Parcours de la reconnaissance

di di Brunella Canalini

(bollettino telematico di filosofia politica: )

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Copyright © 2005 Brunella Casalini

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18-03-2005 13:31:06

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Sommario

Introduzione

Riconoscimento come identificazione/distinzione: "l’un n’est pas l’autre"

"La reconnaissance de soi par soi"

Il mutuo riconoscimento: “la structure catégoriale du l’un l’autre

Letture utili per l’approfondimento disponibili su Internet

Introduzione

La parola “riconoscimento” è una delle parole chiave del lessico filosofico-politico contemporaneo. Nella lotta politica dei gruppi etnici minoritari, nel pensiero della differenza sessuale, nelle rivendicazioni di movimenti religiosi che aspirano ad entrare come tali nello spazio pubblico, le richieste di riconoscimento, di rispetto e stima sociale sono spesso volte a denunciare i limiti delle politiche redistributive. Le implicazioni derivanti dall’adozione del punto di vista di una politica del riconoscimento appaiono, tuttavia, tutt’altro che univoche. Un confronto tra la letteratura filosofico-politica anglosassone e quella continentale rivela una sensibile differenza di prospettive: se nella letteratura anglosassone la politica del riconoscimento è sinonimo, grazie soprattutto a lavori di autori come Taylor e Iris Marion Young, di multiculturalismo, di politiche disponibili a riconoscere diritti differenziati a gruppi etnici, culturali e religiosi particolari in vista della salvaguardia e protezione della loro identità; in Europa, il dibattito sul riconoscimento si è sviluppato attorno ad una questione di maggiore spessore e ampiezza: quella delle radici del legame sociale e delle fonti della solidarietà e dell’ospitalità [1] . In un autore come Honneth, per esempio, andare oltre la giustizia distributiva non significa necessariamente rinunciare all’eguaglianza dei diritti, ma scavare intorno alle ragioni che tengono insieme la società e contribuiscono a creare relazioni sociali non patologiche: ragioni che in parte precedono e in parte vanno al di là della dimensione del diritto[2].

L’ultimo lavoro di Paul Ricoeur, Parcours de la reconnaissance, è sicuramente uno dei momenti più alti toccati dal dibattito filosofico europeo contemporaneo sul tema del riconoscimento. Qui il novantenne filosofo francese, con straordinaria lucidità e creatività intreccia il problema dell’identità, già sviluppato in Sé come un altro, alla questione della memoria, del perdono, centrale in tante sue opere - tra le quali merita ricordare il recente La memoria, la storia e l’oblio -, all’attualizzazione della tematica hegeliana del riconoscimento e alla filosofia del dono di Marcel Hénaff, giocando sull’ambiguità del termine francese reconnaissance, che vale insieme “riconoscimento” e “riconoscenza”.

In questo studio Ricoeur prende le mosse da una considerazione: esistono più teorie della conoscenza, non esiste alcuna teoria del riconoscimento; e ciò a dispetto della coerenza semantica che consente alla parola “reconnaissance”, nonostante la molteplicità dei suoi significati, di figurare in un dizionario come unità lessicale. Ricoeur, che nel suo lungo e complesso percorso intellettuale ha contratto molti debiti anche con la filosofia analitica anglosassone, analizza innanzi tutto l’uso della parola nel linguaggio ordinario, attraverso il ricorso ai lessici. La rassegna lessicografica è condotta su due opere, due dizionari della lingua francese, composte quasi a un secolo di distanza l’una dall’altra: il Dictionnaire de la langue française, del Littré (1859-1872) e il Grand Robert de la langue française, datato 1985. Parcours de la reconnaissance nasce da una “scommessa”: conferire all’insieme delle occorrenze filosofiche della parola la coerenza di una “polisemia regolata”, analoga a quella riscontrabile sul piano lessicale (cfr. p. 10), e operante mediante analoghi scarti impercettibili tra un significato e l’altro.

Il “percorso” tracciato inizia dalle implicazioni del verbo riconoscere usato in forma attiva - riconoscere qualcosa, degli oggetti, delle persone, se stessi, un altro - per arrivare a quelle legate al suo uso in forma passiva - essere riconosciuto, domandare di essere riconosciuto. “Questo capovolgimento sul piano grammaticale porterà la traccia di un rivolgimento della stessa ampiezza sul piano filosofico. Il riconoscimento quale atto implica una pretesa, claim, di esercitare una padronanza intellettuale sul campo delle significazioni, delle asserzioni significative. Al polo opposto della traiettoria, la domanda di riconoscimento esprime un’attesa che può essere soddisfatta soltanto quale mutuo riconoscimento, che ciò resti un sogno inaccessibile o che richieda delle procedure e delle istituzioni che elevino il riconoscimento al piano politico” (p. 35). Alla voce attiva l’atto del riconoscimento non differisce da quello del conoscere; nel passaggio dall’attivo al passivo esso va vieppiù allontanandosi dalla dimensione gnoseologico-epistemologica (cfr. p. 36).

