L’arte della ricusazione dell’onorevole Previti

di Franco Cordero (“la Repubblica, 15 aprile 2003)

La ricusazione è l’atto col quale una parte, privata o pubblica, rifiuta la persona fisica del giudice: ovvio che il gesto non basti; sono casi legalmente definiti. Gli artt. 36, c. 1, e 37, c. 1, ne contemplano 7, da intendere alla lettera, avverte una giurisprudenza costante, sprangando la via a letture analogiche o anche solo estensive. L’on. P. è un indefesso ricusatore, noncurante delle sconfitte (costano talmente poco, da 258 a 1549 euro). Stavolta assale en bloc i componenti del tribunale agitando il quarto dei 7 casi, «inimicizia grave». Massime consolidatela definiscono così: «rapporti personali estranei al processo»; non assumono rilievo i comportamenti processuali, anche anomali e disciplinarmente valutabili (Cass. 27 marzo 1992, Neri; Id. 25 giugno 1998, Arnesano; Id. 19 gennaio 2000, Previti). Gliel’avevano già detto ma séguita imperterrito. Qui non c’è nemmeno l’ombra della faida esterna (ad esempio, Oreste contro Egisto, Montecchi versus Capuleti, conflitti tra famiglie mafiose): avviene tutto nell’aula; gli torna comoda una translatio iudicii umbra e tre malvagi lo tengono lì, convinti che sia competente Milano. Classica questione processuale: le parti discutono, il Tribunale decide e al perdente spettano i soliti rimedi; aveva eccepito l’incompetenza; la riproponga nei motivi d’appello; qualora riperda, resta il ricorso in Cassazione. I tre, dunque, non sarebbero ricusabili nemmeno se Milano fosse incompetente, ma le carte esibite da P. provano l’opposto. Espongo la questione ad uso dei non-giuristi. L’art. 8 àncora la competenza al locus delicti, incerto il quale, l’art. 9 detta regole sussidiarie: è competente l’ufficio nel cui territorio risulti avvenuto un frammento della condotta delittuosa (l’ultimo, constandone più d’uno), e qui non se ne sa niente; residenza, dimora, domicilio, non giocano nei processi a più imputati residenti, dimoranti, domiciliati in luoghi diversi; e allora vale l’atto con cui il pubblico ministero iscrive la notitia criminis nel relativo registro; tra più iscrizioni, conta la prima. Secondo P., la priorità compete a Perugia, dove ne appare una sub 25 ottobre 1994 (il pubblico ministero milanese la iscrive 11 mesi dopo). Niente da obiettare sui tempi. Guardiamo però cos’hanno scritto le rispettive mani. L’accusa Imi-Sir è che le persone de quibus abbiano comprato e venduto sentenze (art. 319-ter c.p.). Anche nel registro umbro la notizia arriva dalla «causa civile Imi/Eredi Rovelli», ma un numero indica l’ipotetico delitto: art. 326 c.p.; e vi appare incriminato l’atto del pubblico ufficiale che rivela segreti. Succedono cose da farsa canagliesca nella predetta causa romana. Nino Rovelli, petroliere in bancarotta, sostiene che l’Imi, violando i patti, l’abbia mandato alla deriva, e chiede i danni: il Tribunale gli accorda il risarcimento, 1996; presiedeva F. V., attuale coimputato. Martedì 4 aprile 1989 cade l’udienza conclusiva sul quantum. Presiede C.M., guastafeste temibile perché vuol vederci chiaro: o meglio, dovrebbe presiedere; improvvisamente convocato in via Arenula, dove quel F.V. funge da capo-gabinetto del ministro, raccomanda che non chiamino Imi-Sir prima del suo ritorno; perfido pesce d’aprile; mentre partecipa alla finta riunione, i colleghi deliberano sul campo. Quando torna, actum est: 678 miliardi liquidati; con gl’interessi lievitano a 1000 nella sentenza d’appello redatta da V.M. (coimputato quale autore d’un capolavoro erculeo, 168 pagine manoscritte dalla sera alla mattina sul lodo Mondadori). Indi dal fascicolo Imi, ricorrente in cassazione, scompare la procura: ricorso improcedibile, secondo l’art. 369 c.p.c.; senonché M.C., presidente relatore, cerca una via d’uscita dallo stavolta iniquo formalismo e predispone in tal senso un appunto destinato alla camera di consiglio; mani ignote lo fotocopiano e divulgano; sebbene non vi sia niente d’eccepibile, offre l’astensione, sicuro d’una risposta negativa. No, estromesso dal capo