Il pensiero tra tensioni solipsiste e derive conformiste

di MASSIMO RECALCATI (il manifesto, 08.05.2004).

Un saggio psicoanalitico di Gaburri e Ambrosiano per Bollati Boringhieri il cui titolo riprende una espressione di Freud: Ululare coi lupi, ovvero tendere a annullare la propria identità in quella del gruppo di appartenenza


Una delle critiche più frequenti rivolte alla psicoanalisi riguarda la riduzione del mondo psichico al cosiddetto mondo interno, così che la nozione di soggetto verrebe ricondotta arbitrariamente a quella di interiorità facendo valere una concezione solipsistica della soggettività totalmente inadeguata a rendere conto della struttura sociale (transindividuale) della realtà umana. In effetti, parlare di un «dentro» opposto a un «fuori», o, come fa anche Otto Kernberg, di un «mondo interno» distinto da un «mondo esterno» è quanto meno un’approssimazione teorica che non raccoglie la ricchezza e la complessità della riflessione freudiana. In realtà, il grande passo sovversivo compiuto da Freud e ripreso con particolare vigore da Lacan consiste proprio nel rifiutare l’idea che il soggetto sia una sorta di capsula autonoma, di identità chiusa su se stessa. Ma il padre della psicoanalisi non si è solo limitato a ricordare l’inadeguatezza di ogni concezione romantica del soggetto come pura interiorità e a valorizzare l’implicazione costituente dell’Altro (famigliare, storico, sociale) nella formazione della soggettività, ma si è anche soffermato sul rischio che la soggettività umana possa smarrire la particolarità del proprio desiderio, alienandosi in forme collettive di identificazione. È questo un tarlo etico dell’ultimo Freud. In modo originale e ricco di aperture problematiche Eugenio Gaburri e Laura Ambrosiano ritornano in un loro recente testo titolato Ululare coi lupi: conformismo e reverie (Bollati Boringhieri) su questo tema, scabroso e classico insieme, relativo al rapporto tra il particolare del soggetto e la dimensione sociale e transindividuale (gruppale) che la avvolge, ovvero, per usare una coppia concettuale chiave nella riflessione degli autori, tra «narcisismo» e «socialismo».

