Le riforme sbagliate

No al presidenzialismo, no al premierato. La lezione del politologo all’esordio romano di Libertà e Giustizia
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di Giovanni Sartori

Le istituzioni sono la nostra casa politica, il luogo e il modo (a seconda di come è fatta la casa) dove viene gestito il potere. Se le vogliamo cambiare il sottinteso dovrebbe essere che la casa del potere funziona male; ma i motivi per cambiarla possono essere diversi. In Italia, per alcuni dobbiamo completare la transizione ad una Seconda Repubblica compiutamente bipolare; per altri la dobbiamo cambiare semplicemente perché abbiamo bisogno di un sistema politico efficiente. In ogni caso, questa volta la pulsione riformistica è forte. Anche perché questa volta proviene da Berlusconi, e quindi da una maggioranza che può imporre le riforme istituzionali da sola.
Comincio dall’inquadrare l’argomento. I sistemi politici delle democrazie liberali sono fondamentalmente di due tipi: o presidenziali o parlamentari. I primi sono caratterizzati dall’elezione popolare del capo dello Stato, e da una netta separazione dei poteri tra esecutivo e legislativo. Invece nei sistemi parlamentari il popolo elegge soltanto una assemblea legislativa, e il potere tra esecutivo e legislativo è diviso ma anche condiviso.
Il rischio del presidenzialismo è che il legislativo paralizzi l’esecutivo; il rischio del sistema parlamentare è l’assemblearismo, e cioè il malgoverno (sul governo) dell’assemblea. Questi due inconvenienti sono stati fronteggiati da due rimedi: da un lato da un presidenzialismo parlamentarizzato (il semi-presidenzialismo di tipo francese), e dall’altro dal premierato di tipo inglese (del quale il cancellierato tedesco costituisce una variante).
Dunque se cerchiamo buoni modelli per buone istituzioni è bene ispirarsi al semi-presidenzialismo (se siamo di inclinazione “direttistica”, fautori di elezioni dirette), oppure al premierato-cancellierato (se ci piace restare nell’ambito dei sistemi parlamentari). E’ vero che di riforme istituzionali in Italia si parla da parecchi decenni. Ma in passato il problema non era inquadrato in questi termini. Oggi lo è, e tanto meglio così. Sennonché noi dobbiamo sempre fare i conti con un genio italico cha sa sempre far meglio di tutti gli altri; un genio al coperto nel quale sguazzano poi legioni di furbastri specializzati in confusioni e brodaglie. Beninteso nulla vieta di migliorare un modello; ma rispettandone la logica, rispettandone la coerenza. I sistemi politici sono, appunto, sistemi: il che significa insiemi le cui parti devono essere congruenti, devono davvero stare insieme. Invece il “genio italico” predilige il bricolage, l’arlecchinismo costituzionale, e approda così alla invenzione di bastardi senza capo né coda, oppure con il capo al posto della coda.
Tornando agli originali, ai modelli come sono prima dell’intervento del genio italico, è chiaro che sono tutti e due, o tutti e tre, modelli accettabili. Ma accettabili in astratto. In concreto dobbiamo tenere conto del “fattore B”, del fattore Berlusconi. In passato Alberto Ronchey coniò, nel 1979, la dizione “fattore K” per dire il fattore Komunismo. Il fattore K spiegava l’anomalia italiana degli anni 50-90, e cioè l’anomalia del sistema bloccato, senza alternanza, salvato al centro della diga Dc. Il fattore K di Ronchey si dissolve con la caduta del muro di Berlino del 1989; ma noi siamo lestamente tornati ad essere anomali (e fuori regola) perché lo abbiamo sostituito con il “fattore B”. Come autorevolmente scrive l’Economist del 1° febbraio, la democrazia “non è stata normale, in Italia, da parecchio tempo, e ultimamente si sta attorcigliando in una ancora maggiore anormalità”. Come dicevo, il fattore B sconsiglia, oggi, il semi-presidenzialismo. La formula francese è temperata da una sua possibile e prevista alternanza interna tra un presidente forte che governa disponendo di una sua maggioranza in parlamento, e un presidente debole, in minoranza, bloccato dalla cosiddetta coabitazione. In Italia Berlusconi dispone già, di fatto, di un potere smisurato, fuori misura, che non trova analoghi né precedenti in nessuna democrazia. Il che significa che con lui rischiamo un presidenzialismo davvero dispotico. In dottrina io ho sempre sostenuto il semi-presidenzialismo (mai il presidenzialismo puro all’americana). Ma al cospetto del fattore B non mi sento, oggi, di raccomandare il modello della V Repubblica.
