Simone Weil e la povertà felice

di Nicola Fanizza

Le lenti della guerra

Verso la fine degli anni Trenta, il sofferto percorso teorico di Simone Weil giunge al capolinea. L’esito di tale deriva è la formulazione di un pensiero «impolitico»1 che, saldando Eros e Logos, recupera il valore conoscitivo dei riti, ossia la funzione conoscitiva delle pratiche sociali che stazionano nell’atmosfera del dono, della generosità, della compassione, della carità, dei riti che sono comunque lontani da qualsiasi intenzione celebrativa. Si tratta di un nuovo pensiero della soggettività, di un soggetto che si spende per l’altro, che sceglie di condividere la povertà, che sceglie di condividere la sofferenza, che sceglie insomma ciò che non si lascia scegliere.

E perché dovremmo scegliere ciò che per sua natura non si lascia scegliere? La sventura, dice la pensatrice francese, va intesa come uno status ontologico umano, una condizione intermedia – e come vedremo contraddittoria e paradossale –, che offre a qualsiasi individuo la possibilità di avvicinarsi alla verità e nel contempo di liberare dentro di sé l’amore che vi è tenuto prigioniero. D’altra parte il suo interesse precipuo nei confronti delle riflessioni che hanno per oggetto l’essere-nel-mondo nonché il rapporto fra l’individuo e comunità non può essere in alcun modo disgiunto dalla sua diffidenza nei confronti di chi pensa di salvarsi rifugiandosi in una dimensione tutta interiorizzata dell’esistenza (ascetismo!): «la tentazione della vita interiore»2 preclude, dice la pensatrice francese, la stessa possibilità di incontrare il reale.

Nell’opera di Weil – pur tenendo presente nel debito conto il «salto» determinato dalla sua conversione al cristianesimo – i momenti di continuità sono più rilevanti rispetto a quelli di rottura. E noi qui, attraverso il tema della guerra e quello inerente al rapporto fra necessità e libertà – temi che percorrono tutti i suoi scritti –, cercheremo di individuare gli snodi teorici più rilevanti che gli hanno consentito di pensare ciò che non era mai stato pensato.

Per quel che riguarda il tema della guerra, l’articolo, Non rifacciamo la guerra di Troia3, pubblicato da Simone Weil, nell’aprile 1937, sui Nouveaux Cahiers, è di un’attualità straordinaria. In riferimento ai motivi che avrebbero scatenato la guerra di Troia, la scrittrice francese mette in discussione la spiegazione risalente alla tradizione omerica che attribuisce al desiderio di vendetta per un oltraggio subito – il rapimento della greca Elena da parte del troiano Paride – la ragione che condusse allo scontro armato fra Greci e Troiani e accredita, invece, la versione fornita da Euripide in una sua opera dedicata alla moglie di Menelao. Non solo Elena non sarebbe mai giunta a Troia – un’ipotesi4 già avanzata nel VI secolo dallo storico Erodoto –, ma di lei nella città di Priamo sarebbe giunto solo l’eidolon, vale a dire il fantasma. Sicché quando Menelao cerca di rintracciare, fra le rovine fumanti di Troia distrutta, quella che ritiene la sua sposa, si trova in realtà di fronte al suo fantasma. E la stessa cosa sembra essere accaduta recentemente ai soldati anglo-americani quando cercavano le armi di distruzione di massa «nascoste» dagli irakeni: nei sotterranei polverosi di Bagdad e delle altre città dell’Irak, videro aggirarsi solo i fantasmi delle armi chimiche! 

Ciò nondimeno l’idea che alla base della guerra di Troia non vi fosse una ragione, ma semplicemente un’illusione non porta Weil a far sua una tesi oggi largamente diffusa e condivisa: la guerra è essenzialmente un fenomeno irrazionale, un accidente dovuto all’errore e al caso come «sembra» essere avvenuto, nei giorni in cui scrivo, nell’eccidio di Beslan (la caduta accidentale di una bomba!). Solo la «regia» maligna degli dèi dell’Olimpo poteva costringere i Greci e i Troiani a combattersi per dieci anni! Parimenti, a Beslan, solo il «caso» poteva sortire la morte di centinaia di bambini.  La filosofa francese legge l’economico attraverso le lenti della guerra: ciò che determina lo scatenamento della violenza organizzata «non è ciò che permette ai suoi cittadini di vivere, è ciò che permette di fare la guerra; il petrolio è molto più adatto a scatenare conflitti internazionali del grano. Così quando si fa la guerra è per conservare e accrescere i mezzi utili per farla»5. Insomma per spingere gli uomini verso la guerra: «non c’è bisogno né di dèi né di congiure segrete. La natura umana basta»6.