Riconoscimento come identificazione/distinzione: "l’un n’est pas l’autre"

Il primo senso in cui filosoficamente si declina il termine riconoscimento è reconnaissance comme identification. Il riconoscimento come identificazione presuppone la capacità e l’operazione del giudizio; siamo, infatti, con questa prima figura di riconoscimento, non distinguibile da quella della conoscenza, all’epoca del “sujet maître du sens”, del cogito che aspira ad una coscienza immediata di sé. Come aveva già fatto in Soi même comme un autre, Ricoeur sottolinea la necessità di abbandonare quest’idea di soggetto e di operare una seconda rivoluzione, dopo quella copernicana: una rivoluzione che non parta dal cogito ma dalle “cose stesse” per giungere ad una teoria del riconoscimento sottratta alla teoria della conoscenza (cfr. p. 49).

In Cartesio, come in Kant, sebbene per il primo identificare significhi distinguere, mentre per il secondo identificare sia inserire nell’ambito di relazioni (relier), riconoscere è conoscere mediante un atto di giudizio. In Cartesio quest’atto di giudizio - rileva Ricoeur - non è esente da rischi: c’è nella filosofia cartesiana una vera e propria ossessione dell’errore; e tuttavia riconoscere è qui ancora conoscere. Per arrivare ad un’idea di riconoscimento che non rimandi alla conoscenza, bisogna passare da un’analisi a parte subjecti ad una a parte objecti(cfr. p. 64), bisogna passare dalla figura della méprise, della confusione e dell’errore sul piano teoretico, alla méconnaissance, al misconoscimento sul piano esistenziale (cfr. p. 62).

Kant non solo attribuisce al giudizio nell’ambito della ricognizione (Rekognition) il compito della connessione, della sintesi, piuttosto che quello cartesiano della distinzione, ma apporta due ulteriori importanti cambiamenti alla teoria del giudizio, incorporandovi la tematica della sensibilità e della temporalità. Se in Cartesio l’ossessione dell’errore lasciava intravedere uno scollamento tra riconoscimento e conoscenza, in Kant l’equazione tra riconoscimento e conoscenza non è mai contraddetta, e ciò essenzialmente in virtù della distinzione tra trascendentale ed empirico che colloca il primo al di fuori dell’ambito dell’esperienza. Ricoeur pone l’accento in particolare sul ruolo che nell’impresa kantiana ha la sistemazione del tempo nell’ambito dell’estetica trascendentale: “Il tempo dell’estetica trascendentale non è né il tempo vissuto dell’anima, né il tempo dei cambiamenti nel mondo, ma la forma del senso interno, come lo spazio è quella del senso esterno, e in fin dei conti dell’uno e dell’altro, nella misura in cui tutte le rappresentazioni passano per il senso interno […]” (p. 67). Nella critica nei confronti della visione kantiana del problema della temporalità è esplicito il riferimento ai successivi sviluppi fenomenologici del tema, alla capacità di “tematizzare nell’ambito di una filosofia del ‘mondo della vita’ qualche cosa come un tempo dell’essere al mondo con i suoi cambiamenti reali”(p. 69).

Uscire dal kantismo significa per Ricoeur abbandonare la dimensione della rappresentazione ( Vorstellung), di un sapere che implica la rappresentazione, e seguire su questa strada la via della fenomenologia di Husserl, che rimprovera a Kant di aver ignorato “i presupposti non interrogati” che concorrono a dare il senso alle questioni filosofiche che egli si è posto e che rimandano al “mondo ambiente della vita quotidiana”, e soprattutto di Heidegger e Merleau-Ponty. Si tratta, infatti, di prendere atto, andando oltre Kant, del fatto che l’io penso è già preliminarmente e intrinsecamente in rapporto al mondo. La filosofia kantiana ha reso il mondo immanente al soggetto; la fenomenologia husserliana, secondo Ricoeur, ritornando alle cose stesse ha sottolineato la loro trascendenza, in quanto le cose stesse non si possono trovare che in un’estraneità irriducibile che la coscienza non potrà mai finire di esplorare.

Ciò che interessa ad una filosofia dello “être-au-monde” sono i molti modi, la varietà dei modi, d’essere delle cose del mondo. “Il tratto comune che questi modi d’essere devono condividere per dare luogo a delle operazioni di riconoscimento - scrive Ricoeur - mi pare essere il cambiamento (changement)” (p. 96). Quest’affermazione, in apparenza semplice, presuppone il primato del cambiamento sul tempo, e una “’deformalizzazione’ del tempo che lo libera dai criteri a priori ridotti alla simultaneità e alla successione”.