Restano, allora, i premierati: sia il premierato inglese come il cancellierato tedesco. In entrambi i casi otteniamo un rafforzamento del potere esecutivo, e quindi una buona o comunque maggiore governabilità. Il guaio è, qui, che il premierato inglese funziona come funziona perché nel Regno Unito i partiti sono soltanto due ( il sistema è bipartitico) e il governo è monopartitico (senza coalizioni). Noi, invece, di partiti ne abbiamo dodici (uno più, uno meno), e cioè dieci di troppo. Cosa ne facciamo? La domanda è pressoché sacrilega, disturba gli interessi costituiti e troppe omertà, troppe connivenze. Pertanto la risposta dei nostri esperti (si fa per dire) è che se uno diventa otto (caso della sinistra), si fa una coalizione di otto; e se diventa quattro (caso della destra), allora si fa una coalizione di quattro. E’ la stessa cosa? Assolutamente no: è una cosa diversissima.
Semmai, a questo effetto il modello che ci può aiutare è il cancellierato tedesco, visto che questo modello contempla la possibilità di coalizioni di governo. Mentre in Canada (modello inglese) si preferisce un governo di minoranza a un governo di coalizione, in Germania i governi di coalizione a due sono normali, e anche una coalizione a tre sarebbe concepibile. Ma, attenzione, è così perché il sistema elettorale tedesco mantiene bassa la frammentazione partitica, e perché la buona sorte ha prodotto un sistema partitico del tipo 2 più 2, e cioè con due partiti maggiori (con il 30-40 per cento dei voti), più due partiti minori, i liberali e i verdi (con il 5-10 per cento dei voti). Dunque in Germania va da sé – grazie ad un quadripartitismo diseguale – che il cancelliere sia espresso da uno dei due partiti maggiori, e che si diano coalizioni senza troppi problemi perché dominate o dai democristiani o dai socialdemocratici. E la espressione “va da sé” sta per dire che qui si applicano le normali regole dei sistemi parlamentari.
Da queste considerazioni si dovrebbe ricavare che a noi conviene far capo al modello del cancellierato tedesco. Ma non è così. Il cancellierato non è senza fautori, ma per ora la loro voce è minoritaria. L’ostacolo è qui il sistema elettorale. La Germania adopera un sistema misto che però è interamente proporzionale in esito, e cioè nella distribuzione dei seggi; un proporzionalismo che è frenato, peraltro, da una soglia di sbarramento del 5 per cento. E questo sbarramento non può essere aggirato (come accade in Italia) da alleanze elettorali. Il che terrorizza i nostri partitini. S’intende che la loro opposizione sarebbe superabile (sono, dopotutto, partitini molti “ini”). Se non lo è, è perché da noi trionfa una vera e propria fissazione maggioritaria che ci viene da lontano, da Pannella e da Mariotto Segni. Una fissazione che si traduce nella tesi che sistema elettorale maggioritario e bipolarismo stanno e cadono assieme. Più esattamente, la tesi è che senza il primo viene meno il secondo. E’ proprio così? Secondo me no.
