Il Corano: una prefazione scritta col cuore

di di Franco Cardini

giovedì, 09 giugno 2005

Per gentile concessione dell’Editore, ripubblichiamo la prefazione di Franco Cardini alla nuova edizione della traduzione dei significati del Santo Corano, a cura di Hamza R. Piccardo, con revisione e controllo dottrinale Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia, Newton & Compton editori (su licenza Al-Hikma), Roma 2003, pp. 5-9.

Nel Nome di Dio, il Compassionevole, il Misericordioso,

quando l’amico Hamza Piccardo mi ha chiesto di scrivere alcune pagine di Presentazione  dell’al-Qur’ânal-Karîm, al Nobile Corano, ho avuto paura. Non nel senso comune che di solito si attribuisce a questa parola, ma in quello più alto e profondo, quello del timore e tremore che accompagna il timor Domini. Ho ricordato che al-Karîmè uno dei novantanove Nomi di Dio, e che esso è indicato proprio al versetto 40 della Sûra XXVII An-Naml, “Le Formiche”, là dove si parla di “uno che aveva conoscenza del Libro”, quel personaggio misterioso che, secondo alcuni esegeti, conosceva l’al-Ismu-l-A‘dham, il Supremo Nome di Allah (gloria a Lui l’Altissimo), il Nome segreto che tutti li include e li giustifica.

Vi sono senza dubbio molti modi per disporsi correttamente alla lettura del Libro Santo. Uno è quello d’iniziare dalla prima Sûra, la Fâtiha , “L’Aprente”, e procedere attraverso i suoi centoquattordici capitoli, dai duecentottantasei versetti della seconda Sûra, Al-Baqara, “La Giovenca ”, l’ultimo dei quali è così dolcemente rassicurante per la nostra debolezza (“Dio non impone a ciascun uomo se non quanto egli può portare”), ai soli brevissimi sei della centoquattordicesima, An-Nâs, “Gli uomini”. Un altro potrebbe forse ben essere il partire  dall’inizio del nostro essere fisico, della nostra realtà cellulare; e dall’incontro fra l’arcangelo Gabriele e il Profeta, in quel 610 dalla nascita del Cristo secondo il computo del calendario romano ch’è diventato d’uso internazionale, sul monte Hira. Cominciare da quella Sûra XCVI, Al-‘Alaq “L’Aderenza”, e da quel perentorio  Iqra’, “Leggi!”, l’imperativo che ha nel suo etimo la stessa radice, le stesse consonanti dell’al-Qur’ân. “Leggi! In nome del tuo Signore che ha creato, ha creato l’uomo da un’aderenza”. Sûra tremenda, questa XCVI, che ingiunge di obbedire solo a Dio e mai agli uomini potenti che osano ergersi contro la Sua volontà.

Credo che ciascuno di noi possa e debba cercar la sua via per avvicinarsi alla parola di Dio. Non ho affrontato dunque il Corano come un qualunque altro libro, poiché il Libro non è un qualunque libro. Ho atteso una notte propizia, quella di settembre dedicata, nella mia tradizione, all’arcangelo Michele, la notte nella quale ottantanove anni prima era nato mio padre. E, seguendo un uso che a quella tradizione è caro, le sortesApostolorum, ho aperto il Libro a una pagina qualunque e ho puntato, chiudendo gli occhi, il dito su un punto. Era l’inizio della Sûra CVIII, Al-Kawthar, “L’Abbondanza”: “In verità, ti abbiamo dato l’abbondanza”. E ho pensato a mio padre, a quell’artigiano fiorentino nato ottantanove anni prima del momento in cui avevo consultato il Libro Santo, alla sua povertà, alle sue notti insonni passate al tavolo da lavoro, all’ostinazione fiduciosa e amorevole con la quale mi aveva accompagnato negli anni inquieti della mia adolescenza, alla paziente fiducia con cui aveva sostenuto spese forse superiori alle sue forze perché convinto che io dovessi studiare, all’intelligenza con la quale aveva capito che quella era la mia strada anche in tempi nei quali mi ostinavo a fornirgli solo segnali opposti. Davvero Iddio mi ha riempito di beni, davvero mi ha dato l’abbondanza. Ma è facile per me dir questo: una buona salute, quattro figlie tre delle quali mi hanno dato già un nipotino ciascuna e che si vogliono bene fra loro e mi vogliono bene, un lavoro che mi piace, parecchie soddisfazioni professionali, la soddisfazione di poter bastare a se stessi  senza soffrir privazioni e anche con qualche surplus per aiutare chi ha bisogno, una schiera di amici cari e fedeli. Ne avrei abbastanza da dover lodare e ringraziare Iddio in ogni attimo della giornata. Ma ho conosciuto tanti meno fortunati: gente ammalata, sfortunata nella vita professionale, colpita negli affetti migliori, povera fino alla miseria. Eppure, ciascuno di loro finiva col rivelare un suo piccolo tesoro, una grazia ottenuta, una ragione per riconoscer che davvero il Signore èal-Wakîl, “il Protettore”. E il Libro ha sempre una parola per tutti, sa parlare a tutti noi il linguaggio di ciascuno.