D’altra parte nella società contemporanea, «il ruolo di Elena – dice Weil – è svolto da parole adorne di maiuscole»7. L’ipostatizzazione di parole per lo più vuote e altisonanti – quali democrazia, dittatura, comunismo, fascismo, ecc. – genera l’idolatria, che consiste nell’attribuire una valenza sacra a persone e istituzioni storiche, trasformandole in entità a cui sacrificare la propria vita e quella degli altri. Da qui l’esigenza di demistificare le parole omicide, disinnescando il loro potenziale distruttivo: «Chiarire le nozioni, screditare la parole intrinsecamente vuote, definire l’uso delle altre attraverso analisi precise, ecco un lavoro che, per quanto strano possa sembrare, potrebbe preservare delle vite umane»8.

Il grande vetro del totalitarismo

Se è vero che Simone Weil, almeno fino al 1939, interpreta l’economico, il sociale e il politico attraverso le lenti della guerra, è altresì certo che, negli ultimi scritti, legge la stessa guerra mediante il grande vetro del totalitarismo. Comunque, come avremo modo di vedere, non si tratta di una vera e propria rottura: infatti, nella nuova prospettiva teorica, il totalitarismo spiega la guerra nel senso che la sussume e a sua volta la guerra serve ancora per comprendere l’economico, il sociale e il politico. Tutto ciò non deve sorprendere: ogni qualvolta si legge l’ultima opera della scrittrice francese si ha l’impressione che essa contenga tutte le opere precedenti allo stesso modo del tempo della coscienza di cui parla H. Bergson, un tempo disomogeneo e incommensurabile che, senza alcuna discontinuità, consente di far vivere nel presente il passato che conta.

Nell’articolo, scritto a Londra nel 1943 e mai pubblicato, Questa guerra è una guerra di religioni9, Simone Weil riprende la nozione di idolatria sostenendo la sua coestensività con la nozione di totalitarismo. Per la scrittrice francese l’idolatria, che è geneticamente totalitaria, si è manifestata a più riprese nella storia: il totalitarismo è stato presente inizialmente nella religione ebraica, allorquando gli ebrei hanno venerato un dio che sosteneva le loro vittorie nelle guerre contro gli altri popoli; in seguito è stato dominante durante l’espansione territoriale di Roma con la statolatria; si è manifestato successivamente nel corso della storia della Chiesa, durante il periodo delle crociate e dell’Inquisizione10; e, infine, è largamente presente nel mondo contemporaneo attraverso la deificazione delle nazioni. Quella del totalitarismo è la linea dominante della storia occidentale. E se è vero che le forme assunte nel nostro secolo dallo stato totalitario sono del tutto nuove per quel che riguarda gli strumenti e le intenzioni, è altresì certo che a cambiare, per la pensatrice francese, non è la logica complessiva che ha animato i vecchi e i nuovi totalitarismi: le distruzioni di massa; la creazione di una realtà artificiale in cui riconoscersi; l’annullamento dell’individuo; l’abbassamento della facoltà dell’attenzione che produce l’incapacità di discernere i confini che separano il bene dal male. Weil ritiene che il totalitarismo abbia assunto la sua configurazione più mostruosa nel nazismo che minaccia di annientare l’identità degli individui e dei diversi popoli. Pertanto continuare con la scelta pacifista sarebbe esiziale: «la guerra è diventata un male necessario: non parteciparvi significherebbe commettere un male ancora maggiore»11. Come ha osservato acutamente Donatella Zazzi, il problema a questo punto per Weil – che è ormai consapevole dell’impossibilità dell’uomo di sottrarsi al morso del male – è «come concepire, come misurare il male che si è costretti a compiere? E’ la “difficoltà terribile” su cui Simone Weil continua a interrogarsi»12. Weil risponderà a questa domanda nei seguenti termini: «Tutto quel che si può dire è che l’intenzione, nel senso più forte, è quello di fare il minimo di male possibile, tutto considerato, e tenuto conto della necessità»13.