Il riconoscimento si confronta ora non con la possibilità dell’errore, ma con quella del misconoscimento: si deve tener conto di ciò che nel mutare delle cose può renderle irriconoscibili. L’esperienza propone esempi in cui un aspetto minacciante si lega al cambiamento e al tempo, soprattutto quando il passare del tempo tocca le persone; ed è “quest’aspetto che dà al riconoscimento una dimensione patetica esplorata in letteratura e non ignorata dai lessici” (p. 101). Un luogo letterario illuminante, sulla sensazione di spaesamento e d’inquietudine che i mutamenti prodotti dal tempo possono provocare, è - ricorda Ricoeur - la cena dai Guermantes nel Ricerca del tempo perduto di Proust.

"La reconnaissance de soi par soi"

In questa seconda tappa del suo itinerario Ricoeur descrive la traiettoria che porta l’uomo agente e paziente a riconoscersi uomo capace di certe imprese, in altre parole a riconoscersi come responsabile. Il percorso inizia con il mondo greco, prendendo spunto dall’idea formulata da Bernard Williams in Shame and Necessity dell’esistenza di certe somiglianze non sufficientemente riconosciute tra noi e gli antichi, soprattutto in relazione all’idea di responsabilità nell’azione. L’intenzione dell’autore non è qui negare la novità implicita nei concetti che portano al riconoscimento di sé e che dobbiamo ad autori come Agostino, Locke e Bergson, ma legare quelle innovazioni a premesse già presenti nella filosofia antica. I personaggi di Omero sono descritti quali veri “centri di decisione”, impegnati in un continuo processo deliberativo (cfr. p. 112), di cui si trova la teoria, secondo Ricoeur, nel III libro dell’Etica Nicomachea di Aristotele. Il pensiero dei moderni segna un avanzamento rispetto a quello dei Greci non tanto sul piano della tematica del riconoscimento della responsabilità, quanto sul piano della conoscenza riflessiva di sé, implicita in questo riconoscimento (cfr. p. 137). Ai moderni si deve l’invenzione del sé riflessivo, dell’ipseité.

Ricoeur vuol dare un “seguito all’analisi aristotelica dell’azione, con la sua nozione di desiderio ragionato, nell’ambito della filosofia riflessiva, inaugurata da Cartesio e Locke, poi dispiegata nella dimensione pratica dalla seconda Critica kantiana e portata da Fichte alla sua più alta potenza trascendentale” (p. 139). La risposta a questa sfida è l’idea di homme capable, dell’uomo che ha quella forma di certezza e di confidenza in sé che si lega al verbo modale “je peux”. Si ha qui il passaggio lessicale da riconoscimento/identificazione a riconoscimento/attestazione. Come si ricorderà, era al registro dell’attestazione che Ricoeur legava l’idea di homme capable già in Soi même comme un autre, di un soggetto che riconosce il primato della praxis [3]. La posizione mediana che lo studio del riconoscimento di sé occupa tra il riconoscimento/identificazione e il mutuo riconoscimento si spiega in base al fatto che la designazione del soggetto capace implica delle componenti d’alterità: il soggetto capace è il soggetto che parla, che agisce, che si racconta, che promette, che è capace d’imputazione e di responsabilità.

La problematica del riconoscersi tocca i suoi due momenti più alti con le figure della promessa e della memoria, delle quali la prima si rivolge all’avvenire, la seconda al passato. L’analisi della memoria - momento bergsoniano del percorso intrapreso da Ricoeur in quest’opera - ha inizio, secondo il metodo fenomenologico, con un’analisi dell’oggetto della memoria e della distinzione aristotelica tra mneme e anamnesis, tra la semplice presenza di immagini del passato che vengono allo spirito, e il momento attivo del ricordo, della rammemorazione, per giungere alla domanda relativa al modo in cui il riconoscimento del passato contribuisce al riconoscimento di sé (cfr. p. 170). Memoria e promessa danno “ampiezza temporale al riconoscimento di sé, fondato ad un tempo su una storia di vita e sugli impegni avvenire della lunga durata”. Entrambe devono confrontarsi con un nemico: l’oblio nel caso della memoria; il tradimento nel caso della promessa. Quest’ultima, tuttavia, presenta un carattere assente alla memoria: se la seconda è marcata dal tratto della “mienneté” (mi riconosco nel ricordo del mio passato, di un passato che per me è insostituibile), la prima è apertura all’altro e quindi, per questo, costituisce un ponte verso il terzo studio che Ricoeur dedica al mutuo riconoscimento. La promessa, come la testimonianza, conta su un aspetto fiduciario (cfr. pp. 192-193). Se per la Arendt la promessa e il perdono permettono all’azione umana di continuare: la prima legando, il secondo slegando (cfr. p. 194); per Ricoeur tra promessa e memoria v’è una possibile analogia: il perdono fa della memoria una memoria pacificata e quindi una “memoire hereuse” (p. 194). La promessa, tuttavia, può non essere mantenuta, si può promettere ciò che non si è in grado di mantenere, ingannare l’altro e noi stessi sulla nostra capacità di essere fedeli. Per evitare questa deriva patologica, non bisogna promettere troppo; è necessario saper tenere una distanza tra il mantenersi fedeli e la costanza di una volontà ostinata; ma soprattutto capovolgere l’ordine di priorità tra chi promette e chi è destinatario della promessa, e come per la responsabilità mettere prima l’altro che conta su di me e sulla mia fedeltà alla parola data (cfr. pp. 196-197).