Gaburri e Ambrosiano mettono precisamente in luce l’oscillazione fondamentale che abita l’essere umano, ovvero quella tra la ricerca di un modo d’essere creativo, capace di simbolizzare la perdita e la separazione in una maniera feconda, e la spinta ad evitare questa responsabilità «nel nome di una ricerca di sicurezza» che finisce per consegnare l’individuo al gruppo dei simili, uniformandolo passivamente alla loro omogeneità, facendolo ululare, appunto, conformisticamente con i lupi (secondo un’immagine proposta da Freud). Tendenza alla differenziazione e tendenza all’appartenenza definiscono una tensione che coincide in realtà con l’esistenza stessa dell’essere umano: «il bisogno di una crescita differenziata è radicato nel bagaglio vitale dell’individuo in modo altrettanto intenso del bisogno di attaccamento e di connessione col gruppo». L’intrigante figura teorica dell’«identificazione a massa», prelevata da Bion, definisce uno stato di smarrimento del particolare in un universale anonimo. La gruppalità alienata della massa produce un conformismo diffuso che ripara il soggetto dal rischio della separazione e della perdita, anche se questa funzione di riparo finisce per essere una prigione per le capacità creative del soggetto stesso. Il conformismo garantisce un’identità ingessata che annienta l’individualità come risorsa creativa. La nozione di «socialismo», anch’essa prelevata da Bion, si emancipa così da ogni riferimento politico per definire originalmente questa spinta insita nell’essere umano ad aggirare la propria individuazione e a trovare rifugio in un’identificazione sociale rassicurante. Il transito tra identità e gruppo si isterilisce in un «conformismo sociale» rigido e difensivo che esclude l’incontro con l’inatteso e con l’inedito. Uno dei meriti maggiori di Ululare coi lupi sta nel ripensamento critico della nozione di «individuazione», che non appare più come una mera tappa del processo evolutivo - come accade per esempio in Margareth Mahler e più in generale nel cosiddetto post-freudismo - ma in modo estremamente più interessante si definisce come una ricerca sempre in atto, come una «tensione» irrisolta che deve riattivarsi continuamente. La soggettività non è un dentro né un fuori, ma è un «dentro e fuori». Per Gaburri e Ambrosiano la tossicità patologica consiste nell’irrigidire uno di questi due poli a scapito dell’altro: uniformarsi passivamente al fuori, alla gruppalità di appartenenza rinunciando al proprio tratto particolare, oppure separarsi dal proprio gruppo di appartenenza rivendicando una individualità solo astrattamente libera. La «paura sconfinata», il «rischio di morte», «l’ignoto», l’«angoscia enigmatica e oscura», l’esperienza abissale del lutto, ci appaiono come esperienze al limite del dicibile e contornano il gruppo come luogo di rassicurazione e di «beata ottusità». L’assimilazione all’omogeno esorcizza il terrificante e la perdita. Il problema è che in questo esorcismo il pensiero si rattrappisce, diventa una «cosa concreta» che «occlude la fame di conoscenza». La vera alternativa, allora, è il «lavoro psichico» che viene descritto come lavoro del lutto: lutto «che non riguarda solo gli aspetti di mancanza ambientale traumatica, ma anche il dolore e la paura di emanciparsi dai legami di massa». L’ opposizione tra narcisismo e socialismo viene raddoppiata da quella tra reverie e conformismo. Mentre il conformismo indica una sorta di smarrimento del pensiero creativo nell’identificazione fanatica al gruppo di appartenenza, la reverie (concetto bioniano che definisce la capacità della madre di accogliere e bonificare gli stati di angoscia del bambino rendendoli simbolizzabili), indica una possibilità inedita del pensiero. La reverie è in questo senso in una relazione di opposizione con il conformismo. È solo grazie alla funzione di reverie che la madre può consentire al bambino di pensare ciò che altrimenti sarebbe impensabile, ponendosi lei stessa come una «estensione della mente del bambino». Questa origine del pensiero confuta ogni ipotesi maturativa di tipo evolutivo: il pensiero non è una facoltà programmata biopsichicamente, è piuttosto un luogo di scambio e di transito che rompe ogni concezione monadica dello psichico.
La reverie è uno stile di pensiero capace di non irrigidirsi sulle strade del già conosciuto. La capacità del pensiero di lasciarsi attraversare dal nuovo e dall’imprevisto, dunque di saltar fuori dai sentieri già battuti, è il contrario dell’«impermeabilità» che caratterizza l’attaccamento identificatorio al gruppo. Questa capacità viene chiamata da Bion «capacità negativa»: capacità di sostare di fronte all’ignoto e alla perdita senza precipitarsi immediatamente nel rifugio conformistico dell’identificazione a massa. La capacità negativa del pensiero desolidifica le certezze acquisite, scompagina le traiettorie ingessate dal senso comune; è capacità di «oscillazione tra il dubbio e la sicurezza». Ma senza emancipazione dal socialismo non c’è nascita del pensiero soggettivo, c’è piuttosto non-pensiero, saturazione della mente di significati morti, sclerotizzazione, intasamento di oggetti privi di simbolizzazione. È il caso dei «fenomeni di gruppo estremi» come le guerre, le dittature, il terrorismo. Fenomeni nei quali la prevalenza dell’azione senza capacità negativa del pensiero - come a suo modo aveva mostrato Fornari nei suoi studi sulla guerra e nella tesi della guerra come «elaborazione solo paranoica del lutto» - evacua il terrificante senza provare a simbolizzarlo.

La tensione tra individuazione e conformismo non definisce solo la vita individuale ma attraversa anche la vita delle istituzioni. Ecco un altro interrogativo cruciale e scottante che Ululare coi lupi propone: le istituzioni psicoanalitiche - e il lavoro psicoanalitico stesso - sono al riparo da questa tendenza al non-pensiero, sono sufficientemente vaccinati dall’identificazione a massa? Interrogativo che riguarda innanzitutto lo psicoanalista nel rapporto coi suoi pazienti: saprà davvero fare propria l’indicazione di Freud, di Lacan e di Bion di ricevere e ascoltare la parola del paziente senza ricorrere agli schermi cosificati della teoria e della prassi standard («conformismo dell’analista»), dando valore alla «passione dell’ignoranza» (teorizzata da Lacan), ascoltando «senza memoria e senza desiderio»? Saprà cioè la psicoanalisi del nuovo millennio non lasciarsi schiacciare dalle rispettive canoniche e dare luogo ad una nuova possibilità di incontro?

Giustamente Gaburri e Ambrosiano valorizzano un’applicazione originale del concetto freudiano di massa che non definisce solo un certo fenomeno sociale ma soprattutto una «condizione mentale» per la quale il pensiero creativo non è praticabile. I gruppi che si ammalano, sottolineano giustamente gli autori, sono i gruppi che difendono ottusamente la loro specificità, che non sanno più «osare di staccarsi dalla condizione mentale a massa, che non sanno più rinunciare a quella beata ottusità della mente che l’adeguamento conformistico offre».



Martedì, 11 maggio 2004