Chateaubriand racconta Bonaparte
NAPOLEONE  -  immenso attore, immenso uomo

di Pietro Citati (“la Repubblica”, 19 settembre 1999)

La vita di Napoleone, che François-René de Chateaubriand scrisse negli anni intorno al 1840, è un libro stupendo, che raccomando con eguale calore agli amanti di letteratura e di storia. Quando narra l’incendio di Mosca, l’avanzata di Napoleone nella città deserta: o la fuga dell’esercito francese nella neve, con il battito dei tamburi «drappeggiato di galaverna» e il suono rauco delle trombe: o la battaglia di Waterloo, mentre Napoleone «ascolta, con l’occhio fisso, l’ultimo colpo di cannone che deve sentire nella sua vita» - il racconto di Chateaubriand non è meno intenso di quello di Tolstoi in Guerra e Pace. Lo sguardo dello storico è di una straordinaria precisione: il pensatore politico è tra i pochissimi dell’Ottocento che offrano ancora materia di meditazione. Tutto è scorciato, condensato, concentrato: tutto odora di Tacito e di epigrafi latine; la tradizione moralistica francese, da La Rochefoucauld a Joubert, trova qui il suo culmine. Non finite di ammirare la sovrana bellezza di gesto di questa prosa; e subito siete sorpresi dalla ferocia tenebrosa del suo sarcasmo.

Il fascino di questo libro nasce, in primo luogo, dal rapporto straordinario che Chateaubriand instaurò tra sé stesso, o la voce che scriveva le Memorie d’oltretomba, e il destino dell’imperatore. Napoleone era il suo doppio gigantesco e apparentemente fortunato: «il rumore dei suoi passi si mescolava al silenzio dei miei nelle mie passeggiate solitarie di Londra». Che importa se l’uno aveva ricevuto in dono la realtà, mentre lui afferrava con le mani soltanto chimere? La realtà di Napoleone era l’incarnazione di un sogno: mentre le chimere di Chateaubriand erano piene di una realtà che avrebbe potuto incarnarsi. Come osserva Marc Fumaroli, nella Vita di Napoleone non c’è la minima traccia di vanità; ma «una solidarietà misteriosa» tra il poeta e l’imperatore. Lungo la sua vita, e poi scrivendo le Memorie, Chateaubriand si era identificato con Napoleone: come nessuno storico si François-René de Chateaubriand
identificò mai con il suo personaggio, nessun critico letterario comprese ogni ombra del suo autore, nessun direttore d’orchestra condivise le note della sua partitura. Con piena ragione poteva dire di conoscere ognuna delle idee di Napoleone: ognuna delle sue passioni, dei suoi umori, e persino dei suoi gesti. Scrisse: «sentiva qualcosa ritirarsi da lui», come se fosse entrato nel suo ventre. Così la Vita di Napoleone è la storia di due destini paralleli. Chateaubriand non fa che fissare corrispondenze: vicine e lontane, reali e immaginarie, tra sé stesso e il suo doppio. Napoleone e lui erano nati nello stesso anno: il 10 agosto 1792, al momento dell’assalto alle Tuileries, erano vicini; mentre lui emigrava, Napoleone pensò di emigrare; mentre lui chiudeva gli occhi di Pauline de Béaumont, Napoleone invadeva l’elettorato di Hannover; mentre lui, a Gerusalemme, visitava il Santo Sepolcro l’altro entrava trionfalmente a Berlino.

Napoleone era «il più superbo genio d’azione che sia mai esistito»: «un poeta in azione», ripete Chateaubriand in ogni pagina del suo libro. A volte, lo sorprendiamo mentre invidia il suo doppio. Avrebbe voluto essere anche lui un poeta in azione: dar corpo ai suoi sogni, muoversi nel terreno della realtà, dominare i popoli, forse persino guidare battaglie e conquistare il mondo. Credo che Chateaubriand ne avesse il talento: le qualità razionali e intuitive, che fanno un grande uomo politico. Avrebbe dovuto, allora, macchiarsi le mani di sangue come Napoleone - massacri d’Egitto e di San Giovanni d’Acri, fucilazioni di Spagna, morti assiderati della campagna di Russia, i granatieri feriti a Waterloo, appoggiati al loro moschetto con la baionetta spezzata, mentre risuonava l’ultimo colpo di cannone che «l’uomo delle battaglie» avrebbe ascoltato? La sua parte era un’altra: il suo mondo era il sogno, la chimera, la notte - non questa terra. Poteva scrivere: doveva scrivere; diventare il sacerdote che incorona i re degni di questo nome: il sacerdote che difende le religioni violate; e raccogliere nella sua voce di storico «quella voce sconosciuta che non appartiene a nessuno e che esce dai popoli e dai secoli».

