L’enciclica di Pera e la retorica di Arcore

di Franco Cordero ("la Repubblica", 4 novembre 2003)

Domenica 17 novembre 2002 in appello, la corte d’assise umbra (2 giudici togati, 6 popolari) condanna Giulio Andreotti a 24 anni quale mandante dell’omicidio Pecorelli, essendo ignoti i sicari: sentenza suicida, dicono gl’intenditori (è termine tecnico); e letti i motivi, ribadiscono la prognosi; meno d’un anno dopo, infatti, la Cassazione annulla tout court. Caso chiuso. L’osservatore equanime ha poco da dire: l’errore, anche vistoso, appartiene al possibile; l’importante è rimediarvi e i meccanismi processuali italiani offrono larghe garanzie. C’era da aspettarsi una fiera mediatica. Forse stupisce che vi salti il presidente del Senato. La lettera gratulatoria all’assolto (31 ottobre) è un’enciclica sulla mala giustizia politica: dieci anni fa l’orco in toga, mandato dalla sinistra, divorava una virtuosa classe politica; perdura l’incubo; usciamone, et coetera. Ma lo stupore svanisce quando misuriamo lo speaker. Poi costerà poca fatica confutarlo nel merito.
Prima d’essere folgorato dalla stella d’Arcore, Marcello Pera, allora plaudente a Mani pulite, coltivava filosofia della scienza: mestiere arduo, richiede mente fredda, acume analitico, rispetto dei fatti; e risulta poco compatibile con la politica militante, tanto meno nel Barnum forzaitaliota. Post conversione vitupera le procure, indi diventa guardasigilli del governo ombra, incarnatosi il quale, ascende al vertice del Senato. Sentiamolo nelle occasioni climateriche. Le Camere «hanno lavorato molto e bene» (Corriere della Sera, 10 marzo 2002). Forse conveniva avere meno fretta sulle rogatorie. Fosse lui l’arbitro, sospenderebbe i processi milanesi affinché non diventino arma anomala contro il voto del 13 maggio. Discorso poco filosofico. Era casistica criminale in colletto bianco e sarebbe capitolo chiuso se mille trucchi non l’avessero impedito. Nossignori, magnate o povero diavolo, l’imputato ha diritti inalienabili. Vero, ma i poveri diavoli non scatenano costosi pandemoni avvocateschi sostenuti da tempeste mediatiche (500 miliardi in parcelle). Forse voleva sottrarsi al giudizio, insinua l’interlocutore. Ancora no, esercitava sacrosante facoltà: la colpa è del «clima giacobino», «devastante e diffuso»; da 10 anni congreghe togate perseguitano una «sola persona» Retorica da trombone d’assise, e poco prima lamentava che gl’italiani non sappiano discutere freddamente.
Sogna un modello d’Europa "strong" (economia, difesa, esteri), "but light". Sullo scacchiere interno ama l’esecutivo forte, repubblica presidenziale o almeno premier eletto. Detesta «l’illusione centrista» ossia le rifiorite democristiane. Peccato non avere oppositori “professional”: ascoltano voci dal basso; nefasti i professori. Ogni tanto raccomanda passi sperimentali, "trial and error", citando K.R. Popper, sebbene l’universo Mediaset stia agli antipodi della «società aperta»: l’ipnosi omologa i cervelli; e invocare l’autore d’un famoso referto sulla lue televisiva, stando nel giro berlusconiano, è come se sotto Pio IX l’Eminentissimo Giacomo Antonelli, invitato a qualificarsi, rispondesse «mazziniano», o Sidney Sonnino indicasse l’autore prediletto in Carlo Marx.
Tuttavia, pro "open society" auspica due vendite che rompano il monopolio: una rete pubblica, una Mediaset; e chi lo sa, forse gli salva l’anima questa proposta. Esile chance, se la gioca tra luglio e agosto, quando va in scena un guignol parlamentare: l’impresario talmente ricco da comprarsi quante anime vuole, le spedisce a votargli nottetempo una legge che sospende i processi dove figura o figurava corruttore dei giudici; gli yes-men ubbidiscono; ognuno adempie la sua parte, prode come nemmeno Baiardo; e presiede un filosofo della scienza, issatovi dal monarca.