La controprova è che la Germania e la Spagna sono insieme paesi proporzionalisti e bipolari. E così tutti i piccoli paesi Europei. Il maggioritario “secco” serve in Inghilterra a mantenere un sistema a due partiti. Ma se noi ci accontentiamo, come ci accontentiamo, di un sistema bipolare nel quale ciascun polo aggrega partiti in quantità, allora è di tutta evidenza – lo dimostra, appunto, l’evidenza – che il bipolarismo non richiede un sistema elettorale maggioritario. Perché? Come si spiega? La mia spiegazione è che una struttura competitiva binaria, o bipolare, diventa fisiologica, diventa normale, man mano che la polarizzazione ideologica si riduce (e quindi con qualsiasi sistema elettorale). Dunque, che il bipolarismo non presupponga elezioni di tipo maggioritario è comprovato dai fatti e anche spiegato, o comunque spiegabile, in teoria. Eppure da questo orecchio nessuno ci sente. Come dicevo, il maggioritarismo è, in Italia, una fissazione.
Una fissazione, aggiungo, i cui effetti nefasti, o comunque negativi, non investono soltanto l’ingiustificato rifiuto del sistema elettorale tedesco (che potrebbe andare benissimo, se mantenuto esattamente come è, anche per noi) ma anche, e ancor più, la assurda difesa del pessimo sistema elettorale che abbiamo, del cosiddetto Mattarellum. E questo è un punto che merita una digressione.
Dico digressione perché il sistema elettorale è, da noi, materia di legge ordinaria, non di legge costituzionale (anche se alcuni progetti di riforma istituzionale ne contemplano la costituzionalizzazione). Costituzionalizzazione o no, il punto è che in ogni caso qualsiasi sistema di governo richiede, per funzionare, un buon sistema partitico che presuppone a sua volta un buon sistema elettorale. Buono in che senso? Buono che cosa vuol dire? Qui vuol dire che i partiti non dovrebbero essere più di cinque-sei, e che il sistema elettorale ne deve ostacolare la frammentazione. Invece noi di partiti ne abbiamo una dozzina; il che basta a dimostrare che noi abbiamo un cattivo sistema elettorale. Che è doppiamente cattivo. In primo luogo perché produce una frammentazione eccessiva e disfunzionale del sistema partitico; e in secondo luogo perché funziona sulla base di incentivi perversi.
La fissazione maggioritaria di cui dicevo prima ci induce a sostenere che la colpa dei “troppi partiti” è della componente proporzionale (un quarto) del Mattarellum, e quindi che tutto andrebbe a posto se eliminiamo il “misto”e adottiamo un sistema interamente maggioritario a un turno. E’ tutto sbagliato, è vero il rovescio. La moltiplicazione dei nostri partiti è dovuta al fatto che il sistema uninominale – il sistema nel quale in ogni collegio il “vincitore piglia tutto”, the winner takes all – attribuisce ai partitini un formidabile potere di ricatto. Il partitino non può mai vincere una gara uninominale; ma se si presenta può far perdere il seggio al partito maggiore del suo schieramento. E così le elezioni diventano un grande mercato delle vacche nel quale i partiti maggiori devono comprare le “desistenze” dei partitini assegnando loro una serie di seggi concordati al tavolino. Davvero un bel sistema degno di essere difeso (come avviene) ad oltranza.
Riprendo il filo venendo ai progetti di riforma in campo. Il centro-destra non ha ancora esibito un suo testo comune. Si sa che Berlusconi preferisce il semi-presidenzialismo, ma risulta che sia disposto a negoziare. Fini dice ora di preferire il premierato, mentre Casini, il grosso degli ex-Dc, e anche il forzista Urbani puntano sul cancellierato. E si sa anche che il centro-destra sta elaborando la sua proposta in una sua “Officina”, cioè nel suo gruppo di cervelli. Ma questo è tutto. La sinistra ha invece già depositato al Senato due progetti. Il primo in ordine di tempo è il disegno di legge del senatore Tonini (primo firmatario) e sei altri. E’ però di evidente derivazione dalemiana, nel senso che proviene dal suo pensatoio, dalla sua Fondazione. Il secondo è il disegno di legge del senatore Bassanini (primo firmatario), più ventotto altri, e sottoscritto in particolare da tutti i componenti dell’Ulivo della Commissione affari costituzionali (tra i quali Mancino, Salvi, Dentamaro, Villone, Manzella, Passigli, Toia, Occhetto) e anche da Giuliano Amato.