L’ammirazione di Chateaubriand non ha limiti. Se avesse saputo arrestarsi, Napoleone avrebbe potuto essere il vertice unico della storia umana: fermo là in alto, sul culmine dei secoli, come una gigantesca allegoria del potere. Ma anche così, malgrado gli errori e i crimini, era una specie di grandiosa e sinistra cometa, che aveva descritto una curva sottratta a ogni calcolo, spezzando stelle e pianeti, e rientrando poi negli abissi del cielo: le sue leggi erano conosciute soltanto da Dio. Napoleone era l’ultimo grande della storia antica: come Alessandro Magno, Giulio Cesare, Tamerlano: - uno degli eroi solitari delle tragedie shakespeariane, che vivono nel deserto della loro mente e della loro immaginazione quei deserti che Chateaubriand conosceva così bene, perché li portava in sé stesso.

Tutta la storia di Napoleone era piena di immagini e di figure classiche, che Chateaubriand intrecciava a gara con il suo personaggio. Quando nacque, la madre, sorpresa dai dolori del parto, lo lasciò cadere su un tappeto a arabeschi, che rappresentava gli eroi dell’Iliade. Quando crebbe, lesse le Vite di Plutarco, e si propose di imitare gli eroi antichi. Corfù era, per lui, la «patria della principessa Nausicaa». Osò dire che, «malgrado la poesia, tutte le finzioni dell’incendio di Troia non eguaglieranno mai la realtà dell’incendio di Mosca». Quando si consegnò agli inglesi, si paragonò a Temistocle, che aveva domandato ospitalità al suo nemico. In Guerra e Pace, non c’è alcun ricordo classico: Napoleone è il politico-attore criminale dei tempi moderni. Nella Vita di Chateaubriand, ogni azione, ogni gesto, ogni parola di Napoleone è accompagnata da questa catena di immagini antiche, che formano una cupa e solenne assonanza funebre.

Napoleone possedeva tutte le qualità di Alessandro Magno: non sappiamo se le avesse intuite dai libri, leggendo Plutarco e Curzio Rufo; o invece fossero rinate in lui, per un contagio spirituale attraverso i secoli. Aveva una immensa immaginazione romanzesca, come Alessandro e Chateaubriand. La realtà non gli bastava mai: aveva bisogno di andare sempre più avanti e lontano, posseduto dai suoi «cataclismi di idee» spezzando tutti i limiti della possibilità. Diceva: «Mi sento spinto verso una meta che non conosco. Quando l’avrò raggiunta, un atomo basterà ad abbattermi». «Presto l’Europa non gli basterà più» dicevano i suoi soldati ripetendo senza saperlo una frase degli storici antichi di Alessandro: «avrà bisogno dell’Asia». In guerra e in pace, era incredibilmente veloce. Il suo genio militare era fatto di intuizione, di colpo d’occhio, di rapidità, di volontà ferrea, di sfida al destino, di amore per la linea retta. «Andava diritto davanti a lui come quelle vie romane che attraversano senza deviare i precipizi e le montagne»; e a gara con il passo del conquistatore, Chateaubriand racconta le campagne di Napoleone con il ritmo della folgore. Come Alessandro, Napoleone era impaziente. Non gli era possibile stare fermo: resistere alla forza del movimento: doveva giocare sempre un’altra partita, tentare un’altra impresa, sgominare un altro nemico - accecato, come Faust vecchio.