dell’ufficio. La causa finisce nel senso predestinato. L’anonimo joker completa lo scherzo mandando in giro una fotocopia della procura. Gli inquirenti diranno poi che sui conti esteri dei tre avvocati d’affari all’opera sotto banco siano affluiti 67 miliardi, pari al 10% del bottino. Su esposto dell’Imi, Perugia (competente ex art. 11) iscrive così la notitia criminis: un ignoto ha svelato segreti d’ufficio; quell’appunto, presumo. Ora, l’art. 8, c. 3, contempla la notizia del fatto costituente oggetto del processo: qui l’accusa è corruzione, contro A., Pa., Pr., ecc.; nel registro umbro figura l’innominato disvelatore d’un segreto d’ufficio (episodio estraneo al giudizio milanese, il cui clou sono i 67 miliardi). Che nel mondo togato romano corra denaro, lo segnala una futura testimone, 11 mesi dopo. Diversi il fatto, diverse le persone, mentre i conflitti sulla competenza (art. 28) o «contrasti» tra pubblici ministeri indaganti (art. 54-bis e ter) presuppongono identici l’uno e le altre. Se a Perugia o altrove fosse preesistita la stessa notizia, sarebbe scoppiato un conflitto o contrasto, risolti secondo le rispettive norme. Ripetiamolo, un conto è che lo sconosciuto N riveli segreti d’ufficio; un altro che persone conosciutissime traffichino sentenze; quando anche i due avvenimenti appartengano allo stesso largo contesto, nessuno li confonde; la battaglia combattuta a Waterloo, domenica 18 giugno 1815, non è la colica della quale l’imperatore Napoleone ha sofferto venerdì 16 a Ligny. Che fatto e persona identifichino l’azione penale, lo sa ogni scolaro, ma i pragmatisti nouvelle vague marciano sotto l’insegna «abbasso le norme, il decoro, la grammatica». La materia sciagurata li aiuta: altrove esistono difese sintattiche, mentre sulla procedura penale pesano funesti ritardi culturali; l’asineria diventa macchina da battaglia. C’era da aspettarselo negli albori d’un regime onagrocratico (onagro=asino selvatico). Così Benedetto Croce aveva definito il fascismo, con una clausola: «temperato dalla corruzione»; e mi domando cosa direbbe dell’attuale, dove l’affarismo è filosofia della prassi. Volano ipotesi plausibili su come mai P., strenuo ricusatore, s’esponga all’ennesimo scacco: i suoi motivi sono talmente strambi da non meritare l’udienza camerale; e ogni volta la Corte tagliava corto (artt. 41, c. 1, e 611). Ora, una recente massima (Cass. 14 nov. 2001 n. 40511) verte sulla questione se il tribunale possa o no decidere quando il ricusante sconfitto ricorra: sì, dopo l’udienza, perché l’art. 127, c. 8, nega effetto sospensivo al ricorso; no, ogniqualvolta la corte abbia provveduto de plano (formula gergale equivalente a «sul tamburo»). In logica del diritto direi l’opposto: i motivi «manifestamente infondati» pesano meno degl’infondati senz’avverbio; da quando in qua il cieco vede meglio del monocolo? Ma bene o male, Roma locuta est. Ovvio quanto profitto contasse d’estrarne P: ancora sconfitto senza contraddittorio orale perché non ne vale la pena, sfodera il ricorso davanti al Tribunale, e l’ulteriore stasi significa 4 mesi guadagnati sull’unghia. Senonché stavolta gli concedono l’udienza: li convinca, se può, che risolvendo la questione nell’unico modo possibile, i tre abbiano compiuto un atto da nemici; e siccome non vi riuscirebbe nemmeno l’équipe Demostene-Cicerone-Quintiliano, dai quali i suoi patroni distano qualche pollice, incombono prospettive lugubri. Se perde lì, l’indomani il Tribunale nemico entra incamera di consiglio. Cos’avverrà oggi? Fossi un bookmaker, non accetterei scommesse, tanto prevedibile pare la pantomima: qualcosa gl’impedisce d’intervenire; i difensori chiedono un rinvio, invocando l’art. 127, c. 4; addurrà impegni parlamentari e via seguitando, nell’attesa che le Camere ridiventino luogo d’asilo. Il bello dello studiare le avventure processuali berlusconiano-previtesche sta nei casi monstre d’una patologia mai vista negli ultimi due secoli, da quando esistono codici. Qualche spiritoso li vanta come alternativa liberale all’orco giustizialista.



Mercoledì, 23 aprile 2003