Oltre l’uomo a una dimensione*

L’autorità giocosa dei ribelli


di HERBERT MARCUSE (il manifesto, 28.05.2005)

Un’anticipazione da «Oltre l’uomo a una dimensione» di Herbert Marcuse, il primo di cinque volumi sugli scritti, i saggi e le interviste del filosofo tedesco conservati nell’«archivio Marcuse» e ancora inediti in Italia. Il maggio francese, la necessaria simbiosi tra estetica e rivolta politica, il carteggio con Adorno e con i leader del movimento studentesco


Di fronte all’attuale assurdità, quali sono oggi le possibilità della filosofia, almeno di quella filosofia che si interessa della condizione umana? Penso si possano distinguere tre alternative. La prima, semplicemente cancellando questo interesse, ovvero con la trasformazione della filosofia in una tecnica professionale. In secondo luogo, un empirismo e un comportamentismo conformisti; la reclusione della filosofia nell’universo pietrificato del discorso mutilato e dell’azione manipolata. E terzo, la radicale trasformazione della filosofia che, come vedremo, conduce all’autotrascendimento della filosofia. (...) Io penso che gli sforzi per un mutamento sociale radicale si confrontino oggi con un intero universo di possibilità, idee, valori che sono stati devitalizzati, ipersubliminati, romanzati all’interno della cultura tradizionale e che ora sembrano riempirsi di realismo e di contenuto politico. Così, l’immaginazione si manifesta come facoltà razionale, come un catalizzatore del mutamento radicale. Le possibilità reali di liberazione, le possibilità reali di creare una società libera e razionale sono così immense, così estreme, così «impossibili» in termini di status quo. Esse devono trovare un modo proprio di esprimersi, devono trovare la loro strategia, il loro linguaggio, il loro stile, per non essere risucchiate nella corruzione dell’universo politico attuale e non essere sconfitte prima ancora di essere concepite. Credo che i ribelli di oggi abbiano preso coscienza di questa necessità, di questo bisogno di rompere con un passato che è ancora presente.>
L’urlo della rivolta

L’apertura della società a una nuova dimensione, questa prospettiva di rottura con la sequenza di dominio e sfruttamento, ha il suo concreto fondamento, la sua base visibile nelle gravi tensioni economiche del sistema globale del capitalismo delle corporations: inflazione, crisi monetaria internazionale, accresciuta competizione tra le potenze imperialiste, aumento dello spreco e della distruzione per assorbire il surplus economico, l’opposizione militante nelle metropoli e i movimenti di liberazione nel Terzo Mondo. (....)

C’è un evento simbolico che, sebbene in se stesso transitorio e ben presto contenuto dalle strutture del potere, illumina il momento storico di svolta; mi riferisco in particolare agli eventi francesi di maggio-giugno. Su di essi è stato scritto tanto, sono state fatte classificazioni, sono stati maltrattati da sociologi e da psicologi, eppure nessuna analisi e nessuna valutazione sulle prospettive attuali della liberazione sono adeguate senza questo punto di partenza. Proverò a riassumere brevemente le implicazioni di questi eventi. Essi hanno dimostrato che il movimento per un mutamento radicale può avere origine al di fuori delle classi lavoratrici e che questa forza esterna a sua volta può attivare, come catalizzatore, una forza ribelle repressa tra le classi lavoratrici. Inoltre, e questo è forse l’aspetto più importante di questi eventi, sono emersi obiettivi, strategie e valori che hanno oltrepassato l’ottocentesca struttura concettuale e politica dell’opposizione e della politica in generale. Queste nuove strategie e questi nuovi obiettivi indicano l’emergere di una nuova coscienza, una coscienza anticipatrice, progettuale, aperta e pronta a prospettive di libertà radicalmente nuove e originali.

La posta in gioco è quindi una transvalutazione dei valori, una nuova razionalità che si contrappone non solo alla razionalità capitalistica in tutte le sue forme, ma anche a quella socialista stalinista e post-stalinista. E questa nuova coscienza esprime (e forma) una nuova sensitività e sensibilità, una nuova esperienza della realtà costituita - e repressa - che ancora la ricerca, l’urlo di liberazione nei bisogni vitali dell’uomo: nella sua «schiavitù». L’homme revolté: oggi è colui o colei i cui sensi non possono più vedere e sentire e gustare ciò che gli viene offerto, in cui gli istinti più profondi si mobilitano contro l’oppressione, la crudeltà, la bruttezza, l’ipocrisia e lo sfruttamento. E anche chi si ribella per queste ragioni contro la tradizione culturale occidentale alta - contro le sue caratteristiche affermative, conciliative, «illusorie».