Così, vittima della Furie, Napoleone - Alessandro diventò il grande criminale dei tempi moderni, il nuovo Tamerlano - una catastrofe presagita, come quella di un vulcano, da oscuri movimenti del suolo. Disprezzava gli esseri umani: sudditi e rivali, complici e avversari. «Quanto ai popoli, dice Chateaubriand, mai uomo ne ha tenuto meno conto e li ha più disprezzati di Bonaparte; ne gettava dei brandelli alla muta dei re, che conduceva a caccia, con la frusta in mano». Aveva ereditato tutta la ferocia e l’impassibile crudeltà della Rivoluzione: davanti alle decine di migliaia di morti in una battaglia, ripeteva freddamente una frase sinistra, che amava per qualche perversa ragione: «Voilà une grande consommation». Nessuno fu mai così feroce verso i deboli e gli indifesi: le sofferenze, le sventure, i cadaveri erano un tributo che gli era dovuto. C’era in lui, forse, - sospetta Chateaubriand - uria specie di demenza, che comunicava anche alle sue vittime. Nella campagna di Russia, un attimo prima della sconfitta definitiva, meditava di andare a San Pietroburgo:. «getterò questa città nella Neva». Così, fu assalito dalla mania di distruzione e di autodistruzione, e non seppe resisterle. Il suo modello classico era ormai dimenticato; «Alessandro fondava degli imperi correndo: correndo Bonaparte non sapeva che distruggerli». Ma, ancora un’altra volta, Chateaubriand si inchinava davanti al suo doppio. C’era, in un flagello di Dio come Napoleone, una traccia di Dio che non si scorge in noi altri, creature comuni e mediocri: «qualcosa dell’eternità e della grandezza del corruccio divino da cui emanava».

Napoleone non era soltanto un sovrano dei tempi antichi. Era, forse in primo luogo, un attore: un immenso attore: il più grande tra coloro che uscirono dalle coulisses dei teatri per salire sulle scale porpora dei troni. Aveva il dono di trasformarsi: era una cosa e il suo contrario: cambiava di costumi e di vestiti, perfetto nel comico come nel tragico: ora re ora schiavo; e passava senza sforzo dalle piazze al trono, dai re e dalle regine che si accalcavano attorno a lui a Erfurt ai panettieri e ai mercantucci d’olio che danzavano nella sua casa all’isola d’Elba.

«Insieme modello e copia, personaggio reale e attore che rappresentava questo personaggio, Napoleone era il proprio mimo: non si sarebbe mai creduto un eroe se non si fosse agghindato col costume di un eroe». Chateaubriand si divertiva davanti alle esibizioni del suo personaggio: poi, col più squisito e terribile dei gesti aristocratici, denunciava che Napoleone era soltanto un guitto - un miserabile guitto, Tersite o infimo Figaro -, vile, losco, senza fede, senza parola. Nel 1814, al tempo del suo primo esilio, gli alleati lo cacciano, il popolo lo detesta e vorrebbe linciarlo: lui fugge verso l’Elba, indossando una brutta redingote blu, un cappello tondo con una coccarda legittimista; e sale sopra un cavallo di posta, cercando di farsi passare per un corriere. Piange: indossa l’uniforme del generale austriaco Kohler, con la decorazione dell’ordine di Santa Teresa. Quel falso corriere, quel falso generale austriaco, quel miserabile guitto non erano un’apparenza dettata dalla necessità: erano, nel profondo dell’anima, proprio lui, Napoleone.

Così si annuncia una prospettiva diversa. Napoleone non era più Alessandro redivivo: ma uno dei tanti attori che cercarono di imitarlo e di interpretarlo durante i secoli. Alessandro viveva di miti: ora Achille, ora Eracle, ora Dioniso, ora Ciro; Napoleone viveva di gesti che, nel suo camerino di mimo, rubava accortamente e loscamente aTemistocle, Alessandro, Cesare, Augusto, Luigi XIV, Turenne. In fondo, assomigliava a Nerone: il quale come lui aveva imitato Alessandro, come lui si era occupato di teatri e di spettacoli; ma, molto più spiritoso e intelligente di lui, aveva scoperto che lo spettacolo - non la guerra - era l’unica sostanza del potere. Napoleone era, in realtà, il primo dei tiranni moderni, desiderato dalla democrazia: un «re proletario». Aveva compreso che l’uguaglianza e il dispotismo, la democrazia e la tirannia hanno dei legami strettissimi tra loro; e su questa sinistra alleanza fondò il suo edificio di fasto e di sangue, come i suoi eredi del ventesimo secolo.

