4/10/88 ore 21.00 Ieri sera dopo cena abbiamo parlato a lungo con Kineret. Argomento: cosa ci lega a Israele, un paese che ha solo quarantanni e dove vivono ebrei venuti da tutto il mondo? Alcune hanno detto che è la terra dei nostri avi: Abramo, Isacco, Giacobbe, Davide. Altre hanno risposto che lo sterminio degli ebrei dEuropa, durante la seconda guerra mondiale, ha provato che agli ebrei serve uno stato in cui rifugiarsi in caso di minaccia. Altre ancora ci hanno detto che loro sono nate qui, perciò sono attaccate alla propria terra. Poi Kineret ci ha letto un brano, che ricopio qui: UN TOPO NEOZELANDESE, DI ADI LEWINSON A volte mi chiedo che cosa si provi a vivere in Nuova Zelanda. Girare per le isole dellOceano Pacifico, vivere in un paese che non si trova facilmente sulle carte geografiche, crescere in una città con i tetti rossi e passeggiare in un campo verde, abitare in una casa costruita dagli avi, essere il nipote di un nonno morto di vecchiaia, studiare la storia degli ultimi duecento anni su un libro grigio e sottile e spillare vino dalla botte in cantina. Una cantina che non è un rifugio. Essere neozelandese e fare progetti a lunga scadenza, seguire con emozione i successi della squadra di calcio locale, magari arruolarsi nellesercito professionale, perché non esiste il servizio militare obbligatorio. Essere libero dallesercito, leggere un giornale neozelandese e non capire quel che succede in Terra Santa, dove la gente si fa ammazzare per ogni metro di terra, quando il mondo è grande e la vita preziosa. Credere che tutti gli uomini siano uguali. Essere neozelandese e sapere che un cannone spara solo per il compleanno della regina Elisabetta, che una granata è un frutto che macchia i vestiti, che un sacco a pelo serve per il campeggio, e che una vedova, in genere, è una vecchia signora. E quando la vicina racconta che il figlio è caduto, chiederle se si è fatto male. Dio che ci hai scelto tra i popoli, non vengo a te con dei rimproveri. Accetto la sentenza con amore e fierezza. Non scambierei Gerusalemme con Wellington e la mia vita qui con una vita piú facile, non importa dove. Questa è la mia terra! Ma è giusto che in Nuova Zelanda si muoia di noia? Già. Questa è la nostra terra: un paese in cui le vedove hanno trentanni e i cannoni non hanno mai taciuto. E quando si dice che il figlio della vicina è "caduto", tutti sanno che è caduto in guerra. In un silenzio commosso, ci sentiamo parte di una grande catena carica di storia, di morti ma anche di speranza. Tutte tranne una, Daniela (dellaltra tenda) che esclama: - Che idiozia, questa si chiama propaganda. Kineret alza un sopracciglio e le ragazze rispondono, quasi urlando: - Non sai quello che dici! Si tratta del nostro paese! Della nostra storia! Non hai il diritto di dire queste cose! Daniela rimane tranquilla e risponde semplicemente: - Vi bevete tutto quello che vi propinano. Vi parlano di un paese idilliaco e voi ci credete. Siete delle ingenue. Queste parole dolciastre vanno bene per le trasmissioni televisive del giorno dellIndipendenza. Vanno bene per far credere alle masse che siamo cosí belli, non è vero? Cosí gentili, cosí sensibili, cosí pacifisti, e che sfortunatamente dobbiamo sempre difenderci. - Ma è la verità! - protesta Vered. - Quale verità? Quella a cui voi volete credere per non porvi domande sulluniforme che portiamo... su ciò che rappresenta per i palestinesi, per esempio. Un momento di silenzio. Credo che nessuna abbia mai riflettuto davvero su questo problema. Kineret ascolta senza intervenire. Poi lemozione riprende il sopravvento: - Aspetta! Questo non centra niente! Noi abbiamo una storia particolare, gli ebrei sono stati perseguitati dappertutto per secoli e i pionieri sionisti si sono sacrificati perché noi potessimo vivere qui, in pace... - Appunto, centra eccome - la interrompe Daniela. - Finché avremo questa immagine romantica e irreprensibile di noi stessi, continueremo a opprimere un altro popolo senza neanche accorgercene. - Ma sono loro che... La discussione sui palestinesi si impantana. A corto di argomenti, il "partito delle patriote" getta in faccia a Daniela i morti della Shoah, quelli della guerra dIndipendenza, della guerra dei Sei Giorni, della guerra del Kippur, della guerra in Libano. E tra quei morti ognuna ha una nonna, uno zio, un padre, un fratello, un cugino, un amico. Io non dico una parola. Non ho parenti morti da riesumare. Penso che Daniela abbia ragione, ma che sia meglio spiegare le cose in un altro modo, senza provocare crisi di pianto, senza rimettere tutto in discussione. Oppure bisogna davvero disperarsi, togliersi luniforme e disertare allistante.
Mercoledì, 30 luglio 2003
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