Questa ribellione mira ad una desublimazione della cultura - alla revoca, l’Aufhebung del suo potere idealizzante e repressivo. E’ la protesta contro una cultura che ha sempre considerato la libertà e l’uguaglianza come valori «interiori»: libertà di coscienza e astratta uguaglianza - davanti a dio, davanti alla legge, e perciò coesistente più o meno pacificamente con l’attuale schiavitù e disuguaglianza. La protesta è contro la romanticizzazione e l’interiorizzazione dell’amore, contro l’abbellimento illusorio e la mitigazione dell’orrore della realtà. (....)

La Ragione dell’establishment

I ribelli sono consapevoli del fatto che questo obiettivo trascende tutta la ragionevolezza e la razionalità dell’establishment. Oltre la legge della Ragione (questa Ragione) c’è quella dell’immaginazione. Uno degli slogan apparsi sui muri della Sorbona nel maggio dello scorso anno recita: «tutto il potere all’immaginazione». E’ stato detto (e io condivido questa affermazione) che il quarto volume del Capitale di Marx sia stato scritto sui muri della Sorbona; potremmo aggiungere che anche la quarta Critica di Kant è stata scritta sugli stessi muri, ovvero la critica dell’immaginazione produttiva.

L’idea di ragione, la razionalità che permea l’universo costituito del discorso e del comportamento, non può più servire come guida, non è più adatta a definire gli obiettivi e le possibilità della ricerca umana, della moralità umana, della scienza umana, dell’organizzazione sociale, dell’azione politica. I concetti tradizionali si sono sviluppati e sono stati definiti in un universo di dominio e di scarsità e, dove hanno superato questi limiti storici, come nella filosofia dell’illuminismo radicale, sono rimasti per lo più astratti o separati dalla pratica storica. Una domanda sorge però spontanea: non c’è nulla oltre la razionalità costituita, nient’altro che la mera fantasia, l’invenzione, la speculazione utopica?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo ricorrere alla vecchia distinzione filosofica tra immaginazione e fantasia. L’immaginazione (produttiva) è, secondo Kant, la più importante facoltà cognitiva della mente; è il terreno di incontro tra sensibilità e intelletto, percezione e concetto, corpo e mente. Come facoltà cognitiva, l’immaginazione si pone a guida del progetto scientifico e della sperimentazione delle possibilità e capacità della materia; è giocosa, libera e, tuttavia, limitata dalla sua materia, e radicata nel continuum storico. Come facoltà cognitiva, l’immaginazione crea le opere artistiche, letterarie, musicali; e con esse crea una realtà propria, ma reale: ovvero più reale della realtà data. Parole, immagini, suoni, gesti che negano la pretesa della realtà data di rappresentare ogni realtà e la realtà generale. Negano questa pretesa nel nome delle possibilità represse delle relazioni umane, dell’uomo e della natura, della libertà.

Dovrebbe adesso essere più chiaro il significato politico dello slogan «tutto il potere all’immaginazione». Lo slogan esprime la coscienza militante delle possibilità represse e della loro capacità di rendere obsolete non solo le tradizionali teorie e strategie di mutamento, ma anche i suoi obiettivi tradizionali. Il passaggio dalla razionalità della scarsità e del dominio al regno della libertà richiede il superamento concreto di questa razionalità, esige nuovi modi di vedere, ascoltare, percepire, toccare le cose, un nuovo modo di provare a soddisfare le esigenze di uomini e donne che possono e devono lottare per una società libera. La situazione storica, quindi, trasforma l’immaginazione in un potere meta-politico e coniuga i giocosi, creativi, sensuali bisogni estetici con le severe esigente politiche. (...)

Linguaggi sovversivi

Il movimento di protesta è, quindi, costretto a sviluppare un proprio linguaggio, che deve essere necessariamente differente da quello del sistema e tuttavia deve restare comprensibile - fatto che contribuisce alla divisione del movimento in piccoli gruppi e gruppetti. La ribellione linguistica lotta contro la repressione linguistica praticata dall’establishment: riconosce fino a che punto, in ogni periodo storico, un linguaggio esprima la forma data della realtà e quindi blocchi l’immaginazione e la ragione dell’uomo, riconducendolo all’universo dato del discorso e del comportamento. E’ il riconoscimento del linguaggio come una delle armi più potenti nell’arsenale dell’establishment.

