“Crescere” non è più parola d’ordine

di Umberto Galimberti ("la Repubblica", 13 dicembre 2003)

L’ultimo rapporto Censis non assomiglia ai precedenti. È cambiata la griglia di lettura. Non più un’Italia fotografata sotto il profilo dello sviluppo o del declino come prima avveniva, ma un’Italia guardata in ciò che da sé sta sperimentando nella sua dinamica profonda.
Liberati dalla coazione a ragionare sempre in termini di «crescita», sembra che i pensieri e i comportamenti degli italiani si vadano orientando, come vuole l’espressione del presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Altrimenti che allo sviluppo». E questo può dipendere dal fatto che i singoli individui o le singole imprese si sentono impotenti a modificare l’andamento dell’economia che, per effetto della globalizzazione e forse della supremazia dell’aspetto finanziario (e virtuale) su quello produttivo (e reale), sembra sia divenuta qualcosa di trascendente, qualcosa di governato da un dio ignoto, ì cui disegni nessuno davvero conosce.
Oppure quel pensare «altrimenti che allo sviluppo» può derivare dal fatto che nel sottosuolo della nostra coscienza collettiva sta incrinandosi il mito della crescita che gli economisti applicano sia ai paesi diseredati che raccolgono i quattro quinti dell’umanità, sia ai paesi sviluppati che nonostante ciò devono crescere. Sin dove? E a spese di chi? E a quali costi ambientali? Qui l’economia tace perché il problema non è di sua competenza, e con l’economia tacciono anche le voci degli uomini che alle leggi dell’economia si devono piegare.
Quando dico «economia» non dico solo agricoltura, commercio, industria e finanza, ma dico soprattutto mentalità diffusa, perché questo è diventato, nel modo di pensare e di sentire di tutti, l’imperativo categorico della «crescita».
Figli come siamo di padri, che a loro volta sono cresciuti sul lavoro dei nonni, siamo ormai alla terza o quarta generazione che «cresce» con un ritmo che la storia non ha mai conosciuto. La categoria della crescita è così diventata una forma mentis, uno stato d’animo, un rimedio all’angoscia, una garanzia per sé e per i propri figli, una caparra per il futuro, per cui, se per effetto dei parametri di Maastricht, se per mettere in ordine i conti, se a causa del basso costo della mano d’opera nei paesi in via di sviluppo, se per questi o altri motivi la speranza della crescita si affievolisce accade una paralisi del pensiero, una confusione del sentimento, un’ansia per il futuro, un senso di inquietudine come quando sugli aerei si infila un vuoto d’aria e tutti composti ostentiamo quella tranquillità smentita dai brividi del nostro ventre, che però avvertiamo solo noi.
E così ciascuno per sé sente il brivido della «crescita zero» a cui non sa con che strumenti reagire perché, avendo affidato ormai da tempo la comunicazione personale ai «mezzi di comunicazione», avendo scambiato l’amore per i figli con le cose da garantire ai figli, il riposo dal lavoro con il traffico furioso delle festività, cosa accade quando bisogna imparare di nuovo a parlare tra noi con qualche televisore in meno, quando bisogna riuscire a fare arrivare il nostro amore senza quel veicolo sbrigativo che sono le cose, quando bisogna imparare a cambiare il cielo della nostra anima senza l’aiuto di un’agenzia di viaggio?
E queste cose bisogna impararle subito, perché la «crescita zero» forse sarà sempre più il nostro futuro, non solo perché non possiamo continuare a pensare che i quattro quinti dell’umanità continuino a sacrificarsi per la nostra «crescita», ma perché quando la crescita non ha altro scopo che continuare a crescere, è l’uomo stesso del mondo privilegiato a divenire semplice «funzionario» di questa idea fissa che, se diventa lo scopo collettivo della vita di tutti, affossa e seppellisce il senso dell’esistenza, il suo sapore, il suo significato per noi. Dal rapporto Censis, sembra che gli italiani abbiano rinunciato all’individualismo sfrenato e aggressivo degli ultimi decenni e incomincino a privilegiare il «noi» rispetto all’ «io». Il noi del volontariato, della reciproca assistenza, della familiarità del borgo rispetto all’anonimato della metropoli, il noi della convivialità, dei comportamenti virtuosi in ordine alla circolazione stradale, alla scelta e al consumo dei cibi, alle condotte a rischio, agli stili di vita.
Valori non economici, non sappiamo se dettati dalla rassegnazione di chi è consapevole di non poter controllare o modificare l’andamento dell’economia, o dal rifiuto a sacrificare la propria esistenza al mito della crescita, che visualizza gli uomini solo come produttori e consumatori. Con l’aggravante che in una società che visualizza se stessa solo in termini di sviluppo e di crescita, il consumo non deve essere più considerato, come avveniva perle generazioni precedenti, esclusivamente come soddisfazione di un bisogno, ma anche, e oggi soprattutto, come mezzo di produzione. Là infatti dove la produzione non tollera interruzioni, le merci «hanno bisogno» di essere consumate, e se il bisogno non è spontaneo, se di queste merci non si sente il bisogno, occorrerà che questo bisogno sia «prodotto».
In una società opulenta come la nostra, dove l’identità di ciascuno è sempre più consegnata agli oggetti che possiede, i quali non solo sono sostituibili, ma «devono» essere sostituiti, può darsi che si cominci ad avvertire, sotto quel mare di pubblicità che ogni giorno ci viene rovesciato addosso, una sorta di appello alla distruzione, una forma di nichilismo dovuto al fatto, come scrive Günther Anders, che «L’umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via, tratta anche se stessa come un’umanità da buttar via». Che nel sottosuolo della nostra anima collettiva si sia fatta strada questa sensazione che muta la gerarchia dei nostri pensieri e la forma dei nostri comportamenti? Se così fosse sarebbe utile che anche i nostri politici se ne accorgessero e, invece di coltivare, sedurre o allarmare l’opinione pubblica in funzione dei loro scopi, facessero i conti che ciò che sta realmente avvenendo.



Mercoledì, 31 dicembre 2003