Nell’ultima sezione del suo II studio sul riconoscimento, Ricoeur utilizza il concetto di capabilities formulato da Amarthya Sen, concetto che implica una valutazione sociale delle capacità effettive di agire, per gettare un ponte tra l’idea di capacità individuali e le forme sociali, o pratiche sociali, che rendono possibile il passaggio dal riconoscersi al mutuo riconoscimento. Sul fondo di un’antropologia incentrata sull’idea madre di potenza di agire, il concetto di capacità subisce una progressiva complessificazione: dalla capacità individuali di dire, di agire, di essere imputabile, a quella di promettere e ricordare, fino alle capacità sociali, e all’idea di capabilities che sposta il discorso sull’identità dal piano dell’attestazione a quello della rivendicazione del diritto a certe capacità. La rivendicazione del diritto a certe capacità richiama una nozione di giustizia sociale e nello stesso tempo apre una dimensione di conflittualità che rimanda a idee quali quelle di alterità, pluralità, azione reciproca che sono al centro del terzo e ultimo studio sul mutuo riconoscimento (cfr. p. 218).

Il mutuo riconoscimento: “la structure catégoriale du l’un l’autre

Sul piano categoriale il principio della reciprocità è problematico. Parlando di riconoscimento-identificazione, Ricoeur, nel suo primo studio, aveva mostrato come in Kant esso fosse collocato nella Critica della ragion pura al terzo posto tra le analogie dell’esperienza nel quadro dell’analitica dei principi, ovvero dopo la sostanza, sinonimo di permanenza, e dopo la causalità. Sul piano esistenziale, Ricoeur mostra la novità della relazione di riconoscimento a partire dalla difficoltà proposta all’interno della fenomenologia dalla dissimmetria, presupposta originaria, tra me e l’altro, che si dia essa sul piano teoretico nella versione husserliana del primato dell’io o sul piano etico nella versione levinassiana del primato dell’altro.

Nella ricostruzione della catena genealogica degli eventi filosofici che portano all’affermazione dell’idea di mutuo riconoscimento, un posto prioritario ha la nozione hegeliana di Anerkennung, nozione che, secondo Ricoeur, deve essere compresa nel quadro di un tentativo di risposta alla sfida lanciata da Hobbes al pensiero politico occidentale: il desiderio di essere riconosciuti occupa in Hegel il posto della paura della morte violenta nella concezione hobbesiana dello stato di natura. Hegel - come osserva anche Honneth all’inizio del suo La lotta per il riconoscimento - vide nel conflitto tra gli uomini un elemento che poteva e doveva essere ricondotto a una spinta morale e non a meri fini di autoconservazione. Qui Ricoeur accetta l’interpretazione honnethiana di Hobbes come paradigma di un conflitto sociale a fini meramente autoconservativi, interpretazione che può essere ritenuta “riduttiva”, in quanto ignora che le passioni che spingono l’uomo hobbesiano al conflitto non sono solo passioni per l’utile, ma anche quella passione per la gloria, che sposta decisamente la lotta sul piano di beni simbolici e nella quale è possibile individuare un’anticipazione del tema rousseauiano dell’amour propre [4].

Ricoeur affronta qui la tematica hegeliana del riconoscimento alla luce dei lavori di Jacques Tamaniaux e del tentativo di attualizzazione di essa compiuto da Axel Honneth - tentativo che ha ricevuto in Francia una notevole attenzione critica [5]. Al progetto di Honneth egli dice di aderire nei suoi aspetti essenziali: “Nel mio vocabolario - scrive Ricoeur - si tratta di cercare nelle interazioni conflittuali la fonte dell’ampliamento parallelo delle capacità individuali evocate nel secondo studio sotto il segno dell’uomo capace alla conquista della sua ipseità. Con il mutuo riconoscimento si completa il percorso del riconoscimento di sé”(p. 274). Ricoeur tiene conto di tre elementi fondamentali della strategia argomentativa di Honneth: 1. l’accoppiamento di discorso speculativo e messa alla prova sul piano empirico (Honneth accosta al discorso del giovane Hegel la psicologia sociale di Mead e il suo modello di genesi sociale del sé); 2. la distinzione tra amore, diritto e stima sociale, distinzione che ha il vantaggio di inquadrare il piano giuridico tra una struttura che lo precede e una struttura che va oltre il piano del diritto; 3) la corrispondenza tra queste tre forme di riconoscimento e tre figure della negazione del riconoscimento, capaci di fornire la motivazione morale delle lotte sociali prese in considerazione. Nel dialogo che intrattiene qui con Honneth, Ricoeur dapprima riprende la distinzione tra amore, rispetto e stima sociale per proporne degli approfondimenti e delle variazioni su tema; quindi, propone un superamento dell’idea stessa di lotta per il riconoscimento, prendendo in considerazione quelli che egli definisce “états de paix”.

