NESSUNA CULTURA E’ SUPERIORE A UN’ALTRA.
Incontrare lo straniero, un evento fondamentale

di Ryszard Kapuscinski (il manifesto/Le Monde diplomatique, gennaio 2006)

L’assalto disperato dei candidati all’immigrazione contro il filo spinato nelle enclave spagnole di Ceuta e Melilla, le sommosse razziste a Sidney, in Australia... Queste immagini forti della fine del 2005 simbolizzano il crescere della paura e dell’intolleranza un po’ ovunque nel mondo, in un quadro di miseria sociale. Eppure solo il dialogo con lo straniero, lo scambio di esperienze - e l’unirsi contro un sistema che schiaccia gli uomini e le culture - possono far vibrare la corda dell’umanità comune, tanto necessaria nel mondo contemporaneo. Lo scrittore-giornalista Ryszard Kapuscinski che per lunghi anni ha «vissuto con gli Altri», tesse l’elogio degli incontri.


Quando medito sui miei viaggi per il mondo - viaggi durati anni - , mi sembra talvolta che le frontiere e i fronti, i pericoli e le pene proprie di simili vagabondaggi abbiano suscitato in me meno inquietudine rispetto all’enigma, sempre presente, di sapere come si sarebbe svolto ogni nuovo incontro con gli Altri, con le persone sconosciute che avrei trovato sulla mia strada. Ho sempre saputo che dal modo in cui fosse avvenuto l’incontro sarebbe dipeso in gran parte il seguito.
Ogni viaggio ha dunque rappresentato per me una serie di interrogazioni: come sarebbe cominciato? E sviluppato? Come si sarebbe conchiuso?
Questioni talmente antiche, che risalgono a tempi così remoti, da potersi definire eterne. L’incontro con l’Altro, con esseri umani diversi, rappresenta da sempre l’esperienza fondamentale e universale della nostra specie. Gli archeologi ci dicono che i gruppi umani più primitivi non contavano più di una trentina, o al massimo una cinquantina di individui. Se quelle famiglie-tribù fossero state più numerose, ben più difficile sarebbe stato per loro spostarsi; e se fossero state meno numerose, non avrebbero potuto difendersi né attaccare, per sopravvivere.
Ed ecco che la nostra piccola famiglia-tribù, in cerca di cibo, s’imbatte in un’altra famiglia-tribù. Momento cruciale per la storia del mondo! Favolosa scoperta! Accorgersi che il mondo è abitato da altri esseri umani! Fino ad allora un membro della nostra piccola comunità familiare e tribale poteva vivere nella convinzione che, conoscendo i suoi trenta, quaranta o cinquanta fratelli e sorelle, conosceva tutti gli abitanti della Terra... E, d’un tratto, scopre che non è così, che il mondo ospita altri esseri simili a lui! Che fare davanti a una rivelazione simile? Come reagire? Che decisione prendere? Gettarsi con ferocia sugli sconosciuti? Ignorarli e continuare per la propria strada? Cercare di conoscerli e tentare di trovare con loro un punto d’intesa? Migliaia d’anni fa i nostri antenati hanno dovuto scegliere tra queste alternative. E oggi è cosa che riguarda noi. Con la stessa intensità.
Tale scelta è divenuta essenziale e determinante. Che atteggiamento adottare davanti all’Altro? Come considerarlo?
Potrebbe finire con un duello, un conflitto, una guerra. Testimonianze di scontri simili riempiono tutti gli archivi possibili e immaginabili.
E gli innumerevoli campi di battaglia e le rovine disseminate ovunque nel mondo lo confermano. Ciò mostra la sconfitta dell’uomo; che non ha saputo o voluto trovare una modalità d’intesa con l’Altro. Le letterature di ogni paese, di ogni epoca, hanno tratto ispirazione da questa tragedia e da questa debolezza umana. Ne hanno anzi fatto uno dei loro temi privilegiati, modulabile all’infinito.
Può anche accadere che la famiglia-tribù, di cui seguiamo le tracce, invece di attaccare e combattere decida di isolarsi dagli Altri, di rinchiudersi, di barricarsi. Un atteggiamento del genere dà per risultato col tempo costruzioni che obbediscono a una volontà di difesa, come le torri giganti e le porte di Babilonia, i limes romani, la Grande Muraglia della Cina o le fortificazioni colossali degli Incas.
Per fortuna esistono prove, sparse sull’intero pianeta, che l’incontro di gruppi umani può anche essere stato di un terzo tipo. Abbondano le testimonianze di cooperazione. Vestigia di mercati, di porti marittimi e fluviali, di luoghi in cui si innalzavano agorà e santuari, dove sono oggi ancora visibili i resti delle sedi universitarie o di antiche accademie. Così le tracce di vecchie vie dei commerci, come quelle della seta, dell’ambra, o quella sahariana del sale e dell’oro.
