Quel che serve per passare dalla cosa alla parola

di FRANCESCO FERRETTI (il manifesto, 04.01.2006)

La concezione classica dell’apprendimento del linguaggio insegna che il bambino associa lo stimolo sonoro prodotto dalla parola allo stimolo visivo cui quella parola rimanda quando gli viene mostrato un oggetto. Ora però questa tesi è al centro di un serrato dibattito nelle scienze cognitive. Si fa strada l’ipotesi che siano almeno due i sistemi di elaborazione implicati: uno rivolto verso gli altri individui, dove in gioco è la capacità di cogliere l’intenzione comunicativa di chi parla, l’altro direzionato verso il mondo fisico esterno



«Quando gli adulti nominavano qualche oggetto, e, proferendo quella voce, facevano un gesto verso qualcosa, li osservavo, e ritenevo che la cosa si chiamasse con il nome che proferivano quando volevano indicarla»: così Agostino nelle Confessioni presenta la sua idea dell’apprendimento delle parole. Tale idea - resa celebre dalla citazione di Ludwig Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche - è largamente condivisa anche dal senso comune. Più in generale è la tesi prevalente che filosofi e psicologi hanno quasi unanimemente sostenuto sino a pochi anni fa: secondo tale tesi, l’apprendimento del lessico si regge sull’associazione tra parola e oggetto stabilita attraverso un nesso reciproco tra stimolo uditivo e stimolo visivo. Per insegnare al bambino il significato della parola «palla» l’idea prevalente è che l’adulto prenda in mano una palla (rossa, poniamo) e nel mostrarla al bambino proferisca la parola «palla». Dopo aver ripetuto più volte la stessa sequenza, il bambino sarà in grado di associare lo stimolo sonoro allo stimolo visivo e, così facendo, dimostrerà di aver appreso il significato della parola (proferirà «palla» davanti a una palla e saprà riconoscere una palla nel mondo quando qualcuno gli chiederà di prenderne una). Perché dovremmo mettere in dubbio una tesi così intuitiva e così ampiamente condivisa?

Un criterio per stabilire i nessi

A fronte di una forte intuitività la concezione associazionistica dell’acquisizione del lessico nasconde molte difficoltà. L’ostacolo maggiore è dato dal fatto che lo stimolo percettivo è interpretabile in molti modi diversi e il bambino è costantemente di fronte al problema di come individuare l’interpretazione giusta: come fa a capire che la parola «palla» si riferisce all’oggetto intero che ha di fronte e non invece a una qualche sua proprietà (il colore o la sfericità della palla)? Il bambino si trova di fronte alle stesse difficoltà, sottolineate da Willard Van Orman Quine, del linguista alle prese con la stesura di un manuale di traduzione di una lingua completamente diversa dalla propria: quando un indigeno proferisce Gavagai di fronte a un coniglio, il linguista non è autorizzato a sostenere che il significato di quella parola sia «coniglio» - egli non ha infatti alcun modo per sapere se l’espressione si riferisce al colore del coniglio o alla sua forma piuttosto che al coniglio in quanto tale. Allo stesso modo il bambino deve far fronte alla difficoltà di individuare quale significato assegnare a una parola tra i molteplici logicamente compatibili con la situazione percepita in cui la parola è stata detta - quello che gli manca è un criterio per stabilire cosa associare a cosa. Come fa a capire se una parola che sente per la prima volta si riferisce all’oggetto intero o a una sua proprietà? Ora, poiché di fatto il bambino apprende il significato delle parole, egli deve disporre di qualcosa che gli permette di risolvere il problema di Quine. Di cosa deve disporre?

Le difficoltà intrinseche alla concezione classica dell’apprendimento delle parole sono oggi al centro di un serrato dibattito nella scienza cognitiva: in The development of gaze following and its relations to language, un articolo pubblicato sull’ultimo numero della rivista «Developmental Science», Andrew Meltzoff e Rechele Brooks (Università di Washington) hanno evidenziato un dato interessante: durante l’acquisizione delle parole gli occhi del bambino sono costantemente puntati sugli occhi di chi parla, invece che sull’oggetto esterno. Sembra una cosa di poco conto, eppure questo spostamento di attenzione (dall’oggetto al soggetto parlante) apre nuove prospettive sulla natura del linguaggio e della mente offrendo una soluzione plausibile alle difficoltà della concezione classica dell’acquisizione del lessico.