Per quanto riguarda le variazioni su tema, la questione dell’amore, primo momento del riconoscimento, viene sviluppata prendendo in considerazione le costrizioni e le regole, universali, e di natura pregiuridica, che la società si dà per governare quel primo passo d’iniziazione alla cultura che sono le relazioni parentali. La famiglia, incrocio di linee verticali di filiazione e orizzontali di coniugalità, presenta almeno tre invarianti culturali: ciascuno di noi è nato dall’unione di un uomo e di una donna; ciascuno per nascita è collocato all’interno di una fratria; all’interno di ogni fratellanza l’ordine tra fratelli e sorelle non può essere scavalcato. Il legame coniugale, quale che sia lo statuto giuridico sul quale viene fondato, è soggetto anch’esso a un vincolo imposto in tutte le varianti socialmente accettate della coniugalità: il vincolo dell’incesto. Rifacendosi agli studi dello psicoanalista e giurista Pierre Legendre (e in particolare al suo L’inestimable objet de la transmission. Étude sur le principe généalogique en Occident, 1985), Ricoeur si sofferma sull’importanza della genealogia quale principio di differenziazione e d’identità e sul ruolo che essa assolve nel legittimare il posto dell’individuo, il quale è prima di tutto - come dice Pierre Legendre - “cet inestimabile objet de trasmission”: una res senza prezzo, fuori del mercato e del commercio ordinario, frutto del progetto parentale che mi iscrive quale elemento dinamico nell’albero genealogico, elemento di trasmissione del nome, di beni, di leggende familiari. “Grazie a quest’atto del riconoscersi nel lignaggio è possibile diffondersi in due direzioni opposte: da un lato, verso la nascita, e dall’altro, sulla questione dei permessi e delle costrizioni che il principio genealogico esercita per tutta la vita sul desiderio”, in particolare la genealogia con il tabù dell’incesto mette ordine nei rapporti di parentela e organizza la filiazione, frapponendosi tra la distinzione dell’ordine e la confusione fantasmatica (cfr. pp. 285-286).

Altrettanto interessanti sono le considerazioni a margine che Ricoeur scrive sul tema della stima sociale, terzo momento dopo la confidenza in sé stessi, che nasce dall’esperienza dell’amore, e il rispetto, legato all’eguale riconoscimento di diritti civili, politici e sociali. La stima sociale pone una serie di questioni e di interrogativi che Honneth affronta in poche pagine e che Ricoeur intende invece prende in considerazione più nel dettaglio: a quale esigenza normativa nuova deve rispondere la stima sociale? Quali tipi di conflittualità sono legate a forme di mediazione che eccedono l’ambito giuridico? Quali capacità personali sono correlative a queste forme di mutuo riconoscimento? (cfr. p. 295).

Honneth sembra far riferimento ad un orizzonte di valori condivisi che secondo le epoche e le culture possono condizionare il significato della stima sociale; la nozione di stima varia secondo le mediazioni sociali che rendono una persona “stimabile”; essa riguarda quindi lotte diverse nel contenuto e nelle forme da quelle relative all’ampliamento dei diritti. Ricoeur individua due possibili linee di sviluppo di questo discorso. La prima sulle tracce del secondo volume dell’opera di Jean-Marc Ferry, Les puissances de l’experience (1991), dedicato agli “ordini del riconoscimento”, dove vengono analizzati i diversi sistemi sociali (tecnico, monetario, fiscale, giuridico, democratico, burocratico, mediatico, pedagogico e scientifico) che, mediante regolatori artificiali come il denaro o il diritto, servono a mediatizzare il riconoscimento reciproco, e dove nello stesso tempo ci si interroga sulla capacità che tali sistemi hanno di rimanere aperti alle domande di responsabilità degli attori sociali, ovvero di lasciare spazio ad una razionalità comunicativa. La seconda, seguendo le suggestioni di un’opera di Luc Boltanski e Laurent Thévenot, De la giustification. Les économies de la grandeur(1991), sulla quale Ricoeur si era già soffermato altrove confrontandola al pluralismo di Sfere di giustizia di Michael Walzer [6]. Anche questo lavoro di Boltanski e Thévenot è utile in relazione al problema della pluralità delle mediazioni strutturali della stima sociale. Il concetto di giustificazione può essere considerato in qualche misura qui come sinonimo di quello di riconoscimento: “la giustificazione è la strategia mediante la quale i competitori accreditano la loro posizione in quelle che gli autori chiamano le economie della grandezza”. All’interno di un’economia vi sono criteri in base ai quali un individuo viene valutato grande o piccolo; le dispute possono concernere le prove di qualificazione in un ordine di grandezza. Le forme della giustizia sono specificate dalle strategie di giustificazione che riguardano quelli che gli autori chiamano “mondi” o “città”, per sottolineare la coerenza interna dei sistemi di transazione che hanno luogo al loro interno e quella degli oggetti implicati nelle transazioni (cfr. pp. 300-301). Alla fine dell’esame del progetto di Honneth rimane tuttavia secondo Ricoeur una domanda inevasa: quand’è che un soggetto sentirà d’essere veramente riconosciuto (cfr. p. 316)? O meglio: la domanda di riconoscimento affettivo, giuridico e sociale, con il suo stile militante e conflittuale non rischia di tradursi in una sorta di figura della “cattiva infinità” (cfr. p. 317), in un sentimento diffuso di vittimizzazione?

