proprio di ogni congregazione di definirsi come vogliono i suoi aderenti; inoltre anche le varie Chiese Cristiane si qualificano come “comunità”, come sa chiunque abbia studiato il greco (“ecclesia” vuol dire infatti precisamente comunità).
Venendo alla seconda affermazione, basta rilevare che se ipoteticamente lo Stato Italiano emanasse norme discriminatorie nei confronti di una qualsivoglia categoria di persone, violando il principio costituzionale di eguaglianza – il che avvenne nel 1938 a danno dei nostri concittadini Ebrei – in quel momento non saremmo più al cospetto di uno Stato Liberale, ed allora tutti i cittadini, non soltanto quelli colpiti dalla discriminazione, avrebbero il diritto di agire senza tenere conto dei limiti posti dalla Legge.
Riassumendo, la comunità Islamica ha affermato chiaramente che l’obbligo di denunzia dei reati vige per i propri membri, come vige per tutti indistintamente i cittadini, perché l’Italia è uno Stato Liberale di Diritto, e tale deve rimanere.
Non si avanza dunque la pretesa di far coincidere la norma dello Stato con quella propria di una particolare confessione religiosa.
Cadere nel confessionalismo, fosse esso islamico o cattolico, vorrebbe dire infatti ledere le libertà e i diritti di tutti i cittadini, perché un confessionalismo vale l’altro.
Questa conclusione è tanto più importante se si considera che esiste una organizzazione quale Comunione e Liberazione che si propone espressamente come fine quello di far coincidere la norma dello Stato con il precetto di una confessione religiosa.
Che una parte almeno dei musulmani ripudi il confessionalismo mentre una parte dei cattolici continua ad affermarlo è comunque significativo.
Stesso discorso vale per la lealtà dei cittadini nei confronti dello Stato.
Giova ricordare, a questo proposito, un esempio: quello della politica togliattiana del “doppio binario”.
Se è vero infatti che Togliatti votò in favore della Costituzione di uno Stato liberale e di Diritto, vero è d’altronde che pur non praticando forme illegali di azione politica, si riservò sempre espressamente la facoltà di farvi ricorso: e di farvi ricorso, si badi, non soltanto nel caso di un ipotetico colpo di stato reazionario, caso in cui anzi ogni cittadino avrebbe avuto il pieno diritto di resistervi con ogni mezzo, bensì anche nel caso – per fortuna anche esso ipotetico – in cui fosse scattata “l’ora X” della insurrezione contro lo Stato borghese.
Esisteva anzi una struttura paramilitare pronta per la bisogna.
Negli anni cinquanta, lo Stato italiano si macchiò della destituzione dall’impiego pubblico dei dipendenti civili della Difesa, i cosiddetti “arsenalotti”, iscritti al Partito Comunista, al Partito Socialista e alla CGIL: una pagina vergognosa, cui solo in parte venne posto rimedio con una legge riparatrice; caso in tutto simile all’internamento negli Stati Uniti dei cittadini di origine giapponese dopo Pearl Harbour.
Uno Stato di Diritto che processa le intenzioni nega indubbiamente sé stesso, nega i propri presupposti giuridici; per non parlare della manifesta illegittimità della destituzione di dipendenti pubblici inamovibili nell’impiego.
Tuttavia non si può negare che l’ambiguità di Togliatti circa la possibilità di usare mezzi illegali di azione politica offrì ai Governi di quel tempo un pretesto eccellente per vulnerare così gravemente lo Stato di Diritto.
Non dobbiamo dunque meravigliarci se il povero Guido Rossa, che sentì il dovere di denunziare chi doveva essere denunziato, venne lasciato solo dai suoi compagni, il che senza dubbio favorì oggettivamente l’azione criminale degli assassini.
I Musulmani italiani giustamente affermano questo dovere, e se – Dio non voglia – dovessero soffrire qualche forma di discriminazione, non le forniscono alcun pretesto, contrariamente a quanto fece Togliatti, il quale passa però per difensore incondizionato della causa dello Stato.
La conclusione è semplice: mentre auspichiamo che la nostra società divenga autenticamente multiculturale, il che comporta un lavoro immenso di adeguamento del nostro ordinamento giuridico, in cui dovranno essere riconosciuti i diritti collettivi delle varie comunità così come sono già riconosciuti i diritti individuali delle persone, lo Stato liberale di Diritto si conferma – con il riconoscimento unanime dei principi su cui esso è basato – come l’unica possibile casa comune dei credenti e dei non credenti, così come dei credenti di tutte le Fedi.
dott. Mario Castellano, giurista.



Venerdì, 19 agosto 2005