Contro la tesi associazionistica

Per quanto non la escludano del tutto, i dati empirici oggi a nostra disposizione testimoniano contro la tesi associazionistica: l’apprendimento può aver luogo senza che si dia alcuna relazione causale stretta (spaziale e temporale) tra la parola e la presenza effettiva dell’entità cui la parola rimanda; i bambini, d’altra parte, come mostra il caso dei ciechi congeniti, per apprendere le parole non hanno bisogno di un pieno accesso sensoriale alla realtà esterna. In un importante libro sull’argomento, How the Children Learn the Meanings of Words (Mit Press, 2000), Paul Bloom sottolinea il ruolo dei componenti innati che aiutano il bambino nell’acquisizione del linguaggio: utilizzando l’argomento della povertà dello stimolo di Noam Chomsky, egli attacca la concezione associazionistica classica sostenendo che «l’apprendimento delle parole dei bambini, anche i nomi più semplici delle cose, richiede ricche capacità mentali - concettuali, sociali e linguistiche - che interagiscono in modi complicati». Per risolvere il problema di Quine il bambino deve disporre di una serie di sistemi cognitivi capaci di guidarlo (agendo da vincoli) nell’attribuzione della giusta interpretazione di una parola. La ricerca di quali siano questi sistemi cognitivi segna un’ampia parte della riflessione odierna sull’acquisizione e la natura del linguaggio.

Il ruolo della «mente sociale»

La ricerca empirica ha fatto notevoli passi in avanti a questo proposito. Ellen Markman e Gwyn Wachtel hanno offerto stimoli al dibattito mostrando il ruolo di complementarità tra il «vincolo dell’oggetto intero» (quando ascoltano un nome nuovo i bambini lo riferiscono all’oggetto nella sua interezza, non al colore dell’oggetto, alla sua grandezza o a una sua parte) e il «vincolo della mutua esclusività» (secondo cui non ci possono essere due nomi diversi per uno stesso oggetto). Per quanto il vincolo dell’oggetto intero sia un principio di base dell’acquisizione delle parole, esso da solo non è sufficiente a dar conto dell’esplosione lessicale che caratterizza le prime fasi dell’acquisizione del linguaggio. È necessario fare appello anche al vincolo della mutua esclusività: quando i bambini ascoltano una parola nuova riferita a un oggetto di cui già conoscono il nome, scartano l’interpretazione relativa all’oggetto intero e riferiscono invece quel nome a una proprietà o a una parte dell’oggetto. Il vincolo della mutua esclusività segna il ruolo della «mente sociale» nell’acquisizione del lessico: l’idea di Bloom è che per quanto le capacità in gioco siano molteplici ed eterogenee, la base dell’acquisizione del vocabolario dipende in modo essenziale dall’abilità del bambino di cogliere le «intenzioni referenziali» del parlante. Se questa è l’abilità primaria richiesta, il dispositivo mentale all’opera in simili situazioni deve essere in grado di rappresentare gli stati mentali del parlante - deve essere in grado di elaborare metarappresentazioni. Un meccanismo del genere è un dispositivo di elaborazione estremamente sofisticato. La capacità di leggere le intenzioni del parlante è considerata da Bloom una delle abilità di base del «bambino agostiniano»: quando Agostino, nel passo citato, sottolinea l’attenzione a ciò che gli adulti «vogliono indicare» egli sta di fatto sottolineando il ruolo delle intenzioni referenziali del parlante nei processi di acquisizione del linguaggio. Spostare il peso esplicativo dall’oggetto esterno all’intenzione del parlante esalta la natura socio-cognitiva dell’apprendimento delle parole. Ma come fa il bambino a leggere le intenzioni degli altri?

