Intervista a Mario Rigoni Stern

di Giampaolo Visetti

Asiago ("la Repubblica", 15 dicembre 2003)

«La mia speranza? Che Ciampi non firmi la legge Gasparri sulla televisione. È l’ultimo filo di una trama tesa a svuotare la democrazia dall’interno, usando le istituzioni. Lo Stato confiscato dal più ricco, il desiderio estremo del potente: possedere anche la mente delle persone. È un incrocio assoluto: l’Italia è nelle mani del presidente della Repubblica».

Mario Rigoni Stern, 83 anni, è tornato nella sua casa tra la selva e i pascoli di Asiago. Per il cinquantenario dall’uscita del Sergente nella neve si è spinto nella Masuria polacca, dove fu prigioniero in un lager. Lì, era il 1943, iniziò a scrivere il diario edito dieci anni più tardi: una vita racchiusa ora nelle Storie dall’Altipiano, il "Meridiano" che Mondadori gli ha dedicato e che raccoglie tutta la sua opera. «Dove c’era la mia baracca - racconta - ho trovato delle pecore in un recinto. La natura chiude le ferite, più forte di chi ha ucciso migliaia di ragazzi. La pace prevale infine anche nei lager». Rigoni Stern non vuole però parlare di libri e di storie. «I fatti di oggi - dice - impongono di riflettere sulla contemporaneità, sulla realtà».

Ha girato un’Europa scossa dalla guerra, da soldato e da prigioniero. Cosa pensa di quella di oggi?

«Ho grande speranza nelle genti, non negli uomini politici che se ne occupano. Mi sembrano interessati al loro particolare, non vedo figure come De Gasperi, Adenauer, o anche De Gaulle. Il mancato accordo sulla Costituzione, a Bruxelles, rivela qualcosa di più profondo che un dissenso sul sistema di voto: il potere è ossessionato da lobby e sondaggi nazionali. I popoli invece, lo vedo, sentono di essere europei».

Perché, nel darsi una Costituzione comune,l’idea di unione si è confusa?

Mario RigoniStern, autore de

«La crisi è nata dalla diversità di visione sui conflitti internazionali. Non c’è stata una sola Europa politica e civile. Un patto è saltato e l’euro non basta più. È come se un matrimonio si fondasse sullo stipendio degli sposi: cosa unisce gli spiriti? Sono un vecchio: ma se si dicesse davvero basta agli eserciti nazionali, per darsi una sola forza di difesa europea, sarebbe un altro laccio per collegare i nostri destini».

Le piace il testo della Costituzione europea?

«E l’espressione dei contrasti nazionali, degli scontri tra interessi. È questo il limite di chi governa gli Stati: porre i valori profondi in secondo piano, concentrarsi su numeri. e rapporti di forza. Ma il potere, senza idee grandi, è inutile».

Quali sono i confini dell’Europa?

«E difficile dire dove finisce, ad Oriente. Siamo indo-europei, la nostra civiltà è euro-asiatica. La storia ha cancellato le barriere. Penso alla Siberia, al Caucaso, ma pure al Medio Oriente, al Mediterraneo. Non ha senso tracciare un confine ad Est».

Cosa portano nella "vecchia Europa" i Paesi dell’ex patto di Varsavia?

«La loro cultura e la loro poesia, a noi sconosciute. Non abbiamo l’idea del valore umano di questi popoli». Cosa intende quando scrive che in Europa «siamo tutti compaesani»?

«Ci sono momenti, in guerra e in pace, in cui gli uomini scoprono i punti di contatto reali. Essi si celano in ciò che si fa. Un pastore spagnolo e uno russo, un fabbro tedesco e uno siciliano, grazie all’esperienza trovano una comunione. La paesanità è il modo di legare nella vita: l’opposto della solitudine».

Nel Duemila la guerra è tornata a dominare il mondo: che cosa significa per un protagonista e narratore delle tragedia belliche del Novecento?

«È il ritorno della paura. Il potere si rivela debole. Il mio comandante, in Russia, si metteva sull’attenti davanti a ogni morto: amico o nemico, militare o civile. Spesso piangeva. Oggi invece ci sono morti che contano e altri che lasciano indifferenti. Il cuore della guerra, dopo l’ 11 settembre, sta qui: per battere la paura, o il terrorismo, dobbiamo riconsiderare i morti alla pari. Il mondo cambia se ci si mette sull’attenti davanti ad ogni caduto».

Esiste una guerra utile, o giustificata?

«Una sola: per difendere la tua vita, quella dei tuoi cari, il tuo popolo. Combattere Hitler è stato giusto».

C’è una guerra nella quale tornerebbe a combattere?

«Non dopo quello che ho visto. Avrei fatto la guerra partigiana: ma ero nel lager».

Primo Levi diceva che quello che si dimentica può ripetersi. Ma il ricordo salva?

«Sì, purché sia corretto, chiaro e ragionato. Famiglie, clan e Stati, si combattono quando non rispettano la propria storia, la dignità di una memoria».

America ha significato libertà e democrazia: è un profilo che sta cambiando?

«Sì. Prevale l’imperialismo militare ed economico. Gli Stati Uniti sono stravolti dal benessere e dalla paura, sottovalutano la sofferenza imposta agli altri. Temo l’ignoranza di Bush, il cappello da cow-boy, il suo modo di camminare con il cane in braccio. E andato in Iraq e si è fatto fotografare con un tacchino arrosto tra le mani».