Certo, è un Libro che sulle prime sconcerta e disorienta. Nulla più del Corano dà l’impressione dell’Assoluto. Esso non ha immediata e riconoscibile connessione con nessun dato concreto: non con la Storia e con un Popolo, come la Bibbia ebraica; non con un Uomo, come il Vangelo in rapporto al Messia; non con una qualunque immagine, dal momento che l’Islam ne rifugge e anzi, al contrario, trasforma semmai con i suoi miracoli calligrafici in immagine il suono, la parola.Chi sia abituato alla logica euclidea e cartesiana, alla retta come segno più breve (e “logico”) di congiungimento fra due punti, resta stupito dinanzi al suo andamento circolare, labirintico.

Il Corano cresce nel tempo, in ventidue anni, dalla rivelazione sul monte Hira del 610 all’inizio della predicazione pubblica tre anni più tardi alla morte dell’Inviato, nel 632, dieci anni dopo la hijra, la migrazione dalla Mecca verso Yathrib, la città che diventerà “Medina”, la Città per eccellenza, come Roma è l’Urbe. Le rivelazioni vengono imparate a memoria, custodite da una turba di recitatori-cantori e da un’incerta quantità di appunti sparsi vergati su materiali di varia origine; recitare ad alta voce ritmando quelle parole imparate a memoria, scriverle e riscriverle copiandole e ricopiandole, impone un continuo esercizio. All’atto della scomparsa del Profeta toccò al suo fedele ZaydibnThâbit accingersi alla ricerca sistematica di quelle parole, di quei versetti; furono i califfi “ben guidati” Abu Bakr e ‘Uthmân  a prender l’iniziativa di  organizzare il materiale. Alla metà circa del VII secolo, il lavoro di raccolta era terminato. Si trattava ora di affinare la forma, di perfezionare la grafia. Era tuttavia il contenuto a sottrarsi a una sistemazione compatta, di facile intelligibilità. Il Corano è un Libro profetico: e lo Spirito soffia dove vuole, dalla mistica al diritto, dalla normativa religiosa a quella civile, dalle norme quotidiane alla cronaca.

A differenza della Bibbia ebraica, il Corano non ha alcun rapporto con un gruppo etnico, con una nazione: esso è diretto all’intero genere umano. Ma ha rapporto diretto e irrinunziabile con un idioma: con l’arabo, la lingua del Profeta e quella che Dio sceglie per comunicare con lui. Una volta calata la Rivelazione , diciamo così, nello “stampo” di una lingua precisa, essa diviene ardua da tradursi in altre lingue. L’interrogarsi sulle ragioni per cui Dio abbia scelto quella lingua, quella regione del mondo, quello speciale personaggio, non ha senso alcuno: la ragione delle scelte di Dio non solo è inconoscibile, bensì è connaturata con la volontà divina stessa.

Tuttavia, è lecito indagare le condizioni della penisola arabica del tempo, al fine di comprendere il contesto nel quale discese la Parola di Dio. La posizione di quella penisola ne faceva, nella seconda metà del VI secolo, un luogo unico al mondo. In apparenza, una periferia: ma, come immediatamente si può notare, una periferia di tre grandi imperi, fra i più grandi del mondo di quel tempo: anzi, due di essi senza dubbio i più importanti, insieme con quello cinese. A nord-nordovest la penisola confinava con l’impero romano d’Oriente, quello che oggi è uso definir bizantino e che gli arabi avrebbero sempre conosciuto con il nome di Rûm, “Roma”; a nordest con l’impero sasanide; a sud, al di là dello Yemen (l’Arabia Felix dei romani) e dello stretto di Babel-Mandeb, con l’impero etiopico. La costa occidentale della penisola, lungo il Mar Rosso, era attraversata dalle carovaniere della cosiddetta “Via dell’incenso” o “delle spezie”, attraverso la quale i preziosi prodotti delle Indie, trasportati rapidamente sull’Oceano da navi che sfruttavano coraggiosamente il clima monsonico, raggiungevano gli empori siriani per venir esportati da lì in tutto il Mediterraneo. Questa “via” – in realtà un fascio di piste per cammelli – era punteggiata di numerose città carovaniere egemonizzate da opulente tribù di mercanti e abitate da popolazioni tra le quali non mancavano artigiani e, nelle oasi, agricoltori tanto ebrei quanto cristiani. Contrariamente a quanto è stato affermato da molti studiosi, anche valenti magari ma in vena di far dell’orientalismo o dell’esotismo un po’ a buon mercato, il Corano e l’Islam non hanno nulla di deterministicamente a che fare con il deserto: anzi, gli “uomini della solitudine”, i beduini,  restarono a lungo ostili alla  nuova fede e dettero del filo da torcere al Profeta: la loro “religione” si presentava, in realtà, come una miscela di antichi culti astrali caratteristici delle genti semitiche e, se non proprio di monoteismo, quanto meno di enoteismo più o meno confusamente – ma anche orgogliosamente – collegato alle vicende bibliche e alla coscienza del rapporto genealogico con Ismaele figlio di Abramo. Eccezioni in questo sincretismo, ma tutt’altro che a disagio nel suo contesto, si movevano all’interno di quest’orizzonte gli hanîf, gli “uomini di Dio”, asceti monoteisti.