I due progetti vertono entrambi sulla formula del premierato. Ma divergono recisamente in quasi tutto, e soprattutto su due punti cruciali: l’elezione diretta del capo del governo e, secondo, l’attribuzione al premier della facoltà di sciogliere la Camera dei Deputati. Sul primo punto il testo Tonini dice così: “l’elettore dispone di un unico voto su un’unica scheda per l’elezione del candidato nel collegio uninominale … e, a destra, l’eventuale nome del candidato alla carica di Primo ministro a cui il candidato del collegio può essere collegato”. E’, questo, l’equivalente di una elezione diretta? A mio parere si. Tantovero che il primo ministro così designato non chiede la fiducia del parlamento: il capo della Stato è obbligato a nominarlo e basta (nuovo testo dell’articolo 92 della Costituzione). Qui la difficoltà dei dalemiani è che questo non è il premierato all’inglese (visto che in Inghilterra il nome del Primo ministro in pectore non è scritto su nessuna scheda di voto), ma invece l’equivalente dello screditato e già ripudiato premierato israeliano.
I dalemiani sostengono che non è così, che ci sono differenze. Si, ma in peggio. In Israele il voto per il premier veniva dato su una scheda a parte: il che dà libertà di scelta. A noi viene invece proposta una scelta senza libertà di scelta. Chi è di sinistra dovrà votare il candidato il cui nome è già stampato sulla scheda; e l’elettore di destra al quale magari piace Casini, oppure Fini, dovrà per forza votare Berlusconi.
I dalemiani si difendono anche sulla base di un’altra differenza, questa: che il loro premier, se sfiduciato dal parlamento, “presenta al presidente della Repubblica le dimissioni ovvero la richiesta di elezioni anticipate” (nuovo testo dell’art. 49 della Costituzione). Ma questo disposto è, ad un tempo, ipocrita e incongruente. Se un premier ha in tasca il potere di sciogliere il parlamento, perché mai si dovrebbe dimettere? Nel 1994, Berlusconi non si sarebbe certo dimesso; e nemmeno lo avrebbe fatto, quando cadde, Prodi. Tanto più che il testo Tonini dispone che il primo ministro che “si sia dimesso non può assumere alcun incarico di governo per la legislatura … immediatamente successiva”. E’ come intimare: devi sempre sciogliere, perché se ti dimetti sei davvero un fesso.
Notavo anche che il nuovo articolo 94 è, sarebbe, incongruente. Se il premier è prodotto da una elezione diretta, come si fa ad avere un secondo premier che non lo è? Qui vale, per estensione, il principio che il delegato non può delegare. Un Berlusconi che si dimette non può passare la sua elezione diretta a un altro. Un altro – si ricordi – che non è stato eletto alla carica, ma che fruirebbe del privilegio di non dover chiedere la fiducia al parlamento. Proprio non ci siamo: il gruppo è debole in diritto. E il mio sospetto è che il pensatoio dalemiano vorrebbe il premierato israeliano ma che, non potendo riproporre un esperimento fallito e un modello senza casi (Israele era un caso unico), cerchi di rivenderlo agli italiani travestito all’inglese.
L’altro punto è, ricordo, il potere di sciogliere il parlamento. Sul punto la proposta di Tonini dice così: “Se richiesto dal primo ministro il presidente della Repubblica, sentito il presidente della Camera … indice elezioni per la Camera dei Deputati, anche anticipate” (nuovo testo dell’articolo 88 della Costituzione). Per fortuna al premier non viene consentito di indire elezioni posticipate (che so, di rinviarle di cinque anni); ma a parte questo divieto, il potere in questione è senza dubbio un potere discrezionale. “Sentire” il presidente della Camera è un sentire da nulla, tanto più che il progetto Tonini prevede, con un tortuosissimo meccanismo elettorale, che il premier “unto dal popolo” fruisca in ogni caso di una maggioranza del 55 per cento. E dunque, qui, si configura senza ombra di dubbio un trasferimento di potere dal capo dello Stato al capo del governo. Al che si può e si deve obiettare che così si crea un grave squilibrio: il secondo acquista troppo potere, al primo ne resta troppo poco.