L’alternativa alla lotta per il riconoscimento è cercata nei processi di mutuo riconoscimento pacificati, incentrati su mediazioni simboliche che esulano sia dai rapporti di mercato sia dai rapporti giuridici. La nostra cultura conosce tre forme di “stati di pace” che vanno sotto il nome di filia (Aristotele) eros (Platone) e agàpe (nel senso biblico e post-biblico). L’agàpe fa valere i suoi titoli prima di tutto nei confronti della giustizia: il riferimento che la giustizia comporta all’idea di equivalenza contiene il germe di interminabili conflitti suscitati dalla pluralità dei diversi principi relativi alla struttura conflittuale delle economie della grandezza, evocate da Boltanski e Thévenot. Se il test per sondare l’esistenza di uno stato di pace è la fine del conflitto, la giustizia non l’assicura, mentre è in grado di assicurarlo l’agàpe, in quanto essa si sottrae ad ogni forma di equivalenza, ignora il paragone e il calcolo. Gli “stati di pace”, con in testa l’agàpe, vengono complessivamente contrapposti da Luc Boltanski, che li ha esaminati nell’ambito di una sociologia dell’azione in L’amour et la justice comme compétences (1990), agli stati di lotta, nei quali non sono inclusi solo la vendetta e la violenza, ma anche i processi in tribunale, ovvero le lotte che concernono la giustizia. In cosa si distingue l’agàpe dagli altri due stati di pace: l’amicizia e l’eros? L’amicizia si avvicina alla giustizia perché richiede reciprocità, una reciprocità che l’agàpe non esige; l’erosha in sé un senso di privazione al quale l’agàpe si oppone per il suo statuto di pienezza. Ricoeur con Boltanski si chiede se lo statuto dell’agàpe è lo statuto dell’utopia, di una falsa illusione o di un ideale solo parzialmente realizzabile.

Che cosa può aiutarci ad immaginare quel ponte necessario tra la poesia dell’agàpe, con la sua logica dell’abbondanza (“amate i vostri nemici”) e la prosa della giustizia, governata dal principio d’equivalenza (“fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”), che Ricoeur aveva evocato già in un breve ma fondamentale scritto del 1990, Amor et justice? Corre qui in nostro soccorso la realtà del dono, in particolare nell’interpretazione che di essa offre Marcel Hénaff, in Le Prix de la verité[7]. Tutto lo sforzo di Hénaff è volto a separare le pratiche del dono tanto da quelle proprie della sfera economica, dalla veste di forma arcaica di scambio mercantile, quanto dal dono di tipo morale, dall’imperativo della compassione e della condivisione. Il dono cerimoniale si colloca su un piano altro da quello dello scambio mercantile e dell’atto oblativo privato o istituzionale. Il dono è per Hénaff un operatore del pubblico riconoscimento, il che ne spiega il carattere ostentatorio. Resta il paradosso di Mauss, del dono che pretende di essere ricambiato; ad esso Hénaff risponde spostando l’attenzione dal dono alla relazione tra donatori: questa relazione è una forma di riconoscimento, sebbene di riconoscimento non riconosciuto tale. La cosa donata diviene il pegno e il sostituto del riconoscimento. Essa viene a esprimere una forma di relazione che non è alternativa alla relazione di mercato [8], ed è anzi con essa perfettamente compatibile, in quanto collocata su un livello diverso: l’importante non è qui tanto la dimensione dello scambio di beni, ma il cerimoniale, vale a dire quella forma di relazione che si caratterizza per la rarità e l’eccezionalità, e mediante la quale si mira al reciproco riconoscimento pubblico. Il dono cerimoniale non può essere anonimo, privato, come la beneficenza: “Non solo deve essere conosciuto” - scrive Hénaff - “ma se non lo fosse mancherebbe il suo obiettivo, che è proprio di produrre un reciproco e pubblico riconoscimento, di creare e rinforzare il legame sociale”. Come in occasione di un premio letterario, della celebrazione di un successo o del festeggiamento di un anniversario, il dono cerimoniale ha come caratteristica che esso esige che vi sia una piena conoscenza di chi dona, chi è il destinatario del dono, di cosa si dona, in quale circostanza e occasione. “Si tratta - sottolinea Hénaff - di una forma sociale il cui effetto deve essere sociale” [9].