Oggi è un linguaggio di una brutalità e contemporaneamente di una delicatezza senza precedenti, un linguaggio orwelliano che, possedendo praticamente il monopolio dei significati della comunicazione, soffoca le coscienze, oscura e diffama le possibilità alternative dell’esistenza, fissa i bisogni dello status quo nella mente e nel corpo degli uomini e li rende del tutto insensibili di fronte alla necessità di cambiamento.

Tuttavia, questa immunizzazione ha i suoi limiti, insiti nello sviluppo della nostra società, in particolare nella dinamica della «seconda rivoluzione industriale». Al contrario della prima, questa è stata messa in moto direttamente dalla scienza e si caratterizza per un quasi immediata applicazione della scienza alla produzione e alla distribuzione. Non solo l’applicazione delle scienze naturali alla matematica, ma anche delle scienze sociali alla pubblicità e alla politica, della psicologia alle terribili scienze delle relazioni umane e anche alla letteratura e alla musica come stimolato al tempo stesso gradito e lieve, perché se fosse eccessivo nuocerebbe al business. In un’unica realtà si ha così la strana simbiosi del pensiero umanistico scientifico con la società repressiva, la simbiosi della creatività e della produttività in cui la cultura intellettuale serve la cultura materiale, in cui la creatività serve la produttività, in cui l’immaginazione serve il mondo degli affari.

L’irrazionale in società

Il carattere quasi compiuto di questa simbiosi, in cui pensiero scientifico e umanistico diventano macchine per il controllo sociale, vive oggi gli effetti della sua stessa dinamica: quanto più la scienza consegue risultati nel controllo della natura e nello sfruttamento delle sue risorse, tanto più è alto il pericolo che gli esperimenti psicologici e biologici di formazione del comportamento umano e dei processi vitali possano sfuggire dal controllo; più selvaggia è la capacità dell’immaginazione di concepire modi e significati per alleviare l’esistenza umana, più evidente appare il contrasto tra queste conquiste scientifiche e il loro uso. E più grande è il potenziale esplosivo nelle società costituite. Di conseguenza, la prima forma in cui questo potenziale esplosivo si presenta alle coscienze è l’irrazionalità che penetra la società costituita, la mobilitazione politica delle minoranze ai margini della società e forse anche la perdita di coesione del lavoro organizzato, di cui tuttavia restano ancora da vedere modi e direzioni.

Questa situazione ci porta ad affrontare il problema della responsabilità dell’intellettuale. Le due facce della simbiosi tra scienza e società, tra immaginazione e dominio che si dà oggi impongono all’intellettuale una scelta. Questa scelta può essere formulata nel modo seguente: la ragione, l’immaginazione, la sensibilità dell’uomo saranno al servizio di una servitù sempre più efficiente e prospera o piuttosto serviranno a interrompere questo legame, liberando le capacità dell’uomo, la sua immaginazione e la sua sensibilità da questa servitù così redditizia? Credo che gli studenti militanti abbiano fatto questa scelta e ne abbiamo pagate care le conseguenze. Oggi le possibilità concrete per la libertà dell’uomo sono così reali e i crimini della società che ostacola la sua realizzazione sono così palesi che il filosofo, l’educatore non può più evitare di prendervi parte, il che significa allearsi, essere solidale con quelli che non sopportano più e non hanno più voglia di vedere la loro esistenza determinata e definita dalle esigenze dello status quo. Determinata e definita da quei poteri che hanno fatto del mondo la confusione, la sventura e l’ipocrisia attuali. (....) Se il filosofo, l’educatore, prende ancora seriamente il suo lavoro di rischiaramento, si ritroverà, volente o nolente, con quelli che danno significato e realtà alle parole e alle idee pensate lungo tutta la sua vita di educatore, e non solo significato accademico, ma un significato per cui lottare e per cui vivere.