A questa prima obiezione se ne possono aggiungere altre. La seconda obiezione è che, in linea di principio, il troppo votare è nocivo alla democrazia. Sotto elezioni i governi entrano in febbre elettorale, rinviano tutte le decisioni impopolari (anche se necessarie e urgenti), e si danno alla spesa facile. Insomma, il momento felice del “buon governo” è il momento nel quale le elezioni sono lontane. A questa considerazione si oppone che quel che serve è la minaccia di scioglimento, non lo scioglimento. Vero. Ma poi succede che quando lo scioglimento è reso facile e non viene deciso da un “potere neutro”, finisce che diventa frequente o comunque finisce per essere un deterrente abusato. Un governo inguaiato che non sa più che pesci prendere, cerca un diversivo nel rivotare. Il che sta forse già per succedere.
La terza obiezione, la più importante, è che l’accoppiata di elezione diretta e di deterrenza elettorale (nel senso appena precisato) ferisce al cuore il meccanismo che costituisce la ragion d’essere e il pregio dei sistemi parlamentari. Il loro pregio è di essere sistemi flessibili che si autoriparano, che rimediano da sé ai loro incidenti di percorso. Invece, il progetto Tonini prefigura un sistema rigido che non si autoripara: o va avanti così come è nato, oppure si spacca e ricomincia da zero. Già, si ricomincia da zero senza tener presente che il più delle volte il rivotare non cambia nulla perché quasi tutti rivotano allo stesso modo.
Infine, devo ricordare un ultimo difetto (tale per me, si intende) del disegno di legge Tonini, questo: che costituzionalizza il sistema elettorale e, peggio ancora, un pessimo sistema elettorale. Il pensatoio dalemiano costruisce il suo edificio dando per scontato, e così anche eternizzando, il sistema uninominale a un turno, il maggioritario secco, che prima criticavo spiegando che è un sistema elettorale fondato sul ricatto che disastra il nostro sistema partitico frammentandolo oltre ogni ragionevole misura. Non so se il pensatoio dalemiano sappia di queste critiche, o se sappia che esistono sistemi elettorali semplici e bene collaudati che potrebbero facilmente curare le succitate degenerazioni del maggioritarismo. Fatto sta che il progetto Tonini esibisce una sovrastruttura di marchingegni che mi fanno pensare a un sistema elettorale disegnato da Gaudì, il celebre architetto della notissima chiesa di Barcellona. Di sistemi elettorali mi occupo da parecchi decenni. Ma non mi sono mai imbattuto in un pateracchio di tanta turgida bellezza.
Passo all’altro progetto, al disegno di legge Bassanini et al. Come già dicevo, è un progetto pressoché contrario a quello di Tonini. Infatti rifiuta l’elezione diretta, l’attribuzione al premier del potere di sciogliere il parlamento, e anche la costituzionalizzazione del sistema elettorale. Beninteso, anche il progetto Bassanini punta sul rafforzamento dell’esecutivo, iscrivendosi così nell’ambito del premierato. Ma il testo Bassanini non viola i principi del sistema parlamentare ed è caratterizzato da una serie di proposte specifiche sulle quali esiste già da tempo un largo consenso.
Pertanto non avrei dubbi su quale sia il progetto da preferire. Senonché nel dire così – preferire – mi trovo inaspettatamente spiazzato da Giuliano Amato. Il nostro “dottor sottile” è tra i firmatari del disegno di legge Bassanini. Ma l’altro giorno ha dichiarato di appoggiare anche il disegno di legge Tonini. Possibile? Se non si trattasse di Amato, che è persona che profondamente rispetto, griderei al doppio gioco, direi che non si può sottoscrivere una cosa e il suo contrario. Amato ha spiegato che sottoscrive entrambi i progetti perché “dobbiamo tutti contribuire alla unità dell’Ulivo”. Ma continuo a non capire. La sintesi tra il diavolo e l’acqua santa non esiste. E se dobbiamo tutti contribuire alla unità dell’Ulivo, allora questa unità non può e non deve consistere nella invenzione di un ennesimo pastrocchio. D’Alema e Amato hanno invece il diritto-dovere di chiedere a Tonini di ritirare il suo progetto – che è un pessimo progetto sostenuto da una piccola minoranza – e di sottoscrivere anche lui, Tonini, il progetto Bassanini, che è un buon progetto sostenuto da una larga e rappresentativa maggioranza di tutto l’Ulivo.