L’Islam è una fede nata nelle città carovaniere: in un incrociarsi di religioni, di culti, d’istanze. La jâhiliyya, “l’ignoranza”, era piena di Dio, era gravida di Dio. Certo, lo si riconosceva a malapena come Dio unico e onnipotente, circondato com’era dalle altre divinità; i beduini e i mercanti della Mecca, con il loro bethel(la “Casa di Dio”) di color nero centro di un pellegrinaggio redditizio e fiorente, guardavano con una qualche simpatia ai persiani mazdei, laddove  i cristiani – alcuni erano monofisiti, altri nestoriani – si sentivano poco solidali con la Bisanzio fedele  all’ortodossia delineata fra IV e V secolo nei concili di Nicea, di Efeso e di Calcedonia, e pensavano semmai con maggior familiarità all’impero monofisita d’Etiopia. La penisola arabica era una ben strana periferia: in realtà piano di scorrimento di merci e punto d’incontro d’uomini nell’area dove tre imperi e un grande oceano ricco di traffici s’incontravano.

Può “servire”, tutto ciò, a spiegare la nascita e il repentino affermarsi, radicarsi ed espandersi dell’Islam? Senza dubbio sì: a patto di accontentarsi del solito escamotage deterministico. Ma sappiamo tutti che la storia va in un altro modo. Se a spiegare e a render necessario quel che avviene dopo bastasse quel ch’è avvenuto prima, la storia sarebbe un susseguirsi di conseguenze  “ovvie” e la si potrebbe scrivere anche prima del verificarsi dei fatti che la scandiscono. Il fatto è che la storia non ha ragione; che non conosce alcun senso, nessuna direzione; che il suo processo (processo: non progresso) è segnato da quel che Vilfredo Pareto definisce “l’imponderabile”, che FernandBraudel ha indicato come l’irrompere dell’emergenza  e che i maghi di Faraone, nella Bibbia, chiamano ezbàElohim, “la mano di Dio”. Gli arabi semipagani o enoteisti dell’Arabia preislamica erano abituati allo spettacolo della familiarità di ebrei e cristiani con il loro Libro Santo, che in una certa misura coincideva ed era comune ad entrambi. Ebrei e cristiani erano, insieme, ahl al-Kitâb, (la Gente del Libro): ma c’era qualcosa che li univa al di là delle loro reciproche ostilità e del Libro comune: la coscienza della comune discendenza abramitica, quella che Muhammad recupera pienamente, su cui si fonda l’Islam e che i musulmani sunniti richiamano nella salâtul-ibrâhîmiyya:“O  Dio nostro, prega per Muhammad e per i suoi, come Tu hai pregato per Abramo e per i suoi, benedici Muhammad e i suoi, come Tu hai benedetto Abramo e i suoi”. In questo modo i fedeli aderiscono alla commovente preghiera di Abramo della  Sûra XIV, appunto Ibrâhîm, “Abramo”.

