http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/19-Maggio-2004/art82.html «Tra dieci o ventanni nessuno parlerà più di impero americano». Emmanuel Todd, sociologo e demografo francese formatosi alluniversità di Cambridge, ha il tono fermo e sicuro. Già assurto agli onori delle cronache alla fine degli anni Settanta per aver previsto con grande anticipo e in splendida solitudine il dissolvimento dellUnione sovietica, ritenta il colpaccio e predice la fine a breve termine della superpotenza unica. La sua tesi, espressa in un libro uscito lanno scorso (Dopo limpero, Marco Tropea, 13 euro), riceve oggi una nuova sistematizzazione con la pubblicazione delledizione riveduta e corretta di un saggio che lo studioso aveva scritto nel 1998 (Lillusione economica, Marco Tropea, 13 euro), in cui tracciava le linee teoriche del declino dellegemonia degli Stati uniti. Secondo il suo schema, quella statunitense è una superpotenza dai piedi argilla, drogata da un deficit commerciale senza precedenti e da un drammatico divario tra un consumo ipertrofico e una produzione a dir poco stitica. Insostenibile dal punto di vista economico, questo sistema può essere tenuto in piedi solo dalla conservazione di una supremazia politica che passa per una sorta di «strategia della tensione planetaria»: Washington cerca cioè di persuadere i suoi principali alleati - lEuropa e il Giappone - della necessità del suo primato militare per arginare le mire distruttive di pericolosi e infidi stati canaglia. Si tratta di una linea dazione che lo studioso definisce «micro-militarismo teatrale», in base alla quale gli Stati uniti mirano a mantenere legemonia schiacciando avversari insignificanti. È proprio da questo aspetto che partiamo per una lunga conversazione con Todd nel salotto del suo appartamento parigino. Loccupazione dellIraq sta costando cara agli americani, sia in termini di vite umane che finanziari. Più che di un intervento di facciata sembra il caso di parlare di unoperazione bellica in grande stile. Come si concilia questo scenario con la sua teoria? Credo che, allinizio, lidea di andare in Iraq rispondesse perfettamente alla dottrina del micro-militarismo. Se la Germania e la Francia non avessero detto di no, gli Stati uniti avrebbero bombardato Baghdad con lapprovazione delle Nazioni unite e con i soldi degli alleati. Alla fine delle operazioni, sarebbero state mandate le truppe di altri paesi a pattugliare il terreno, come accade oggi in Bosnia e in Kosovo. Si sarebbe cioè verificata la stessa situazione della guerra del Golfo del 1991 o degli interventi nella ex Jugoslavia. A un certo punto, però, le cose hanno preso una piega imprevista: Parigi e Berlino si sono opposte, persino la fedelissima Turchia non ha permesso il transito delle truppe sul suo territorio. Nel momento in cui gli alleati si sono tirati indietro, le élite americane avrebbero dovuto capire che lintervento in Iraq si sarebbe rivelato controproducente. Avrebbero dovuto fermarsi. E, in tutta franchezza, io pensavo che si sarebbero fermate. Questo è il principale punto debole della mia teoria: è troppo razionale. Per la sua elaborazione, mi sono fatto influenzare dalla lettura degli strateghi realisti americani, senza tener conto che oggi negli Stati uniti il potere è in mano a ideologi che agiscono in base a impulsi spesso irrazionali. La guerra in Iraq sarebbe quindi una mossa irrazionale da parte di una superpotenza in crisi? Nella decisione di intervenire non avranno pesato di più ragioni di carattere geopolitico o strategico? In generale respingo quelle visioni che sopravvalutano la potenza americana individuando un disegno coerente e occulto in tutte le sue mosse. Interpretazioni di questo tipo ci impediscono di penetrare il mistero della politica estera statunitense, la cui soluzione va ricercata dal lato della debolezza, non da quello della potenza. Credo che la vicenda irachena segni una svolta semplicemente perché si è passati da una strategia della tensione diplomatica a una pratica reale della guerra. Si tratta di una fase avanzata, che mostra il sempre maggiore spaesamento di una potenza in affanno. E che, a mio avviso, non farà che accelerare il crollo