La sinistra è piena di personaggi che predicano l’unità ma che poi, dopo aver predicato bene, razzolano male. Se l’Ulivo combatterà la battaglia delle riforme istituzionali diviso, e cioè con due progetti alternativi che non sono né conciliabili né da conciliare (Amato mi consenta di insistere: tra i progetti Tonini e Bassanini non c’è nulla da “connubiare”), allora è sicuro che la perderà. Altrimenti non è detto. Non è detto perché sulle riforme è il centro-destra che si trova in grande difficoltà nel trovare una piattaforma comune.
Qualcuno di voi si chiederà, immagino, perché quasi tutto il mio tempo sia stato investito nell’analisi delle proposte della sinistra, e non anche della destra. E’ semplicemente perché le proposte del Polo vanno ancora in ordine sparso. Sono, in sequenza di presentazione, i disegni di legge Eufemi (UDC) che sposa il cancellierato; Malan (FI) che sposa l’elezione diretta del premier e altre bellurie del progetto Tonini; e Nania (AN) che si attesta sulla posizione di bandiera del suo partito, che è il semi-presidenzialismo. Come si vede, qui si copre tutto l’arco delle possibilità. Se l’Officina della destra si proverà a rifonderle assieme, temo che ne uscirà un bel mostro.
Certo è che le avvisaglie non sono incoraggianti. Venerdì scorso 30 gennaio a Todi, il presidente della Camera Casini si è dichiarato in favore di uno scioglimento delle Camere deciso dal premier “in concorso con il presidente della Repubblica”, e questo per rendere impossibili i “ribaltoni”; ribaltoni che Casini considera “il cancro della democrazia”. Ma, in primo luogo, cosa vuol dire (in diritto) “concorso”? In Francia il presidente della Repubblica “può, sentito il primo ministro e i presidenti delle assemblee, sciogliere l’Assemblea nazionale”. Quel “sentire” è vincolante o no? No, perché la costituzione francese precisa che l’atto di scioglimento non richiede la controfirma del primo ministro (articolo 19). E in Italia?. Il nostro capo dello Stato si può rifiutare di firmare?
In secondo luogo, proprio non mi risulta che i ribaltoni siano il cancro della democrazia. Sulla democrazia io ho letto – per dovere di ufficio, di probità professionale – centinaia di libri. Ebbene, nella letteratura internazionale che fa testo non mi sono mai, proprio mai, imbattuto nella fattispecie del “ribaltone”, e tantomeno, quindi, nella teoria che i cambiamenti parlamentari della maggioranza di governo minaccino in alcun modo la democrazia. Dal che è giocoforza ricavare che i ribaltoni sono una ennesima invenzione-fissazione italica. Il punto è questo: che la nozione di ribaltone non si può applicare (la contraddizione non lo consente) ai sistemi parlamentari governati dal principio che “il parlamento è sovrano” (dopotutto vengono detti parlamentari per questo). Si applica invece alla elezione diretta del premier; e dunque a un sistema che in Israele non c’è più, e che in Italia non c’è ancora (se mai ci sarà). Pertanto se i ribaltoni non ci piacciono (non piacciono, in verità, nemmeno a me) un parlamento è libero, liberissimo, di non farli accadere. Il cancro della democrazia italiana è un altro: è che ci siamo regalati un capo del governo in grado di “imbottire i cervelli” – bourrer les crânes, in dizione originale – e così di preconfezionare le opinioni e le elezioni. Scusate se è poco.
Stavo dicendo che gli auspici di “buona riforma” che ci vengono da destra non sono incoraggianti. Se poi il presidente della Camera – che è bravo e giustamente stimato – sbaglia cancro, allora resto ammutolito. E difatti qui chiudo, qui mi metto zitto. Ho finito.



Mercoledì, 09 luglio 2003