L’impensato: ovvero l’identità fra logos ed eros

E a proposito di questa ultima parola, veniamo ora all’altro tema che attraversa tutti i suoi scritti: il rapporto fra la libertà e la necessità.

Nel saggio del 1934, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale14, Simone Weil considera il lavoro come l’unica attività umana capace di offrire all’individuo la possibilità di istituire un rapporto con il mondo diverso da quello puramente biologico naturale. Solo il lavoro, infatti, può consentire all’uomo di incontrare il reale e di avere coscienza della propria dignità di essere umano. L’agire dell’uomo è ritenuto davvero libero non quando si dilata infinitamente in un orizzonte che esclude la necessità, ma se cozza contro di essa con la massima potenza d’urto. Il problema per Weil non è quello di affermare o negare la libertà ma di individuare ciò che la definisce, ciò che la determina. E cosa determina la libertà se non appunto la necessità? Da qui l’esito «spinoziano» della sua riflessione: la libertà consiste nel volere spontaneamente ciò a cui la necessità comunque ci obbliga.

Se è vero che, almeno fino al 1939, la pensatrice francese ritiene che la necessità sia un aspetto del principio di potenza che si estende dal piano della natura a quello della società, è altresì certo che, in seguito, a partire dal 1940, presenta la necessità e la Nèmesis come aspetti della forza.

Nel saggio, L’Iliade ovvero il poema della forza15, pubblicato fra il dicembre del 1940 e il gennaio 1941, a Marsiglia, sui Chahiers du sud, la scrittrice francese mette in evidenza il carattere omnipervasivo della forza, il fatto che nessuno la possiede. La libertà presunta di chi toglie la vita agli altri uomini è una pura illusione. La forza, infatti, attraverso la Nèmesis, impedisce a colui che vince di non subire il medesimo destino che egli ha imposto al suo nemico. La nozione di Nèmesis – il destino «che punisce automaticamente l’uso della forza»16 – rimanda alla logica dell’equilibrio in quanto, a fronte dell’intensità della forza distruttiva esercitata dagli uomini, attiva una forza riparatrice di pari intensità. Ciò nondimeno la sventura non è più letta, come nelle Riflessioni, sullo sfondo dei rapporti di produzione e come connotato storico del modo di produzione capitalistico. La sventura è una condizione ontologica dell’uomo, è fonte di conoscenza poiché consente di cogliere il senso autentico della necessità.  In quanto sconfitti e ridotti in schiavitù, i Troiani vivono una condizione intermedia tra la morte naturale e la situazione di soggetti. Si tratta di una situazione, paradossale: «quando l’impossibile è divenuto realtà, la contraddizione diventa nell’anima lacerazione»17. Ma qui veniamo a uno snodo teorico che è davvero rilevante. La contraddizione a cui allude la scrittrice francese è la contraddizione costitutiva del nostro essere nel mondo che oscilla come un pendolo fra effimere vittorie e brucianti sconfitte: il soggetto che vuole «essere tutto» va incontro a continue sconfitte in quanto è in possesso di una forza finita e comunque limitata da quella dei suoi avversari, i quali sono animati dalla medesima volontà di potenza e aspirano anch’essi alla stessa espansione senza limiti. Ebbene quando ciò che è sempre inatteso, ciò che è irreparabile – l’evento tragico! – arriva come un ospite trascinato dal vento invernale, il soggetto si rende conto finalmente della bronzea necessità della forza e, nel contempo si «lacera» e in questo suo lacerarsi, in un teatro che comporta il sacrificio di sé, si unisce mediante il suo dolore con la sofferenza di tutti gli esseri di questo mondo. Per Weil conoscere la forza significa «riconoscerla come pressoché sovrana in questo mondo, e rifiutarla con disgusto e disprezzo. Questo disprezzo è l’altra faccia della compassione per tutto ciò che è esposto ai colpi della forza»18.  Per di più, l’eros può manifestarsi interamente soltanto al di fuori della violenza. Sembra qui dispiegarsi ciò che non era mai stato pensato: l’identità fra logos ed eros fa emergere un pensiero che è capace di far vivere tutti i conflitti e le differenze di questo mondo al di fuori della violenza, un pensiero che ci consente di entrare in conflitto col diverso, garantendogli comunque la possibilità di esprimere la sua alterità, un pensiero che può permetterci di costruire la nostra identità senza mai più indossare le solite maschere della vittoria e della sconfitta.