Malgrado i delitti e l’abiezione, Napoleone venne salvato dalla corona della sventura - l’unica corona veramente regale di questa terra. Come ogni genio romantico, la sua vita era stata un terribile fallimento: un disastro di cui, forse, egli fu la vittima volontaria. «Aveva il mondo sotto i piedi e non ne trasse che una prigione per lui, e l’esilio per la famiglia». La nave inglese lo portò verso Sant’Elena: disteso sulla prua della nave, Napoleone non si accorgeva che sopra la sua testa scintillavano costellazioni sconosciute, i cui raggi incontravano per la prima volta i suoi sguardi. Non le aveva mai viste nei suoi bivacchi: non avevano mai brillato sopra il suo impero. Poi fu rinchiuso a Sant’Elena: nell’isola all’estremità del nostro emisfero, dove si sente, secondo Tacito, il rumore che fa il sole immergendosi nelle acque: mai come allora, separato e lontano da tutti, era visto da tutti gli uomini della terra. Chateaubriand gli dedica delle pagine strazianti e bellissime. La sua testa «assomiglia va a un busto di marmo, la cui bianchezza era leggermente ingiallita dal tempo. Nulla di solcato nella sua fronte, né di scavato sulle sue guance; la sua anima sembrava serena... Parlava con lentezza; la sua espressione era affettuosa e quasi tenera; qualche volta lanciava degli sguardi splendenti, ma duravano poco; i suoi occhi si velavano e diventavano tristi». Lo si vedeva seduto sulle basi del Picco di Diana, del Flay Staff, del Leader Hill, mentre contemplava il mare attraverso le brecce delle montagne. «Chi potrà dire i pensieri di questo Prometeo straziato vivo dalla morte, quando, con la mano appoggiata sul petto doloroso, passeggiava i suoi sguardi sui flutti?».

Mori. Venne sepolto. Tutto il rumore che aveva fatto su questa terra non penetrava due tese sotto la superficie del suolo. Ma «la grandezza del silenzio che lo oppresse eguaglia l’immensità del rumore che lo circondò».

 

Chateaubriand non amava i tempi moderni: non gli piaceva la rapidità delle fortune, la volgarità dei costumi, la prontezza nell’elevazione e nell’abbassamento dei nuovi potenti. E non amava la Restaurazione, per la quale aveva combattuto appassionatamente: non era che un’adunata di spettri, di cui il tempo spazzava la polvere. Gli antichi massacratori della .Rivoluzione, diventati conti o duchi o principi imperiali, si erano ripresentati all’improvviso con l’uniforme di legittimisti.

Aveva compreso tutto a Saint-Denis, la sera del 7 luglio 1515, mentre Napoleone stava per venire deportato a Sant’Elena. Era andato a trovare Luigi XVIII. Introdotto in una delle stanze che precedevano quella del re, non trovò nessuno: si sedette in un angolo e attese. Di colpo si apre una porta: «entra Charles Maurice de Talleyrand
silenziosamente il vizio appoggiato sul braccio del crimine»; Monsieur de Talleyrand, zoppo, cammina sostenuto da Monsieur Fouché, il ministro di polizia. La «visione infernale passa lentamente davanti a me, penetra nello studio del re e scompare; Fouché veniva a giurare fedeltà e omaggio al suo signore; il devoto regicida, in ginocchio, mise le mani che fecero cadere la testa di Luigi XVI tra le mani del fratello del re martire». Talleyrand, il vescovo apostata, fu garante del giuramento.