finale. Questo è il grande paradosso: Bush e i neo-conservatori, che sono coloro che più sfacciatamente hanno portato avanti una strategia imperialista, passeranno alla storia come i becchini dellimpero americano. Ritiene davvero il crollo finale così vicino? Mi sento di dire che la tendenza è già iniziata. Basta guardare le continue sconfitte diplomatiche americane: la formazione dellasse franco-tedesco, il no turco, il ritiro degli spagnoli. Tutti questi fallimenti sono stati possibili perché Washington non ha i mezzi finanziari per punire i recalcitranti. Il che ci mostra una grande verità, raramente messa in luce: non sono gli altri a dipendere dagli Stati uniti, ma piuttosto il contrario. Venuta meno la supremazia politica, la grande bolla americana si sgonfierà rapidamente. Quali sono gli elementi in base ai quali giudica ineluttabile la fine dellegemonia americana? Lanalisi del declino dellimpero va condotta su due piani diversi, strettamente interconnessi. Da una parte, dal punto di vista economico, gli Stati uniti non hanno futuro: Washington ha un disavanzo commerciale di diversi miliardi di dollari con quasi tutti i paesi importanti del mondo. Se rapportiamo tale deficit alla produzione industriale, vediamo che gli Usa dipendono per il 10 per cento del loro consumo industriale da beni la cui importazione non è coperta dallesportazione di prodotti nazionali. Si tratta di un processo rapidissimo, se si pensa che dieci anni fa questo deficit era ancora del 5 per cento e che, soprattutto, alla vigilia della depressione del 1929 negli Stati uniti era concentrata quasi la metà della produzione manifatturiera mondiale. A questo calo produttivo corrisponde poi un degrado culturale: il livello di istruzione della popolazione americana è oggi in caduta libera. Qualche giorno fa sul New York Times cera un articolo che riportava con inquietudine la notizia che gli americani erano stati superati dagli europei in termini di pubblicazioni scientifiche. Quando si parla di pubblicazioni, si fa riferimento a ricercatori affermati. È solo la punta visibile di un iceberg, il segno evidente di un processo cominciato diversi anni prima. A quando si può far risalire linizio del riflusso? Lingresso degli Stati uniti in una fase di ristagno culturale è un processo lento e progressivo che si afferma tra il 1980 e il 1990, ma che giunge a compimento solo verso il 2000. Questo abbassamento del livello culturale è alla base di diversi fenomeni regressivi che si manifestano a partire dagli anni Ottanta: laumento del numero dei detenuti e della condanne a morte, la ricomparsa dei creazionisti ostili alle teorie di Darwin, la rimessa in discussione dellaborto, il successo di un cinema dazione violento e sanguinario... È nello stesso periodo che Washington ha cominciato ad attuare il micro-militarismo teatrale, a condurre o minacciare guerre in zone remote del mondo. Questi interventi sono volti a riaffermare legemonia, a consolidare quello che nel 1991 veniva definito con enfasi il «nuovo ordine mondiale». Ma hanno anche unutilità in chiave interna. Da un punto di vista strettamente psicoanalitico, queste azioni militari sembrano poter rispondere alla definizione di sacrificio fornita da René Girard: non espongono lofficiante e il suo pubblico ad alcuna rappresaglia, ma consentono di espellere allesterno la violenza della comunità. Dalle sue parole, sembra di capire che il crollo è cominciato in concomitanza con la fine della guerra fredda. È come se la dissoluzione dellUnione sovietica dovesse necessariamente determinare quella dellaltro grande impero... In effetti i due sistemi si sono supportati e indeboliti a vicenda. Lesistenza di unideologia universalista come quella comunista ha spinto i dirigenti occidentali a portare avanti un modello di capitalismo controllato, in cui le disuguaglianze venivano limitate. Una tendenza che, con il venir meno dellUnione sovietica, è stata bloccata. Inoltre, la vittoria della guerra fredda ha generato uneuforia incredibile tra gli americani e interrotto ogni riflessione critica sulle debolezze del loro sistema. In un certo senso potremmo dire che il crollo dellUrss ha dato il colpo di grazia agli Stati uniti: i dirigenti americani hanno vissuto dieci anni nellillusione della superpotenza e non hanno minimamente pensato a ristrutturare il proprio apparato economico ed educativo. In questo contesto, non ci si può sorprendere che i responsabili politici comincino a comportarsi in modo irrazionale; si rifugiano nella religione e fanno errori di valutazione giganteschi. Lattuale fase di smarrimento è frutto di scelte sbagliate di dirigenti incompetenti o il segno di una deriva generalizzata della società statunitense? Non credo ci siano dubbi che Bush e i suoi consiglieri neo-conservatori abbiano un problema di carattere intellettuale e psicologico. Ma ciò che colpisce di più è la passività della popolazione americana; la facilità con cui essa si fa manipolare dai suoi politici: con pochissime eccezioni, i giornalisti e gli accademici hanno tutti appoggiato la guerra in Iraq, sposando la tesi inconsistente delle armi di distruzioni di massa di Saddam Hussein. Questa facilità di manipolazione, che è legata al degrado culturale cui accennavo prima, ha fornito un senso di onnipotenza allamministrazione, che ha creduto di poter influenzare allo stesso modo lopinione pubblica e le élite dei paesi alleati. A questo proposito, mi pare importante sottolineare che tutti i fallimenti diplomatici americani sono legati a progressi democratici: in Germania il cancelliere Schröder è stato riletto per la sua opposizione alla guerra in Iraq, in Turchia è stato il parlamento a esprimersi contro il passaggio delle truppe Usa sul territorio, in Spagna è di nuovo un voto popolare a far cadere il governo filo-americano del Partido Popular. Siamo di fronte a una situazione paradossale: da una parte ci sono gli americani che pretendono di portare la democrazia in tutto il mondo a suon di bombe; dallaltra popoli interi che per via democratica mettono in scacco questa politica. Lultimo grande smacco è venuto dalla Spagna. La decisione del nuovo premier José Luis Rodriguez Zapatero di ritirare le truppe dallIraq potrebbe avere un effetto domino devastante per gli americani... Credo che limportanza delle elezioni spagnole non sia stata giustamente sottolineata. La reazione agli attentati dell11 marzo a Madrid è stata straordinaria: invece di piombare nel razzismo anti-arabo, gli spagnoli hanno deciso di punire le menzogne del loro governo. Con questo voto, gli elettori iberici hanno rotto il ciclo della violenza. Hanno avuto una reazione opposta a quella degli americani allindomani dell11 settembre 2001. Se davvero la superpotenza unica è destinata a declinare, quale fisionomia assumerà in futuro il paesaggio geopolitico mondiale? Oggi gli Stati uniti rappresentano un elemento di profonda instabilità per il mondo intero. Sono nella situazione di un equilibrista che non sa come mantenere il proprio equilibrio. Ma se guardiamo al resto del pianeta, osserviamo un movimento di stabilizzazione generale: lEuropa, la Cina, il Giappone sono perfettamente stabili, la Russia sta ritrovando un suo ruolo. Lunica incognita per il futuro è proprio lAmerica: bisogna vedere se Washington accetterà pacificamente la fine della sua egemonia o continuerà ad alimentare lincertezza e i conflitti. Non ritiene possibile un raddrizzamento di rotta da parte degli Usa? Una presa di coscienza della propria dipendenza economica e un rilancio controllato della produzione per evitare la catastrofe? A livello intellettuale questo dibattito ha già avuto luogo. Negli anni Ottanta, prima delleuforia post-guerra fredda, si parlava della riorganizzazione dellapparato industriale. In termini tecnici, la cosa è fattibile. Ma in termini pratici non è facile: una tale inversione di rotta comporta una gigantesca ridistribuzione interna delle ricchezze. Tanto per fare un esempio, i salari degli ingegneri aumenterebbero sensibilmente, mentre quelli degli avvocati internazionali subirebbero una profonda inflessione. Il problema è che le classi più elevate della società americana beneficiano in modo così massiccio del sistema economico internazionalizzato, globalizzato e liberale che difficilmente accetteranno un tale cambiamento.
Domenica, 13 giugno 2004
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