La possibilità che in futuro possa rinascere una civiltà incentrata sulla parità reale (parage) fra gli uomini e sulla conoscenza della forza – conoscenza già presente nella civiltà greca e in quella dei catari – viene tuttavia subordinata dalla Weil all’affermarsi di un sentimento di pietà, «custodito attraverso i secoli»19, anche nei confronti delle sofferenze del passato.

Il dio assente e la sovranità

Nella storia dell’Occidente, a partire dal modello romano che unisce diritto e violenza20, è presente, almeno nelle sue linee vincenti, la «volontà di potenza» che ha il suo fondamento nel delirio prometeico dell’uomo. Un delirio che trova la sua giustificazione nell’immagine dell’onnipotenza di Dio, che si configura come ciò che garantisce gli atti della stessa potenza umana: ossia gli atti del dominio dell’uomo sulle cose, sulla natura e sull’altro uomo. Ciò nondimeno è possibile neutralizzare la volontà di potenza – che si configura anche come volontà di ridurre la molteplicità a unità – solo allorquando si riconosce un Dio non più onnipotente, ma assente, un Dio che si è ritirato dal mondo, un Dio gnostico21, un Dio assolutamente trascendente perché «l’atto di creazione – dice Weil – non è un atto di potenza. È un atto di abdicazione. La realtà di questo mondo – del creato – è costituita dal meccanismo della materia e dell’autonomia delle creature dotate di ragione. E’ un regno da cui Dio si è ritirato. Dio avendo rinunciato ad esserne il re, non può venirvi che come mendicante»22.

Simone Weil propone una nuova metafisica, che va al di là della metafisica precedente, caratterizzata da un’implicita volontà di potenza: «La creazione è abbandono. Creando ciò che è altro da sé, Dio l’ha necessariamente abbandonato»23. Ed è in tale abbandono che si esercita il dominio della forza. Inoltre la creazione non si esaurisce una volta per tutte, ma è perpetua.

Il Dio di cui parla la scrittrice francese non è il Dio che ti protegge, che ti guarda dall’alto, che ti guida, che si prende cura di te. E’, invece, un Dio che soffre, un Dio buono che non ti tratta da minorenne in quanto ti riconosce la sovranità, l’autonomia e la libertà. Insomma, per essere sovrani – ossia per uscire dallo stato di minorità in cui vogliono farci restare e, come osserva acutamente A. M. Iacono, «in cui a volte, molto spesso, desideriamo stare» –, occorre non solo fare a meno del Dio paternalista ma anche «(del padre, del maestro, del capo) che con la scusa di guidarci, mantiene e rafforza il suo dominio su di noi. Da autorevole diventa autoritario. E’ necessario mutare il rapporto»24.

I riti del tramonto

L’uomo può essere all’altezza del suo compito, ossia all’altezza di Dio che ha abdicato alla sua sovranità, non più quando cerca di elevare la sua potenza fino alla presunta onnipotenza divina, ma proprio quando rinuncia alla sua stessa potenza. L’immagine del Dio che – in un atto di autoalienazione a vantaggio di un essere finito, capace di autodeterminare se stesso – ha rinunciato alla sua sovranità rimanda all’immagine nietszcheana del tramonto delle stelle, che donano luce senza chiedere nulla in cambio. Solo in questo negare se stessi dicendo sì all’altro, solo attraverso la compassione, solo attraverso la condivisione della povertà, solo scegliendo ciò che per sua natura non si lascia scegliere – la dissoluzione del soggetto che lega Simone Weil agli altri filosofi irregolari della nostra tradizione di pensiero! – l’uomo può affrancarsi dal sogno dei potenti che vogliono costringerci a sognare i loro sogni25 e pervenire alla felicità. Sicchè, paradossalmente, attraverso la condivisione della povertà, l’uomo può pervenire a una condizione di felicità. Non sostiene Walter Benjamin che il senso della nostra vita sta proprio nella felicità del tramontare in quanto la felicità consiste proprio nel fatto che «ogni essere terrestre aspira al suo tramonto»?26