Così, all’inizio del venticinquesimo libro delle Memorie, terminata la storia di Napoleone, Chateaubriand scriveva con infinita desolazione e furore. «Ricadere da Bonaparte e dall’impero a ciò che li ha seguiti è come cadere dalla realtà nel nulla, dalla vetta di una montagna nel baratro. Non è forse finito tutto con Napoleone? Quale personaggio oltre a lui può interessare? Di chi e di che cosa posso parlare dopo un uomo simile?... Come nominare Luigi XVIII al posto dell’imperatore? Arrossisco al pensiero di dover farfugliare qualcosa su una moltitudine di creature di cui io stesso faccio parte, esseri esitanti e notturni di una scena il cui vasto sole era dileguato». Tutto era finito. Non c’era più niente. Solo polvere.

Come Napoleone, Chateaubriand si sentiva solo nella sua epoca. Si sentiva fuori luogo, fuori posto, come un nobile abbandonato durante un trasloco. Attraversava la storia con una triste austerità, con un nobile candore, senza partecipare profondamente a nessuna delle cause che sembravano appassionarlo. Era assente. Mentre accadevano gli eventi, sempre più veloci e demoniaci, e la storia impazziva, lui guardava la cometa che durante la notte correva all’orizzonte dei boschi: la stessa che percorre Guerra e Pace. Era bella e triste e, come una regina, trascinava sui suoi passi un lungo velo. «Chi cercava la straniera perduta nel nostro universo? A chi rivolgeva i suoi passi nel deserto del cielo?». Sotto lo splendore della cometa, Chateaubriand non amava sé stesso: la sua persona e la sua fama gli dispiacevano; ed era distante da sé stesso come la triste straniera dagli avvenimenti umani. Viveva di ricordi, ombre e fantasmi. Nessuno poteva diventare suo vero amico e compagno, se non era passato attraverso una tomba - «ciò che mi porta a credere che anch’io sono un morto». Tutto scompariva davanti ai suoi occhi: la storia, la vita; abitava in deserti e solitudini infinite, dove i mondi svanivano davanti a Dio, - unico essere reale.

Mi chiedo se questa sia la parola giusta. Davvero, nelle Memorie d’oltretomba, Dio è il solo «essere reale», come una volta dicevano i filosofi? Non c’è nessuna traccia - o solo intermit-tente, labile e fugacissima - della Provvidenza: sebbene Chateaubriand affermi che «i momenti di sonno» del cielo sono apparenti. Il destino di Napoleone non basta a dimostrare una Teodicea. L’unica cosa reale, nelle Memorie d’oltretomba, è il Tempo: come lo si avverte, come lo si palpa, come lo si odora, come lo si sente al palato. Tutto passa, tutto finisce: anche Napoleone, che è durato per pochissimi anni; anche il mondo moderno, morto e sepolto prima di nascere. Il tempo inghiotte ogni cosa: divora gli anni e i secoli; devasta e saccheggia le sensazioni, le passioni, i ricordi, i sogni, i desideri, le speranze, le religioni. Non resta che la polvere. Ma la polvere è tutto. I sepolcri non sono soltanto vuoto e assenza. Ci sono esistenze del nulla, pensieri della polvere, passioni e piaceri dei morti - tra i quali Chateaubriand affondava con una grandiosa e voluttuosa desolazione.

 

Questi i libri che parlano di lui:

Chateaubriand non ha mai scritto la Vita di Napoleone. Ma i libri XIX-XXIV delle Memorie d’oltretomba sono interamente dedicati al destino di Napoleone. Marc Fumaroli, che da anni sta scrivendo un libro su Chateaubriand, ha pubblicato queste pagine (Vie de Napoléon, Editions de Fallois, pagg. 450, 85 franchi), con una vasta e bella introduzione, dal titolo Le poète et l’empereur: uno dei capitoli del suo volume in preparazione. In Italia esiste una recente edizione delle Memorie d’oltretomba: Einaudi, traduzione e note di Filippo Martellucci, Ivanna Rosi e Fabio Vasarre, cronologia di Ivanna Rosi, prefazione di Cesare Garboli (due volumi, pagg. CLXXXV -1196-1458, lire 170.000). P.C.



Mercoledì, 22 febbraio 2006