Esiste il pericolo di uno scontro tra culture, tra religioni?

«Il punto è che si fa poco per evitare la creazione dei presupposti per l’odio. Prima dell’intervento Usa in Iraq, il rischio era controllabile. Gli ultimi mesi di violenza hanno dato il via libera al fanatismo. È una brutta malattia, l’ho vista. Se il contagio scoppia, occorrono tre generazioni per guarire».

Quella in Iraq è una guerra di liberazione o di conquista?

«La prima somiglia al pretesto per la seconda. Le ragioni addotte per intervenire si sono rivelate false. Vedo interessi economici, non diritti umani. Una sera che nevicava, qui ad Asiago, ho incontrato ottocento ragazzi. Alla luce delle candele siamo andati all’Ossario, davanti ai 55 mila soldati uccisi nella prima guerra mondiale. Nessuno ha detto una parola, un minuto e siamo tornati a casa. Ho percepito il desiderio del mondo di una pace sensibile».

Condivide l’intervento italiano in Iraq?

«Assolutamente no. L’opportunismo politico, il calcolo di potere nell’esaudire la volontà degli Usa, è evidente. La povera gente, il valore della vita, la pace, non sono i protagonisti di questa storia».

Perché in Europa rimonta l’antisemitismo?

«Perché i libri vanno al macero. Non si sa quanto hanno patito milioni di persone. E poi incide il revisionismo, opera di storici anche intelligenti: si sposta la realtà, si confonde, fino a poterla negare. Carnefici e aguzzini vengono proposti sullo stesso piano, tutti vittime da capire. E così l’odio smarrisce il freno della vergogna».

Che effetto le ha fatto vedere Fini a Gerusalemme, ascoltare la sua condanna del fascismo e di Mussolini?

«Spero sia sincero. Vorrei tanto che non fosse una mossa politica: sarebbe tragico. Il leader di An è intelligente: mi chiedo solo perché non si è accorto prima dell’Olocausto, del fascismo, del Duce. Ma se non crede più nella sua storia politica, chi intende rappresentare?»

La democrazia in Italia è in pericolo?

«Non come sistema. È il contenuto a vacillare. La si svuota di valore, così da farla apparire una forma di convivenza come un’altra. Impunità, condoni, tasse di successione, monopolio della comunicazione. Nemmeno il falso in bilancio è più reato: una volta chi faceva fallimento si sparava dalla vergogna, ora sembra la normale fase tecnica di un’azienda. Si confonde ciò che è democratico con chi vince le elezioni: non è a rischio la democrazia, ma la sua qualità».

Intende dire che il diritto non è più un riferimento?

«Berlusconi presenta le regole come lacci che limitano la libertà. È una responsabilità grossa. Ho fatto alcune guerre, ho imparato a distinguere la democrazia dall’autoritarismo populista. L’esempio dell’informazione è chiaro: mentre si stabilisce il monopolio su giornali e tivù, si sostiene che il 90 per cento della stampa italiana è comunista e ostile al governo. Così da legittimare l’ennesimo colpo di mano».

Cosa la piace e cosa no dell’Italia?

«Mi piace poco e spero cambi in fretta. Non vedo un futuro per un Paese ostaggio della sete di potere e di ricchezza, indifferente verso le necessità delle persone. I poveri sono spinti ai margini, ignorati o trattati con disprezzo».

Le pare che si pensi poco ai poveri?

«Quasi nulla, non consumano. Penso ai pensionati e parto da me: mille euro al mese dopo 48 anni di servizio, tra guerre e lavoro. Non mi lamento, ho il provento dei libri. Ma i vicini delle mie contrade? Stessa vita, cinquecento euro al mese. Hanno ricostruito l’Italia, non possono più bere nemmeno un bicchiere all’osteria».

Lei dice di aver scritto per conto di chi non aveva voce: per chi scriverebbe oggi?

«Sempre per loro, per la povera gente usata dai potenti. Soldati, contadini, operai. Penso a chi sta in periferia, a chi è solo, a chi non ha lavoro. Non possono farsi sentire, i marginali non sono nemmeno una categoria, un elettorato».

Chi sono gli sconfitti delle democrazie?

«Gli ignorati, in tutto il mondo. Essere democratici è difficile: ma non dobbiamo stancarci, lasciarci fiaccare fino a rimpiangere la semplificazione di un potere autoritario. Non credo sia il monito di un vecchio prigioniero del passato».

Il Sergente nella neve compie 50 anni: ha ancora senso leggere la ritirata di Russia del secolo scorso?

«Ha senso cercare di capire cosa sono la guerra, l’ingiustizia, la pace, la baita dove ognuno sogna di tornare. Baita è un termine antico, indo-europeo: i1 focolare, la famiglia di cui si ha nostalgia. Il Sergente è il simbolo del valore dei sogni, della fiducia nell’uomo anche dentro l’orrore, nella disperazione. Io ancora sogno una bella primavera: e vorrei che tornassero le allodole, sentire i bambini giocare sui prati, fare chiasso la sera per strada. Durante la guerra in Vietnam, l’ultima notte dell’anno camminavo sull’altopiano con l’amico Gigi Ghirotti. In una stalla era nata una vitella: scoprimmo che il malghese, un uomo semplice, l’aveva chiamata Pace. In questa parola c’è la ragione della mia opera, il senso della mia vita».



Domenica, 21 dicembre 2003