Spazi che erano luoghi d’incontro; le persone entravano in contatto e comunicavano, scambiavano idee e mercanzie, stipulavano atti d’acquisto e di vendita, concludevano affari, stabilivano unioni e alleanze, si prefiggevano identici obiettivi fondati su valori comuni. L’Altro cessava allora di essere sinonimo di sconosciuto ostile e di avversario, di pericolo mortale e di incarnazione del Male. Ogni individuo possedeva in sé una parte, sia pur minuscola, dell’Altro, o almeno così credeva, e questo lo riconciliava con tutti gli uomini della Terra.
Cosicché l’essere umano ha sempre avuto tre diverse reazioni dinanzi all’Altro: poteva scegliere la guerra, isolarsi dietro una muraglia o cominciare un dialogo. Nel corso della storia, l’uomo ha esitato tra queste tre vie e, a seconda della sua cultura e dell’epoca in cui viveva, ha scelto una delle tre. Notiamo che è sempre piuttosto velleitario nelle sue decisioni; non si sente mai sicuro di sé, e gli manca sempre il terreno sotto i piedi.
Quando l’incontro con l’Altro sfocia nello scontro, di solito si finisce con la tragedia e la guerra. E in guerra non ci sono che perdenti. Perché l’incapacità di intendersi con gli Altri, di mettersi nei loro panni, rivela il fallimento dell’essere umano e pone la questione dell’intelligenza dell’uomo.
Al desiderio di alcuni di innalzare attorno a sé muraglie gigantesche e scavare profondi fossati per isolarsi dagli Altri è stato dato oggidì il nome di apartheid; nozione attribuita al deprecabile governo dei bianchi, oggi tramontato, in Sudafrica. Ma di fatto l’apartheid esiste da tempo immemorabile. Semplificando molto, si tratta di una dottrina che i suoi fautori così descrivono: «Tutti possono vivere come meglio credono, a condizione che mi stiano lontani, se non appartengono alla mia razza, alla mia religione e alla mia cultura». E non fosse che questo! La realtà è che ci troviamo di fronte ad una dottrina che si fonda sull’ineguaglianza del genere umano.
Nei miti e nelle leggende di numerosi popoli leggiamo la convinzione che solo «noi» - i membri del nostro clan, della nostra comunità - siamo esseri umani; tutti gli Altri sono delle sottospecie. L’insegnamento degli antichi cinesi illustra al meglio questo atteggiamento: il non cinese era considerato come un «escremento del Diavolo» o, nel migliore dei casi, come un povero miserabile che non aveva avuto la fortuna di nascere in Cina. Perciò l’Altro veniva rappresentato come cane, topo o rettile. L’apartheid è sempre stato una dottrina di odio, di disprezzo e di ripugnanza nei confronti dell’Altro, lo strano straniero.
L’immagine dell’Altro era molto diversa nel periodo delle credenze antropomorfiche, quando gli dei potevano avere aspetto umano e comportarsi come mortali. Allora non si poteva mai sapere se il viaggiatore o il pellegrino che ci veniva incontro era dio o uomo. Tale indeterminazione, tale straordinaria ambivalenza costituisce una delle fonti della cultura dell’ospitalità, che esige un trattamento magnanimo del visitatore; un visitatore la cui natura non è identificabile.
Un «poeta maledetto» polacco del XIX secolo, Cyprian Norwid, ha scritto su questo tema. Nell’introduzione al suo Odisseo, riflette sull’origine dell’ospitalità che protegge Ulisse al suo ritorno a Itaca. «In quei luoghi dietro qualsiasi forestiero, mendicante o vagabondo» scrive Norwid, «si sospettava un essere divino. Non era concepibile, prima di accoglierlo, domandare al visitatore chi fosse; solo dopo aver immaginato la sua origine divina ci si poteva abbassare a domande di carattere terreno, e questo si chiamava ospitalità; e per il medesimo motivo essa faceva parte delle pratiche e delle virtù più sacre.
I greci dell’epoca omerica non conoscevano l’"ultimo degli uomini"! L’uomo era sempre il primo, cioè divino».