Il registro del dono non è esente da problemi e conflitti - Ricoeur lo ricorda soprattutto attraverso il lavoro della storica Nathalie Zemon Davis (Essai sur le don dans la France du XVI siécle, 2003)-, ma rimane forte in lui la convinzione che il dono reciproco cerimoniale offra un esempio di esperienza effettiva di mutuo riconoscimento. Più che sul dovere di ricambiare il dono, per Ricoeur si dovrebbe mettere l’accento sul significato del dono in sé, sul perché donare. E’ in questo senso che il dono andrebbe visto nell’ottica dell’agape, del dono senza attese di ritorno: “Piuttosto che di obbligazione a rendere, bisogna parlare, sotto il segno dell’agàpe, di risposta a un appello sollevato dalla generosità iniziale”. Bisognerebbe d’altra parte porre una particolare attenzione sul momento del ricevere, sul modo in cui si riceve, sullo spirito con cui si accettano doni, sul fatto se chi riceve provi o no riconoscenza, gratitudine (in francese reconnaissance ha anche il significato di gratitudine - come si è già ricordato in precedenza).

Un ultimo aspetto sul quale Ricoeur mette l’accento è il carattere cerimoniale del dono, che è teso a rilevarne la natura festiva, spesso oggi nascosta dalla pressione moralizzante al “dovere di donare” sul quale fanno leva gli istituti di beneficenza, le associazioni caritatevoli, ecc. Una pressione moralizzante anche necessaria, e sicuramente utile, ma che ci allontana dal significato festivo del dono, che si avvicina a gesti quali il perdono; a gesti come quello del cancelliere Brandt che a Varsavia s’inginocchia ai piedi del monumento alle vittime della Shoa, gesti che non creano istituzioni, ma che, secondo Ricoeur, aprono uno squarcio sui limiti della giustizia come equivalenza. Il dono, come il perdono, è un momento di pacificazione, di sospensione della lotta, una lotta probabilmente interminabile, ma la cui motivazione morale rimane grazie ad essi riconoscibile: realtà come il dono e il perdono ci ricordano, infatti, che la lotta per il riconoscimento non è condotta in nome della fame di potere, o del fascino della violenza (cfr. p. 355).

Con Derrida, Ricoeur si chiede nelle conclusioni dell’opera se il dono cerimoniale non possa rischiare di operare una forma di misconoscimento nel cuore stesso della relazione di riconoscimento, se esso non possa celare il misconoscimento di quella dissimmetria originaria tra me e l’altro che abbiamo visto proporsi sul piano fenomenologico in almeno due diverse versioni: quella di Husserl, come primato dell’io, e quella di Levinas, quale primato dell’altro. Per Ricoeur, la dissimmetria originaria e insuperabile tra l’io e l’altro deve costantemente rammentarci che nessuno dei due partner della relazione può essere mai sostituito: “l’un n’est pas l’autre, on échange des dons, mais non des places”; e che una giusta distanza deve essere mantenuta all’interno del rapporto di mutualità per evitare relazioni fusionali (cfr. 374-377).

Letture utili per l’approfondimento disponibili su Internet

L.Degoi. “Ricoeur en reconnaissance d’humanité. Intervista a Paul Ricoeur”. L’humanité, http://www.humanite.fr/journal/2004-03-24/2004-03-24-390682

. 24 marzo 2004.

P.Ricoeur. “Celui qu’on peut remercier”. L’humanité, http://www.humanite.fr/journal/2002-12-21/2002-12-21-216239 . 21 dicembre 2002.

J.Derrida. “Le contraire du semblable”. L’humanité, http://www.humanite.fr/journal/2002-12-21/2002-12-21-216248 . 21 dicembre 2002.

P.Ricoeur. Parcours de la reconnaissance.. Stock. Paris . 2004.

 

 


[1]Utile per un quadro del dibattito sul tema è il n. 23 (primo semestre 2004) della Revue du Mauss dedicato a De la reconnaissance. Don, identité et estime de soi.



