A ciascuno di noi sarà senzaltro capitato di ascoltare o anche di ripetere dentro di sé, talvolta involontariamente, un motivo musicale e di intuire proprio in quel motivo lidea dellamore che stiamo vivendo o abbiamo vissuto, di riconoscere anzi incarnata lidea stessa che abbiamo dellamore. Lidea è tuttuno con la sua presentazione sensibile, lamore inseparabile da quel motivo musicale. Ma si potrebbero fare molti altri esempi. Basterebbe seguire Marcel Proust che nella sua Recherche si è fermato su queste idee «impenetrabili allintelligenza», eppure ben distinte le une dalle altre. Famosissimo è un passo della Strada di Swann in cui il protagonista, bevendo il tè e gustando un pezzetto di madeleine, riassapora l«essenza» del paese in cui trascorreva le vacanze da bambino e coglie così lidea, lin sé della cittadina di Illiers che Proust aveva ribattezzato con il nome di Combray. È da questo famoso passo della Recherche che prende le mosse lultimo volume di Mauro Carbone, Una deformazione senza precedenti. Marcel Proust e le idee sensibili pubblicato da Quodlibet. Lintento non è quello di fornire una nuova interpretazione del testo: Proust non è qui loggetto di una analisi, piuttosto è uno dei protagonisti del libro che si sviluppa in una sorta di polifonia, di coro a più voci. Ed è anzi Proust il primo a parlare. Perché attraverso una splendida descrizione fenomenologica fa vedere quello che i filosofi hanno stentato per secoli a vedere: lesistenza cioè di idee sensibili. Carbone accoglie dunque il suggerimento di Proust e lo sviluppa allinterno del dibattito filosofico contemporaneo portando a compimento una ricerca iniziata già con Ai confini dellesprimibile (Guerini, 1983) e proseguita fra laltro con il volume Di alcuni motivi in Marcel Proust (Cortina, 1998).
Ma nella polifonia del libro ci sono almeno altre due voci che non vanno dimenticate: quelle di Maurice Merleau-Ponty e quella di Gilles Deleuze. Entrambi hanno tradotto in termini filosofici la descrizione narrativa di Proust. Ma è a Mauro Carbone che va il merito non solo e non tanto di aver diretto abilmente il coro, quanto soprattutto di aver portato alle estreme conseguenze quello che Merleau-Ponty per un verso e Deleuze per laltro hanno pensato o anche solo intuito. In uno degli ultimi corsi tenuti al Collège de France nel 1961, poco prima di morire, e pubblicato poi solo nel 1996, Merleau-Ponty si chiede se in quelle idee descritte da Proust non si possa scorgere una concezione generale delle idee, una teoria non platonica o, meglio, non platonistica delle idee. E perciò propone di chiamarle «idee sensibili» - una definizione provocatoria per tutta la metafisica basata comè noto sulla netta separazione tra ciò che è sensibile e ciò che è intelligibile. È alla domanda lasciata aperta da Merleau-Ponty che Carbone intende rispondere, facendola interagire con i risultati della indagine compiuta da Deleuze nel volume Marcel Proust e i segni (Einaudi, 2003). Le convergenze dei due filosofi, a partire da Proust, non sono poche. Quel che Deleuze chiama «in sé di Combray», riassaporato nella madaleine, non è molto lontano dall«idea sensibile» di Merleau-Ponty. Perché attribuisce paradossalmente un nucleo di verità immutabile a un oggetto, anzi a un luogo singolare, per di più inesistente sulla carta geografica. L«in sé di Combray» è allora un altro modo per dire «idea sensibile», unidea inseparabile dal suo differente manifestarsi nella sensibilità che avrà non per caso conseguenze nel modo in cui Deleuze elaborerà il concetto di «differenza» (Differenza e ripetizione, Cortina, 1997). In gioco è qui il rapporto tra universale e individuale, intelligibile e sensibile, identità e differenza - a seconda della prospettiva che si assume - nodo fondamentale della tradizione filosofica che il pensiero contemporaneo prova a ri-leggere, tentando però di non cadere in un platonismo alla rovescia che si limiti a prendere le parti dellistanza repressa. Consapevole di questo rischio, Carbone rivaluta la sensibilità senza per questo eliminare lidea; semmai delinea un modo nuovo di intenderla sulla base della radice comune di idealità e presenza sensibile, attività e passività.
Ma che cosa vuol dire che lidea è inseparabile dalla sua manifestazione sensibile? Vuol dire che lidea non esiste né prima, come ha voluto il platonismo, perché non è il modello originario di cui la manifestazione sarebbe solo una copia, ma non esiste neppure dopo, come ha preteso lempirismo, perché non è un oggetto logico, il risultato dellastrazione dei tratti comuni di tanti oggetti particolari. Parlare di «idee sensibili» significa allora ammettere che lidea è presente solo nelle sue manifestazioni sensibili, anche se queste non la esauriranno mai, anche se dunque lidea le eccederà sempre, come il tutto eccede, va oltre le parti che lo costituiscono. Lidea descritta da Proust è insomma una forma che si dà solo nella carne delle sue deformazioni sensibili - deformazioni che non si basano su una forma preliminare, che sono dunque senza precedenti. E proprio nella «deformazione senza precedenti» Carbone scorge la peculiarità dellarte nel novecento. Questa arte non solo accetta la voyance, come la chiama Merlau-Ponty, quel vedere che non è assoggettare, ma piuttosto assecondare, con un occhio che ascolta, il mostrarsi del sensibile; ma in più, sapendo di essere per sua essenza deformazione, rinuncia a ogni forma originaria.
Let it be, «lascia che sia», può essere allora il motto per indicare la genesi dellidea sensibile accolta in un soggetto che non è più tale, perché è la cavità in cui lidea si manifesta, cassa di risonanza del suo incontro con la carne del mondo. In questo incontro si produce per noi una «iniziazione» allidea che si delinea attraverso le sue deformazioni. Lidea sensibile non è né allinizio, né alla fine: la sua presenza-assenza è data solo simultaneamente, appunto attraverso le sue deformazioni.
Che cosè ad esempio la nostra idea sensibile dellamore? È quellidea che ci siamo fatti nei singoli rapporti amorosi, che attraverso questi ha assunto fisionomia, senza potersi esaurire in nessuno - a meno di non volersi esporre al dolore di una delusione. Il nesso che lega quei rapporti, ciascuno differente dallaltro, fa pensare alla corda di Wittgenstein, a somiglianze di famiglia che fanno sì che tra i rapporti damore ci sia qualcosa in comune che non può però essere ridotto allastrazione di unidentità.
Come riconoscere allora lidea sensibile senza questa identità? Come riconoscere senza la garanzia di una somiglianza? Soprattutto: come riconoscere quel che prima non si conosceva? Domanda che percorre la filosofia a partire da Platone e a cui è dedicata lultima parte del libro di Carbone dove viene assumendo rilievo il concetto di «memoria involontaria».
Mediante un confronto serrato con Freud e una ricostruzione della «reminiscenza» nelletà greco-arcaica, viene sottolineato il carattere creativo del riconoscere - che è sempre conoscere più di quel che si conosce - e dunque della memoria. Ricordare è alla fine creare. Perché la memoria fa sì che lidea sensibile si sedimenti, che divenga «essenza carnale», proiettandola in un tempo mitico e indistruttibile; qui lidea sensibile si rivela unanticipazione di conoscenza che non potrà più essere richiusa e che sarà anzi destinata a venire ogni volta ripresa e trasformata nel mistero di unidentità che si ripete.
Giovedì, 10 marzo 2005
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