La cultura compresa dai greci, nel senso profondo in cui l’intende Norwid, mette in luce nuovi significati delle cose, significati generosi e benevoli. Porte e portoni servono ad allontanare l’Altro, ma possono anche aprirglisi davanti, invitandolo a varcarli. La strada non deve necessariamente essere il punto da cui si attende l’arrivo delle truppe nemiche, può anche essere il cammino attraverso il quale, celato sotto vesti da pellegrino, giunga alla nostra dimora uno dei nostri dèi.
Grazie a interpretazioni come questa cominciamo a intravedere un mondo non solo più ricco, ma anche più accogliente, in cui si è meglio disposti verso i nostri simili; un mondo nel quale sentiamo il bisogno di uscire incontro all’Altro.
Emmanuel Levinas chiama «evento» l’incontro con l’Altro; lo definisce anzi «evento fondamentale». Secondo lui si tratta dell’esperienza più importante, quella che apre i massimi orizzonti. Levinas fa parte della famiglia dei filosofi dialogisti - come Martin Buber, Ferdinand Ebner e Gabriel Marcel - che hanno sviluppato l’idea dell’Altro, in quanto entità unica e inimitabile, a partire da posizioni opposte ai due fenomeni caratteristici del XX secolo: la società di massa, che annulla l’unicità dell’individuo; e le ideologie distruttrici e totalitarie.
Questi filosofi tentano di salvare ciò che considerano il valore supremo: l’individuo. Cercano di preservare dalla massificazione e dai totalitarismi, distruttori di ogni identità individuale, me, te, l’Altro, gli Altri (hanno, a tale scopo, diffuso la nozione di Altro con l’A maiuscola: per sottolineare la differenza tra gli individui, e la differenza tra le loro caratteristiche individuali, uniche e inaccessibili).
Questa corrente di pensiero ha avuto una grande importanza; elevava e salvava l’essere umano, elevava e salvava l’Altro, dinanzi al quale - come dice Levinas - devo mettermi su un piano di eguaglianza e mantenere un dialogo; ma ho anche il dovere di «essere responsabile di lui».
In quanto all’atteggiamento verso l’Altro - verso gli Altri - , i dialogisti rifiutano la guerra, che considerano come una via che conduce ad un’unica meta: la distruzione. Criticano egualmente l’indifferenza e il rinchiudersi dietro una muraglia. Raccomandano l’opportunità - il dovere etico - di posizioni aperte, di vicinanza e buone disposizioni.
Nel seno della stessa corrente di riflessione sta la grande figura dell’antropologo Bronislav Malinowski (1884-1942), assai prossimo alle posizioni sostenute dai dialogisti.
La sfida di Malinowski: come avvicinarsi all’Altro quando non si tratta di un essere ipotetico né teorico, ma di un essere in carne ed ossa che appartiene a un’altra etnia, che parla un’altra lingua, che ha una fede e un sistema di valori differenti, che ha i propri costumi e tradizioni, e la propria cultura?
In generale, la nozione dell’Altro è stata definita dal punto di vista del bianco, dell’europeo. Ma quando, oggi, passeggio in un villaggio etiope tra le montagne, dietro di me si forma un codazzo di allegri bambini; mi additano gridando: «Ferenchi! Ferenchi!».
Il che significa, appunto, «altro», «straniero». È solo un piccolo esempio dell’attuale degerarchizzazione del mondo e delle sue culture.
Certo è che l’Altro a me appare diverso; ma lo stesso accade a lui.
Per lui sono io l’Altro.
In tal senso ci troviamo tutti nella stessa situazione. Tutti gli abitanti del pianeta sono Altri rispetto agli Altri: io rispetto a loro, loro rispetto a me.
All’epoca di Malinowski (e nei secoli precedenti) il bianco, l’europeo non lasciava il proprio continente che per un unico scopo: la conquista.
Varcava i confini della patria per impadronirsi di altri territori, prendere schiavi, commerciare o evangelizzare. Le sue spedizioni si trasformavano spesso in bagni di sangue, come nel caso della conquista delle Americhe dopo Cristoforo Colombo, seguita da quella dei coloni bianchi venuti dal Vecchio Continente, poi la conquista dell’Africa, dell’Australia, eccetera.
Malinowski viaggia nelle isole del Pacifico con un progetto diametralmente opposto: conoscere l’Altro; lui e i suoi vicini, i costumi e la lingua, studiare il modo di vita. Vuole vederlo coi propri occhi e viverlo nella propria carne. Auspica di accumulare esperienze di cui rendere conto in seguito.
Un progetto, che di primo acchito ci sembra evidentissimo, diviene tuttavia rivoluzionario, «mondoclasta» (se mi si passa il neologismo), poiché rivela una debolezza - a vari livelli - , o piuttosto una caratteristica intrinseca ad ogni cultura: ciascuna ha difficoltà a comprendere l’altra.