Al tema di quali meccanismi cognitivi siano alla base della capacità di «mentalizzare» il comportamento (interpretare l’agire proprio e altrui attribuendo stati mentali all’agente) è dedicato La mente sociale. Le basi cognitive della comunicazione, di Massimo Marraffa e Cristina Meini (Laterza, 2005). Al centro del libro è l’idea che i dispositivi alla base della cognizione sociale - specifici e innati - rappresentino un crocevia fondamentale per la comprensione della pragmatica e dell’acquisizione del linguaggio. L’apprendimento delle parole gioca un ruolo centrale nel contesto teorico del libro. In linea con i lavori di Michael Tomasello, uno degli autori che ha maggiormente contribuito alla elaborazione di un modello metarappresentazionale dell’apprendimento del lessico, Marraffa e Meini sottolineano il ruolo di due fattori fondamentali: la presenza di una situazione di attenzione condivisa tra bambino e parlante; la capacità del bambino di cogliere l’intenzione comunicativa del parlante. Il primo passo nella acquisizione del lessico è in effetti guidato dal fatto che parlante e bambino condividono l’attenzione verso un medesimo oggetto. Tale passo non è tuttavia sufficiente: per raggiungere il suo obiettivo il bambino deve anche sapere che le persone con cui entra in relazione sono agenti intenzionali (sono sistemi il cui comportamento è mosso da obiettivi). Solo riconoscendo al bambino una tale forma di conoscenza è possibile capire come egli possa attribuire una intenzione comunicativa al parlante. Come sottolineano i due autori, infatti, «per cogliere l’intenzione comunicativa di qualcuno devo capire che costui intende che io condivida con lui l’attenzione verso un determinato ente esterno. Non si tratta quindi di cogliere meramente l’intenzione altrui, come avviene nel caso in cui io colgo l’intenzione di Giulio di bere un bicchiere di latte. Occorre invece saper cogliere l’intenzione verso un mio stato attentivo, vale a dire capire che un’altra persona intende condividere con me l’attenzione verso un oggetto nel momento in cui sta pronunciando una parola; o, ancora, capire che intende che io presti attenzione a ciò che mi sta indicando e che mi renda conto della sua intenzione». L’attenzione condivisa e la lettura delle intenzioni comunicative del parlante sono, come Tomasello ribadisce in Constructing a Language (Harvard University Press, 2003), due processi di base dell’acquisizione del lessico. La mente sociale si avvale di specifici sistemi di elaborazione: l’acquisizione delle parole, tuttavia, non poggia solo sui costituenti socio-cognitivi. C’è dell’altro da prendere in considerazione.

I sistemi cognitivi coinvolti

Nell’acquisizione delle prime parole i bambini fanno perno sul mondo sociale più che sul mondo fisico. Dire questo, tuttavia, non significa negare il ruolo che la rappresentazione dell’ambiente esterno ha nell’acquisizione del lessico. Si fa oggi strada l’ipotesi che nell’apprendimento delle parole siano all’opera almeno due diversi sistemi cognitivi: uno rivolto verso gli altri individui e l’altro direzionato verso il mondo fisico esterno. Nel libro appena tradotto in italiano Il bambino di Cartesio (Il Saggiatore, 2005), Paul Bloom evidenzia la necessità di andare oltre l’immagine del bambino agostiniano precedentemente proposta. Il passaggio al «bambino cartesiano» è giustificato dal fatto che gli umani sono sistemi cognitivi essenzialmente dualistici; essi rispondono a due modi distinti di vedere il mondo: come contente corpi (oggetti fisici) e come contenente anime (agenti intenzionali). La capacità di riconoscere gli altri come agenti intenzionali dipende, come abbiamo visto, dalla abilità di attribuire credenze o desideri a chi agisce. La capacità di rappresentare il mondo fisico dipende invece da un dispositivo - radicato nel sistema percettivo - in grado di organizzare l’informazione ambientale nell’esperienza percettiva di oggetti ed eventi. Questi due distinti sistemi di elaborazione sono, nell’ottica darwiniana cui Bloom fa esplicito riferimento, alla base dell’emergere di alcuni dei tratti più caratteristici dell’essere umano (come il sentimento morale, la religione, le capacità artistiche).

Si può condividere o meno la spiegazione che Bloom dà dell’origine di pratiche cognitive di ordine superiore come quelle appena citate. Quello che non si può non condividere è l’intento di fondo del suo discorso: tentare di giustificare - affrontando la questione delle condizioni bio-cognitive di possibilità di un certo fenomeno - l’avvento di pratiche sociali e culturali in un quadro evoluzionista. A prescindere da questo punto, tuttavia, il pregio maggiore del libro di Bloom è che apre la strada alla tesi secondo cui l’attenzione agli aspetti socio-cognitivi deve convivere con l’attenzione agli aspetti ecologico-cognitivi.