La sofferenza per la scrittrice francese è una vera e propria ossessione. Ritiene, infatti, che è possibile incontrare il divino solo allorquando si partecipa alle sofferenze degli altri e che la misericordia umana si radica nella stessa sofferenza di Dio. Da qui il suo richiamarsi esplicito a San Nicola, il santo della carità, di cui riporta un’antica leggenda27: San Nicola mentre si recava attraverso la steppa russa a un incontro con Dio, non poté impedirsi di arrivare in ritardo, poiché si era attardato a liberare dal fango la vettura impantanata di un mugik.

Pur aderendo al cristianesimo, la scrittrice francese rimase sulla soglia della Chiesa in quanto rifiutò di farsi battezzare. Ciò nondimeno tale gesto non comporta una critica radicale dei riti, visti come vuoto formalismo, come qualcosa d’estraneo all’autentica esperienza religiosa. Simone Weil rifiuta, infatti, la scissione fra sacro e profano causata, nel XVI secolo, dall’avvento delle chiese riformate nonché la distinzione fra il formalismo esteriore e l’adesione interiore e afferma l’efficacia delle pratiche rituali, poiché il rito – grazie alla sua struttura analogica! – consente all’individuo di incontrare il divino già in questo mondo. In questo senso la pensatrice francese – non solo nei suoi scritti, ma anche nel corso della sua vita – manifestò un sincero e appassionato interesse per le pratiche rituali sganciate, però, da qualsiasi intento meramente celebrativo (il lavoro in fabbrica e nelle attività agricole, il suo impegno in difesa dei lavoratori, ecc.). E qui mi riferisco non certo ai riti finalizzati al dominio sulle cose e sugli uomini (riti in cui si dispiega la volontà di potenza!), ma alla meravigliosa inanità dei riti che rimandano al tramonto dell’essere: ovvero ai riti che ancora oggi stazionano nell’atmosfera del dono, della compassione e della carità. Si tratta di riti caratterizzati da una notevole funzione conoscitiva28 in quanto consentono di scoprire negli oggetti e negli individui la luce interiore, la bellezza29 che vi è nascosta, lo splendore della contraddizione non risolta in modo violento.

Note

1) In riferimento alla nozione di «impolitico», vedi R. Esposito, Categorie dell’impolitico, il Mulino, Bologna, 1988.

2) S. Weil, Quaderni, Vol. I, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 1982, p. 181. 

3) S. Weil, Non rifacciamo la guerra di Troia, in, Sulla guerra, A cura di D. Zazzi, Pratiche editrice, Milano, 1988. In questo articolo, Weil riafferma con forza la sua scelta pacifista in quanto la guerra continua ad essere stigmatizzata come la forma più radicale dell’oppressione sociale e politica, soprattutto per le classi subalterne. Tuttavia a differenza del sue precedenti Riflessioni sulla guerra – titolo da lei dato all’articolo pubblicato, nel 1933, su La Critique sociale – ciò che qui sembra interessare la pensatrice francese non è più la guerra rivoluzionaria che era stata denunciata in quanto «tomba della rivoluzione», ma la sola guerra fra gli Stati. Inoltre i valori per cui si combatte vengono messi tutti sullo stesso piano.

4) Sulla querelle, relativa alle cause che portarono allo scoppio della guerra di Troia, vedi “Introduzione” di U. Curi al saggio di R. Caillois, La vertigine della guerra, Città Aperta Edizioni, Troina, p. 8. Per Curi, l’ipotesi già avanzata nel VI secolo dallo storico Erodoto fu poi ripresa in seguito dal filosofo Platone e, infine, dal poeta Stesicoro.