Per esempio, dopo essere arrivato sul territorio oggetto dei suoi studi - le isole Trobriand (attualmente Kiriwina, in Papuasia-Nuova Guinea) - , Malinowski nota che i bianchi che ci vivono da anni non soltanto non sanno nulla della popolazione locale e della sua cultura, ma ne hanno anzi un’idea falsa, frutto di arroganza e disprezzo.
Contrariamente ai costumi coloniali consueti, Malinowski pianta la tenda al centro del villaggio e vive con la popolazione locale. L’esperienza non sarà al tutto piacevole. Nel suo Diario nel senso stretto del termine ([1]) evoca le sue difficoltà, parla della sua angoscia, del suo sconforto, dei frequenti stati depressivi.
Qualsiasi persona strappata - volontariamente o meno - alla propria cultura paga un alto prezzo. Ecco perché è così importante possedere un’identità propria e definita, insieme alla ferma convinzione della forza, del valore e della maturità di tale identità. Solo così l’uomo può affrontare serenamente un’altra cultura. In caso contrario, avrà la tendenza a chiudersi nella sua tana, a isolarsi, pauroso del mondo che lo circonda. Mentre l’Altro non è che il riflesso della sua propria immagine, come egli stesso lo è per l’Altro - un riflesso che lo smaschera, lo mette a nudo, cose che, in generale, si preferisce evitare.
Importante notare che all’epoca in cui l’Europa natale di Malinowski era il teatro della prima guerra mondiale, il giovane antropologo si concentrava sullo studio della cultura dello scambio. Lavorava sui contatti tra gli abitanti delle isole Trobriand e i loro riti comuni, ricerche i cui esiti confluiranno nell’opera Gli Argonauti del Pacifico occidentale (1922) ([2]), e a partire dalle quali formulerà la sua tesi così essenziale e purtroppo così poco presa in considerazione: «Per poter giudicare occorre essere sul posto».
Malinowski formulerà anche un’altra tesi, particolarmente azzardata per l’epoca: «Non esistono culture superiori né inferiori, ci sono solo culture differenti che, ciascuna a suo modo, soddisferanno le necessità e le aspettative di chi le condivide». Per l’etnologo, l’individuo che appartiene a un’altra etnia o a un’altra cultura è una persona il cui comportamento - e vale anche per tutti noi - custodisce e ispira la dignità, il rispetto per dei valori stabiliti, per una tradizione e dei costumi.
Malinowski elaborava i suoi lavori nel momento della comparsa della società di massa. Oggi viviamo un’epoca di transizione tra la società di massa e la società planetaria. Numerosi sono i fattori che favoriscono questo passaggio: la rivoluzione informatica, l’impressionante sviluppo delle comunicazioni, l’insolita facilità degli spostamenti, e anche - in rapporto a tutto questo - le trasformazioni nella mentalità delle giovani generazioni, nel campo della cultura nell’accezione più ampia del termine.
In che cosa tutto questo può mutare il nostro atteggiamento verso le persone di differente/i cultura/e? Quale influenza avrà nella mia relazione con l’Altro? Rispondere a domande del genere si rivela indispensabile, ma parliamo di un fenomeno in corso, nel quale siamo noi stessi immersi.
Levinas ha posto la questione della relazione Io-l’Altro nell’ambito di una sola civilizzazione storica e omogenea sul piano etnico. Malinowski ha studiato le tribù della Melanesia in un’epoca in cui esse serbavano ancora, nelle linee essenziali, il loro stato originale, al sicuro dall’ulteriore contaminazione.
Fatto ormai rarissimo. La cultura diventa ogni giorno più ibrida, eterogenea, mescolata. Di recente, a Dubai, sono stato testimone di una scena rivelatrice: una ragazza passeggiava lungo il mare.
Musulmana, senza ombra di dubbio. Il capo era interamente coperto dal velo, serrato in maniera così puritana e perfetta che non si vedano neppure gli occhi. Ma al contempo portava un top senza maniche e jeans molto attillati... Al giorno d’oggi esistono scuole di pensiero, in discipline come la filosofia, l’antropologia e la critica letteraria, particolarmente attente a tutti i meccanismi di «ibridazione», di pluriculturalismo e di commistioni culturali. Lo si osserva soprattutto nelle regioni le cui frontiere tra i vari paesi sono state anche frontiere tra culture (come quelle tra gli Stati uniti e il Messico); e del pari in megalopoli come Sao Paulo, Singapore o New York, dove regna un crogiuolo di razze e di culture le più diverse.