[2]Non è la c.d. politics of identity per Honnet a richiedere il ricorso alla categoria di riconoscimento. Honneth rifiuta l’idea che si sia passati da una politica incentrata sulla richiesta di eguali diritti civili, politici e sociali ad una politica incentrata sul riconoscimento di specifici stili di vita: questa contrapposizione deriva da un’errata assimilazione delle politiche incentrate sul valore dell’eguaglianza con politiche tendenti all’omologazione. La categoria di riconoscimento è centrale per Honneth non in virtù dell’emergere di movimenti sociali che lottano per il riconoscimento delle loro diversità sessuali o culturali, ma in quanto sul piano teorico è emerso come le istituzioni siano suscettibili nella realtà di essere considerate ingiuste nella misura in cui non garantiscono rispetto e dignità e sottopongono gli individui ad esperienze di umiliazione e misconoscimento, cfr. A. Honneth, Redistribution as Recognition, in N. Fraser, A. Honneth, Redistribution or Recognition?, Verso, London, 2004, p. 133. Da questo punto di vista Honneth trova affini alla sua prospettiva i lavori di Margalit, Todorov e Ignatieff. Per un’idea dei contenuti dell’opera di Honneth, cfr. Nicola Marcucci, recensione di A. Honneth, Kampf um Anerkennung. Grammatik sozialer Konflikte, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag 1992, trad. it. La lotta per il riconoscimento, il Saggiatore, Milano 2002, Jura Gentium: http://dex1.tsd.unifi.it/juragentium/it/index.htm?books/honneth.htm .

[3] Su questo punto cfr. L. Altieri, “Una lettura di Parcours de la reconnaissance di Paul Ricoeur”, Per la filosofia. Filosofia e insegnamento, XXI, 61 (maggio-agosto 2004 - numero dedicato all’ultimo Ricoeur), p. 88

[4] Cfr. E. Pulcini, “Il sé mimetico e il falso riconoscimento”, in M. Calloni, A. Ferrara, S. Petrucciani (a cura di), Pensare la società, Carocci, Roma 200, pp. 108-109; B. Carnevali, Romanticismo e riconoscimento. Figure della coscienza in Rousseau, il Mulino, Bologna 2004, in particolare, pp. 34-43.

[5]Al contrario di quanto avviene in Ricoeur, in altri pensatori francesi la prospettiva honnethiana è stata accusata di essere eccessivamente ottimista e di aver privilegiato la funzione integratrice del conflitto, anziché quella antagonistica. Cfr. S. Haber, “Hegel vu depuis la reconnaissance”, in Revue du Mauss, I semestre 2004, pp. 70-87. Una lettura più radicale della concezione hegeliana del riconoscimento è oggi proposta in Francia da F. Fischbach (Fichte et Hegel. La reconnaissance, Paris, PUF 1999) e E. Renault (Mépris social, Éditions du Passant, Bègles, 2000). Critiche esplicite a Honneth e alla sua declinazione della teoria del riconoscimento sono state formulate da Y. Cusset (“Lutte pour la reconnaissance et/ou témoigner du différend: le mépris entre tort et reconnaissance”, in E. Renault, Y. Sintomer, Où en est la Théorie critique?, La Découverte, Paris 2003 e F. Fischbach, “Axel Honneth et le retour aux sources de la Théorie critique”, in op. cit.

[6]Cfr. P. Ricouer, “La pluralità delle istanze di giustizia”, in Id., Il Giusto, Società editrice internazionale, Torino 1998, pp. 101-120.

[7] E’ dallo stesso Hénaff che, molto probabilmente, Ricoeur trae l’idea di proporre il dono come processo di riconoscimento pacificato, alternativo alla hegeliana lotta per il riconoscimento, cfr. M. Hénaff, Le prix de la vérité. Le don, l’argent, la philosophie, Éditions du Seuil, Paris 2002, n. 63, p. 183, dove si legge che il modello hegeliano di lotta per il riconoscimento presuppone la scomparsa dello spirito del dono e che all’aproccio di Honneth manca l’etologia dell’incontro presente nell’antropologia del dono. Persino nella forma più agonistica di scambio di doni, come il Potlac, non si tratta mai, secondo Hénaff, di vero conflitto, semmai di una forma di rivalità ludica o ginnica.

[8]E’ questo uno dei punti su cui Hénaff si è trovato a polemizzare con i teorici del MAUSS. Su quest’opera di Hénaff e i suoi rapporti con la te oria del dono del MAUSS, cfr. J. T. Godbout, “De la continuité du don”, Revue du Mauss, I semestre 2004, pp. 224-241, e la Correspondence entre Alain Caillé, J.T. Godbout e M. Hénaff, in op. cit. Il dibattito polemico tra Hénaff e quelli del MAUSS ha preso il via da un’intervista che Hénaff ha rilasciato alla rivista Esprit (febbraio del 2002).


[9] M. Hénaff, Le prix de la vérité. Le don, l’argent, la philosophie, cit., p. 156.



Mercoledì, 25 maggio 2005