5) S. Weil, Non rifacciamo la guerra di Troia, op. cit., p. 60

6) Ivi, p. 57.

7) Ivi, p. 57.

8) Ivi, p. 57.

9) S. Weil, Questa guerra è una guerra di religioni, in, Sulla guerra, op. cit., pp. 123-132.

10) Ivi, p. 125. A proposito della Chiesa, Weil sostiene che «La comparsa dell’Inquisizione nel Medioevo dimostra che una corrente del totalitarismo si era certamente insinuata nella cristianità. Fortunatamente, non ha prevalso; ma ha fatto forse abortire quella civiltà cristiana che il Medioevo stava sul punto di produrre» (Ivi, p. 125). 

 11) Vedi D. Zazzi, “introduzione” a S. Weil, Sulla guerra, op. cit., p. 25.

12) Ivi, p. 25.

13) S. Weil, Quaderni, Vol. I, op. cit., p. 273.

14) S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 1983. Nella prima parte di questo saggio è presente una critica alla tesi marxiana relativa allo sviluppo senza limiti delle forze produttive.

15) S. Weil, L’Iliade ovvero il poema della forza, in, La Grecia e le intuizioni precristiane, Rusconi, Milano, 1974.   

16) Ivi, 236.

17) Ivi, 231.

18) S. Weil, I catari e la civiltà mediterranea, A Cura di G. Gaeta e nota di G. l. Podestà, Marietti, Genova, 1996, p. 32.

19) Ivi, p. 24.

22) S. Weil, Quaderni, Vol. IV, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 1993, p. 124.

20) Sul rapporto fra diritto e violenza vedi S. Weil, La persona e il sacro, in, Oltre la politica. Antologia del pensiero impolitico, a cura di R. Esposito, B. Mondadori, Milano, 1996, p. 75. Per Weil la forza si configura come il fondamento del diritto: il diritto, compreso quello pubblico, si radica nella forma originaria dell’appartenenza. Esso appartiene sempre a qualcuno, esso non «è», ma si «ha», non si eredita e non si trasferisce – si prende. Nell’antica Roma la forma prototipica della proprietà legittima era, infatti, il diritto di preda! Il presupposto del diritto, per la pensatrice francese, sta nella forza: «La nozione di diritto è legata a quella di divisione, di scambio, di quantità, ha qualcosa di commerciale. (…). Il diritto non si sostiene che col tono della rivendicazione; e quando questo tono è adottato, la forza non è lontana, è subito dietro» (Ivi, p. 75).

21) Sul tasso di gnosticismo presente nell’opera di Simone Weil, vedi R. Esposito, L’origine della politica. Hanna Arendt o Simone Weil?, Donzelli editore, Roma. Sulla Gnosi, rinunciamo a dare la bibliografia in quanto non basterebbe un libro, e pertanto rinviamo alla monumentale opera di H. Ch. Puech, Sulle tracce della Gnosi, Adelphi, Milano, 1985; e, al bel libro di G. Filoramo, L’attesa della fine. Storia della gnosi, Laterza, Bari, 1983.

22) S. Weil, Ecrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Paris, 1957.

23) S. Weil, Quaderni, Vol. IV, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 1993, p. 124.

24) A. M. Iacono, Fame futuro e Dio, in, “Il Grande vetro”, Pisa, gennaio 2000. Sul tema della sovranità, puoi vedere dello stesso autore: A. M. Iacono, Autonomia, potere e minorità, Feltrinelli, Milano, 2000.     

25) S. Weil, Venezia Salva, tragedia in tre atti, Adelphi, Milano, 1987.

26) W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, Einaudi, Torino, pp.171-72.

27) S. Weil, Quaderni, Vol. III, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 1988, p. 115.

28) Sulla valenza conoscitiva dei riti, vedi M. Douglass, Purezza e pericolo, Il Mulino, Bologna, 1975.

29) Su questo tema, vedi F. Rella (a cura di), Bellezza e verità, Feltrinelli, Milano, 1990, pp.203-205.



Giovedì, 16 settembre 2004