 

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MARCUSE
di Marco Bascetta (il manifesto, 28.05.2005)



Perché tornare a Marcuse? E perché proprio cominciando dai suoi scritti politici sui movimenti, dagli interventi che si confrontavano con il maggio francese, con la rivolta dei campus americani, con il movimento studentesco di Rudi Dutschke, le black panthers e le mobilitazioni contro la guerra del Vietnam? Intanto perché il problema politico che tutti li attraversa, quello dell’emancipazione, o della trasformazione radicale dei rapporti sociali nella società opulenta e altamente tecnologizzata continua a occupare il nostro orizzonte. Il ruolo decisivo dei movimenti derivava, per Marcuse, dalla chiusura definitiva delle due vie maestre che all’emancipazione avevano promesso di condurre: la democrazia parlamentare borghese e la rivoluzione operaia. La prima demolita dalla crisi dell’individuo borghese e della sua sfera di eticità, accelerata dai fascismi e dalla concentrazione monopolistica del capitale, la seconda dallo statalismo socialista e dal tramonto della centralità del lavoro operaio. E’ dunque il contraddittorio emergere di un soggetto, o di una pluralità di soggetti, non più determinati dalla libertà del mercato fondata sul riduzionismo mercantile e sullo spirito di sacrificio, o dal modello collettivista che rovesciava in democrazia egualitaria gli stessi connotati del lavoro salariato di massa, ciò che Marcuse cercava di vedere nei movimenti, nei loro modi di azione e nelle loro forme di coscienza. Un soggetto, dunque, non separato dalle sue pulsioni e dai suoi desideri, non ridotto a una dimensione strettamente funzionale e disincarnata, un soggetto che metteva in scena il conflitto tra il principio di prestazione e il principio del piacere, respingendo la mediazione repressiva implicita nella soluzione freudiana. Ma il passaggio cui Marcuse cominciava ad assistere nei suoi albori, e che noi possiamo contemplare oggi nella sua piena vigenza, è quello che conduce dall’esclusione pura e semplice del principio del piacere dal mondo del lavoro, propria dell’organizzazione fordista della produzione, alla trasformazione di questo principio stesso in principio di prestazione. Questo è in fondo il cuore di quell’ideologia della «creatività» e dell’autorealizzazione che accompagna l’inclusione di gran parte delle facoltà e delle inclinazioni umane nel processo produttivo o, come altrimenti si è ripetutamente detto, la progressiva coincidenza tra tempo di vita e tempo di lavoro. Un siffatto principio di integrazione si sovrappone e in parte si sostituisce alle classiche lusinghe della «società del benessere», peraltro in evidente declino. I conflitti che Marcuse aveva posto al centro della sua attenzione scaturivano dal divorzio tra liberismo e libertà, tra una promessa di democrazia sociale ritagliata sull’identità collettiva conferita dal lavoro operaio e l’aspirazione, inevitabilmente singolare, al piacere e al libero sviluppo del sé. Le due strade precluse verso l’emancipazione, democrazia borghese e socialismo, nonché la commistione socialdemocratica di entrambe, si rovesciavano dunque in un dispositivo repressivo, sia pure (ma non certo nel caso del socialismo) con le sembianze della tolleranza (ma solo di quanto si dimostrasse compatibile con le leggi del profitto). La coercizione e l’autorità dovevano quindi incaricarsi di imporre un principio di prestazione reso sempre più arbitrario dalla progressiva riduzione del ruolo del lavoro nella produzione della ricchezza. E questo conferiva alla rivolta antiautoritaria, al rifiuto delle regole e delle compatibilità una importanza decisiva. Oggi che le politiche liberiste non solo si rivelano compatibili con forme autoritarie di governo, ma moltiplicano a dismisura regole, vincoli e proibizioni di fronte alla crisi evidente di ogni spontaneità nel meccanismo che le riproduce, le tematiche antiautoritarie riconquistano pienamente il loro significato politico. Oggi che la «tolleranza repressiva» descritta da Marcuse ha assunto, a New York come a Bologna, i tratti di una «intolleranza protettiva» dei cittadini da se stessi e dai propri desideri, oltre che dalle oscure minacce con cui se ne alimentano le paure, la ricerca marcusiana del nesso antico e indissolubile tra ragione e felicità merita di essere ricondotta al centro della nostra riflessione. E’ questo insieme di motivi che ha dunque condotto la manifestolibri alla decisione di pubblicare i materiali inediti in Italia dell’archivio Marcuse. Questo primo volume, dal titolo Oltre l’uomo a una dimensione (manifestolibri, pp.373, € 32, con una introduzione di Raffaele Laudani e una postfazione di Antonio Negri) raccoglie quindi gli scritti di Marcuse dedicati ai movimenti degli anni Sessanta. Ne seguiranno altri quattro, che affronteranno invece il rapporto tra «Marxismo e nuova sinistra», «La società tecnologica avanzata», «Teoria critica del desiderio» e «Filosofia e filosofia politica». (marco bascetta)



Lunedì, 30 maggio 2005