Come riconoscere qualcosa

La capacità di rappresentare il mondo fisico ha un ruolo nell’acquisizione del lessico altrettanto importante della capacità di cogliere l’intenzione comunicativa del parlante. I casi più chiari a conferma di tale ipotesi sono quelli che tematizzano il ruolo della percezione visiva nell’acquisizione del lessico. Per nominare qualcosa è necessario innanzitutto riconoscere quel qualcosa e per riconoscere qualcosa come un qualcosa è il sistema di categorizzazione che bisogna chiamare in causa. Ora, quanto la categorizzazione dipende dal sistema percettivo? Casi interessanti per rispondere a questa domanda vengono dall’acquisizione del linguaggio in situazioni di deprivazione sensoriale. I ciechi congeniti mostrano la possibilità di uno scarto tra il dire e il concettualizzare: essi parlano (in modo appropriato) dei colori, ma cosa intendono effettivamente con le loro parole? Che concetto hanno di «blu» o «rosso» quando dicono che qualcosa è blu o rossa? Se è legittimo pensare che il linguaggio possa funzionare da strumento di unificazione delle esperienze di ciechi e vedenti sarebbe errato pensare che il linguaggio, da solo, possa rendere perfettamente omogenei i loro sistemi concettuali. Jean Mattler Mandler in The Foundations of Mind. The Origin of Conceptual Thought (Oxford University Press, 2004) sostiene con forza il ruolo della visione nella formazione dei concetti. A suo dire, la domanda chiave da porre è se il consolidarsi della concettualizzazione che caratterizza lo sviluppo del bambino nella prima metà del secondo anno sia ciò che porta all’esplosione lessicale o se, viceversa, sia l’apprendimento delle parole ad aiutare il processo di consolidamento. La Mandler porta argomenti e prove sperimentali a favore della prima ipotesi: la sua idea è che la differenziazione concettuale giochi un ruolo maggiore nell’apprendimento delle parole di quanto l’apprendimento delle parole non giochi nella differenziazione concettuale. Il punto chiave della sua proposta è che l’esperienza percettiva sia la chiave di accesso alle prime forme preverbali di concettualizzazione e che queste forme siano alla base dell’acquisizione delle prime parole. Il primato della categorizzazione sul linguaggio poggia su un dato semplice: le parole non potrebbero mai essere apprese senza un sistema di categorizzazione preverbale. Questi risultati aprono la strada a una considerazione di carattere più generale.

Critica all’idealismo linguistico

Quando si indaga la facoltà del linguaggio come prerogativa specie specifica della natura umana ci si accorge che tra i suoi tratti costituenti ci sono abilità cognitive senza le quali il linguaggio non potrebbe mai essere ciò che realmente è. Da questo punto di vista gli studi sull’acquisizione del lessico rappresentano un ottimo punto d’appoggio per criticare l’idealismo linguistico (secondo cui il linguaggio è l’elemento unico di costituzione dei pensieri) che ancora pervade alcuni settori della filosofia del linguaggio contemporanea. Le ricerche sull’apprendimento delle parole evidenziano ancora una volta che la filosofia non può fare a meno dell’apporto delle scienze empiriche. Con buona pace dei filosofi isolazionisti.



SCHEDA

Una piccola bibliografia sulle questioni del linguaggio
La concezione associazionistica standard dell’acquisizione del lessico è presentata in modo netto nel Saggio sull’intelletto umano di John Locke (Laterza). Per la critica alla definizione ostensiva è decisiva la lettura delle Ricerche Filosofiche di Ludwig Wittgenstein (Einaudi, 1983). Sulla capacità di leggere la mente altrui si veda C. Meini, La psicologia ingenua (McGraw-Hill, 2001). Sulle difficoltà di attribuzione di stati mentali agli altri nel caso dell’autismo: U. Frith, L’autismo. Spiegazione di un enigma (Laterza, 2005); S. Baron-Cohen, L’autismo e la lettura della mente (Astrolabio, 1997). Un libro di filosofia del linguaggio sul significato delle parole è La competenza lessicale di Diego Marconi (Laterza, ). Sui rapporti tra linguaggio e percezione visiva si vedano: A. Paternoster, Visione e linguaggio (Ets, 2001) e F. Cimatti, Linguaggio ed esperienza visiva (Centro editoriale e librario Unical, 1995). La disputa sul ruolo della visione nel sistema di concettualizzazione alla base dell’apprendimento del lessico è al centro di importanti studi sulla deprivazione sensoriale: B. Landau e L. Gleitman, Language and experience: Evidence from the blind child (Harvard University Press, 1985) e il libro di A. Dunlea, Vision and the emergence of meaning: Blind and sighted children’s early language (Cambridge University Press, 1989) delineano, da punti di vista opposti, lo spazio logico del problema. In italiano: M. Pérez-Pereira e G. Conti-Ramsden, Sviluppo del linguaggio e dell’interazione sociale nei bambini ciechi (Junior, 2002).



Venerdì, 06 gennaio 2006