Definiamo il mondo attuale multietnico e multiculturale, ma non per l’aumento numerico di comunità e culture, ma perché esse parlano con voce sempre più udibile, indipendente e determinata, ed esigono il riconoscimento del loro giusto valore, e un posto al tavolo delle nazioni.
La seconda metà del XX secolo rappresenta il momento in cui i due terzi della popolazione mondiale si sono affrancati dal giogo coloniale, divenendo cittadini di stati indipendenti. A poco a poco queste persone hanno cominciato a scoprire il proprio passato, cultura e immaginario, miti e leggende, radici e identità. E una volta acquisite queste conoscenze, essi ne traggono una legittima fierezza.
Queste donne e questi uomini un tempo colonizzati vogliono ormai disporre del proprio destino; e non sopportano più di essere trattati come oggetti, come figuranti, come vittime passive di una passata dominazione straniera.
Abitato nel corso dei secoli da un manipolo d’uomini liberi e da enormi masse di esseri umani ridotti in schiavitù o servaggio, il nostro pianeta ha visto moltiplicarsi il numero delle nazioni sovrane che hanno acquisito il senso della propria identità e importanza politica, sempre in crescita di pari passo con il loro numero. Tale evoluzione si è spesso scontrata con difficoltà enormi, con conflitti e tragedie, e il loro spaventoso tributo di vittime. Tutto ciò apre la via verso un mondo talmente nuovo che le esperienze accumulate nel corso della storia forse non ci basteranno per comprenderlo e orientarsi. Comunque possiamo definirlo «il pianeta della grande opportunità». Ma a certe condizioni.
In questo mondo futuro ci imbatteremo ogni momento in un nuovo Altro che, a poco a poco, emergerà dal caos e dalla confusione della nostra contemporaneità. Dobbiamo tentare di comprenderlo, e cercare di dialogare con lui. Questo Altro nasce dalla confluenza delle due correnti sottese alla cultura del mondo contemporaneo; la corrente della globalizzazione liberale, che uniforma la nostra realtà, e il suo contrario, la corrente che preserva le differenze, la nostra originalità e la nostra «irriproducibilità».
La mia esperienza di coesistenza durante i lunghi anni trascorsi con Altri, lontanissimi da noi - bianchi, occidentali, europei - , mi ha insegnato che la buona disposizione verso un altro essere umano è l’unico modo di far vibrare la corda dell’umanità comune.
Chi sarà il nuovo Altro? Come avverrà il nostro incontro? Che ci diremo? In quale lingua? Sapremo ascoltarci? Sapremo comprenderci?
Sapremo, entrambi, seguire quello che - come dice Joseph Conrad - «parla alla nostra capacità di gioia e di meraviglia, al senso di mistero che circonda le nostre vite, al nostro senso di pietà, di bellezza, di dolore, al latente sentimento di comunione con tutto il creato, e alla sottile ma invisibile condizione della solidarietà che unisce assieme la solitudine di innumerevoli cuori, alla solidarietà nei sogni, nel piacere, nella tristezza, nelle aspirazioni, nelle illusioni, nella speranza, nella paura, che lega gli uomini l’uno all’altro, che lega assieme tutta l’umanità, i morti ai vivi ed i vivi a quelli che nasceranno»? ([3])


note:

* Ryszard Kapuscinski, scrittore e giornalista polacco, autore, in Italia, tra gli altri libri di: Il Negus. Splendori e miserie di un autocrate (1983), Imperium ( 1994), Ebano ( 2000), Sahah-in-Shah (2001), La prima guerra del football e altre guerre di poveri (2002), In viaggio con Erodoto (2005) tutti editi da Feltrinelli. Il presente testo è tratto dal discorso pronunciato dall’autore il 17 giugno 2005, in occasione del conferimento della laurea honoris causa da parte dell’università Ramón Llull di Barcellona.



Note

[1]In Giornale di un antropologo, Armando, Roma, 1992

[2] Argonauti del Pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva, Bollati Boringhieri, Torino, 2004

[3] Joseph Conrad, Il negro del Narciso, traduzione di Mario Curreli, Milano, Bompiani, 1992, p. 6.
(Traduzione di I. L.)



Giovedì, 23 marzo 2006