Molti hanno parlato del “mistero” del rapido propagarsi dell’Islam, in poco più di un secolo, sino al Maghreb e ai contrafforti dell’Indo Cush, alla penisola anatolica e al “Corno d’Africa”. La rapidità di tale conquista non si può certo addebitare a motivi demografici; e neppure alla travolgente violenza  dei credenti, che in molte occasioni non fu neppur lontanamente tale. Si è costantemente sottovalutato, almeno per quanto concerne l’area mediterranea ch’era nel VII secolo ancora totalmente cristiana, di valutare bene che cosa fosse, nella sostanza, il cristianesimo di quelle popolazioni sostanzialmente o formalmente soggette all’Impero romano d’Oriente. Sappiamo con quanta durezza il governo imperiale romano trattasse i cristiani eretici suoi sudditi, equiparando l’eterodossia a un crimine: e sappiamo quanta distanza corresse tra l’ortodossia calcedoniano-efesina e i  cristiani monofisiti  o nestoriani, e in quali durissimi modi essi venissero perseguitati e repressi. D’altronde, un monofisita persuaso che la natura del Cristo fosse unicamente divina non poteva non sentir chiunque avesse osato inquinarla con quella umana come ben più pericoloso di chi, come i musulmani, si limitasse a proclamarne la natura esclusivamente umana associandola però alla funzione profetica. I cristiani monofisiti siriani, egizi, nubiani, avevano probabilmente molta difficoltà nel riconoscere come loro correligionario il sovrano di Costantinopoli che in ogni modo li perseguitava; mentre avevano al contrario qualche difficoltà a non sentir come dei quasi-correligionari quei barbari venuti dal sud-est che garantivano loro libertà di culto privato dietro l’esborso di una tassa ragionevole, chiedevano solo un atto di formale riconoscimento della superiorità dell’Islam  e, nel loro Libro, leggevano e recitavano cose magari per loro strane ma tanto belle e commoventi su Gesù, su Maria e su Giuseppe. La pretesa musulmana, che il profeta fosse “il Sigillo della Profezia”, stabiliva certo una superiorità dell’Islam su ebraismo e cristianesimo, e nel vivo corso della storia non mancarono certo fasi e momenti nei quali l’egemonia musulmana si fece sentire con forza sui dhimmî(i protetti), provocando fra l’altro l’effetto, di per se stesso indesiderato, di conversioni non accompagnate da intimo consenso ma determinate dal tornaconto o dalla paura: tuttavia il concetto di ahl al-Kitâb sanciva anche la validità di ebraismo e di cristianesimo, agli occhi dei musulmani, come fedi nel vero e unico Dio, quindi la loro intrinsecità rispetto all’Islam. Era una sanzione della massima importanza, che stabiliva un nesso di affinità e di omogeneità abramitica tra le fedi sorelle, fondate tutte sull’irruzione di Dio nella storia attraverso la Rivelazione nonché sulla trascendenza divina; e segnava un confine non meno netto fra le tre fedi abramitiche nel loro complesso e tutti gli altri sistemi mito-rito-cultuali che forse, in questo contesto, sarebbe arduo e improprio definire a loro volta “religioni”.

La nuova primavera coranica, alla quale stiamo assistendo in questi anni, è una benedizione per il mondo: anche, e soprattutto, per le altre due fedi abramitiche. La Modernità occidentale ha provocato un dilagare dell’agnosticismo e dell’ateismo che peraltro ha messo in crisi la fede in Dio, ma non ha affatto debellato forme di paganesimo che sono anzi risorte, auspici consumismo e globalizzazione, o alle quali si sono andati accompagnando culti idolatrici nuovi, come si sta vedendo nel contesto del fenomeno del new age.I credenti nel Dio d’Abramo di tutto il  mondo non possono che salutare nel rinascimento musulmano – al di là dei fenomeni politici che lo accompagnano ma che restano solo equivocamente collegati ad esso – una riscossa della fede che solo alcuni lustri or sono era insperabile. Nel mondo duramente dominato dal materialismo della globalizzazione, i templi della quale sono le imprese multinazionali e i cui effetti sono segnati anzitutto dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dall’ingiustizia, dalla distruzione dell’ambiente e dal progresso dell’ateismo nei cuori, i fedeli non possono non guardare con speranza e fiducia a ogni luogo nel quale si adori e si preghi Iddio onnipotente, Creatore del Cielo e della Terra, e si rinsaldi giorno per giorno il patto che Egli ha stipulato con Abramo e al quale è rimasto fedele. Il Dio di Abramo, di Mosè, di Gesù e di Muhammad.


Franco Cardini


***

Dello stesso autore, docente di Storia Medievale all’Università di Firenze:

·          Noi e l’Islam. Un incontro possibile?,Laterza, Roma-Bari, 1994;

·          Fratelli in Abramo - Breve storia parallela dell’ebraismo e dell’Islam, Il Cerchio, Rimini 2000;

·          Europa e Islam. Storia di un malinteso, Laterza, Roma-Bari 2001; 


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Giovedì, 07 luglio 2005