Mercoledì 31 luglio 2002 tiene comizio nella cerimonia del ventaglio: sotto i fari, imputa agli oppositori d’essere tali, anziché chierichetti; condannale proteste fuori dell’aula, forse ignaro d’un costume anglosassone del dissenso gestuale, da Trafalgar Square alla Casa Bianca; chiama «giustizialismo» l’idea ovvia che le norme valgano anche rispetto ai re d’affari; accusa il Centrosinistra d’intese con i tribunali, contro gli elettori; insomma, reindossa la maglia da scudiero sotto cui menava fendenti; né risparmia l’ex-democristiano presidente della Camera. Incredibile dictu, s’è autodefinito «uomo della trasparenza»: «non scendo in campo»; «non sposo parti»; «non sono» capopartito e nemmeno della parte d’un partito o corrente; «sono uomo delle regole», ecc. (ivi, 1° agosto). Al meeting Cl riminense, 18 agosto, coglie rintocchi totalitari nei girotondi che dei dissidenti oppongono ai riti zannuti del potere: almeno fosse autoparodia; no, parla sul serio, anche contro Platone cattivo maestro. Forse scenderà d’un anello nella dimora infernale, perché i diavoli erano angeli e conservano gusti intellettuali: quella che chiama piazza, nel mondo greco è l’agorà, luogo della disputa; non avendo reti televisive, i disgustati protestano con discorsi, slogan, pantomime, pacifiche beffe. Dov’è il «tic totalitario»? Quando poi sullo spudorato ddl votano anche gli assenti, denuncia l’antiparlamentarismo (26ottobre). Lunedì 18 novembre loda il monopolio televisivo berlusconiano: le due aziende, pubblica e privata, lavorano in piena armonia; una diffonde cultura; l’altra alleva un’Italia «laica» (innamorato dell’aggettivo, lo spende senza risparmio né discernimento).
In visita ufficiale a Parigi, deplora che l’aria incandescente impedisca un confronto sulla giustizia, «laico», naturalmente: la fortuna politica berlusconiana non dipende dal dominio mediatico (classica antifrasi: dire l’opposto d’una cosa evidente); «nessun timore», e sorride; la «società dell’immagine» ammette l’alternanza; sbaglia chi agita lo spauracchio del «pensiero unico»; non esistono dittature occidentali, tanto meno telecratiche (ivi, 4 febbraio 2003). Riconosciamogli un’immagine felice: Mani pulite era una banderilla; il toro, id est quel sistema consortile, stramazzava già nell’arena. Quale campione d’un laicismo ad usum Berlusconis, adempie benissimo la sua parte ma non basta: ignobilmente caduto il Cda Rai, deve rinominarlo col presidente della Camera; e quando vi provvede, Re Sole, sensibilissimo alle sfumature, coglie il sentore d’una vaga fronda nella posa pontificale; crede d’essere caduto da Marte? «Non lo riconosco più». Poi, però, lavora a regola d’arte sul lodo d’immunità. Infine, nella cerimonia del ventaglio 2003, 1 agosto, deplora «l’uso politico della giustizia» e col più letale dei sorrisi ammonisce l’Europa refrattaria al «fattore B.». Tre giorni dopo, Sua Signoria racconta d’essere tedesco nel culto del lavoro: infatti, aveva sofferto l’iniqua aggressione dal socialdemocratico Martin Schulz; la battuta sul Kapo era un lieve mot d’esprit. Lo scandalo è colpa della sinistra italiana: rectius, «una certa sinistra»; fortunatamente esistono oppositori gentiluomini dal dialogo scorrevole. Contro l’Economist sfrena gli avvocati. Infine, nell’intervista allo Spectator, riabilita Mussolini e manda in manicomio chiunque abbia scelto il mestiere del giudice (meno i malleabili, così utili nel mercato dei favori tra gentiluomini). Detto da lui, non stupisce: stupra fonetica, lessico, logica, storia, norme d’ogni specie; ed essendo ventriloquo, tra le varie ugole adopera un filosofo della scienza seduto sullo scranno alto (se mai il Capo dello Stato avesse bisogno d’un supplente, quod Deus avertat, sarebbe lui). Né filosofica né scientifica, l’enciclica da Palazzo Madama rimesta retoriche d’Arcore.



Martedì, 11 novembre 2003