Linee di storia
Le idee che diventano politica / 1

LA POLIS


di Romolo Menighetti (“Rocca”, 15 marzo 2004)

Le idee che hanno fatto la politica iniziano a prendere corpo nell’antica Grecia. Ancora oggi sono le riflessioni di Socrate, Platone e Aristotele intorno alla città-stato, a costituire l’anima e il nerbo di gran parte degli ideali politici attuali.

La città come bene supremo

Per il Greco la città era il bene supremo, e il rapporto di cittadinanza costituiva la condizione per poter godere di questo bene sommo.

Essere cittadini era dunque qualcosa di molto più coinvolgente di quanto non lo sia per noi oggi.

Noi ora intendiamo la cittadinanza prevalentemente come un complesso di diritti e di doveri che ci legano alla comunità entro cui viviamo. Come un legame, dunque, al più come un possesso, da mantenersi soprattutto per i vantaggi che ne derivano a livello personale.

Il Greco invece pensava alla sua cittadinanza come ad un rapporto con qualcosa di cui faceva intimamente parte. Qualcosa che assomigliava all’essere membro di una famiglia. L’appagamento dei suoi diritti era perciò secondario rispetto al collocarsi entro la comunità cittadina nel posto che gli spettava secondo la propria classe sociale (gli schiavi non erano considerati cittadini, pur costituendo un terzo della popolazione di Atene). Perciò essere cittadini significava prima di tutto poter partecipare alla vita pubblica, non importa se da una posizione di grande o piccolo rilievo. Il concetto di cittadinanza era dunque molto più personale e molto meno legale di quello moderno. Tutti i cittadini maschi sopra i vent’anni partecipavano di diritto all’Assemblea (Ecclesia), mentre per le altre istituzioni rappresentative si ricorreva spesso al sorteggio, considerato questo norma democratica per eccellenza, in quanto offriva ad ognuno uguali probabilità di riuscita.

Entro la città-stato la partecipazione costituiva il massimo vanto e l’impegno più coinvolgente. Non per nulla il lavoro manuale era lasciato agli schiavi, affinché i cittadini potessero dedicare il tempo e le energie migliori alla politica. Sono molti i testi che giustificano la schiavitù come l’unica condizione che consente ai cittadini greci di esercitare le più qualificanti capacità umane - quella di ragionare e quella di comunicare - al fine di rendere migliore la città, considerata la realtà in mancanza della quale l’uomo da solo non è nulla.

La città si configura così come l’ideale politico più alto per i greci, come l’interesse più nobile cui possano votarsi. La grande importanza che assume la città per gli Ateniesi, la partecipazione alla sua vita e dunque la democrazia, emergono incomparabilmente dalla famosa orazione funebre che lo storico Tucidide attribuisce a Pericle (490-425 a. C.), pronunciata in onore dei soldati caduti nel primo anno della grande guerra contro Sparta.

La città come ideale politico

L’orazione di Pericle esprime, con un linguaggio in cui si fondono eloquenza e spessore concettuale, l’ideale politico della città. Da essa traspare l’amore con cui l’oratore partecipa alla vita civile di Atene, nonché il significato della democrazia che in essa si vive. Pericle contempla la gloria di Atene unita e armonica, e la configura come una donna amata supremamente bella e nobile. «Io vorrei che ogni giorno voi fissaste gli occhi sulla grandezza di Atene, fino ad essere colmi d’amore per lei». E parlando dei caduti li addita come cittadini che, donando generosamente la vita, portarono alla sua festa l’offerta più bella. L’appartenenza alla città è dunque la maggior gloria per gli ateniesi. A che cosa servono gli averi - si chiede Paride - se non a rendere possibile il godimento del bene supremo che deriva dalla partecipazione attiva alla vita cittadina? E che valore ha la famiglia se non quello di introdurre nella forma più alta di relazione sociale che è la vita civile?

C’è qui naturalmente l’esagerazione retorica, ma l’idea della città entro la vita pubblica greca si delinea nitidamente. A differenza degli stati moderni, grandi remoti e impersonali, la piccola città greca (Atene contava circa trecentomila persone) costituiva il punto di convergenza dei suoi cittadini, i cui interessi erano meno divisi e meno individualistici rispetto a oggi. L’arte era civica, le cerimonie religiose erano celebrazioni cittadine; anche i mezzi per la vita quotidiana dipendevano dalla città molto più di quanto non avvenga ora. La città per il Greco era dunque una vita in comune, un sistema di vita, piuttosto che una struttura legale. Il pensiero fondamentale di tutta la dottrina politica greca era l’armonia della vita comune. A formare tale pensiero concorrevano, senza eccessive distinzioni, l’etica, l’economia, la sociologia, e naturalmente la politica, nel senso più strettamente moderno.

L’armonia

Il concetto di armonia lo si trova in tutta la cultura greca. Esso è prima di tutto un principio fisico, in virtù del quale gli eventi, gli aspetti particolari dei fenomeni, gli aspetti specifici che compongono il mondo fisico vengono spiegati sulla base dell’ipotesi che siano variazioni o modificazioni di una sostanza fondamentale, che resta sempre essenzialmente la stessa. Dietro i particolari accidentali e mutevoli dei fenomeni ci sarebbe una «natura immobile», con proprietà e leggi eterne, che conferisce armonia a tutto il contingente. A partire da questo principio fisico si giunse, verso la fine del quinto secolo, a formulare la teoria atomica, secondo la quale gli atomi di base della materia sono immutabili, e producono, in virtù di varie combinazioni, tutta la varietà degli oggetti e delle «cose» presenti nel mondo. Le idee di armonia e proporzione ebbero anche grande importanza nelle concezioni greche della bellezza e della morale. L’estensione di questo principio alla natura umana, ai rapporti tra individui e gruppi, portò alla configurazione di una «legge di natura» eterna, in mezzo alle infinite modificazioni delle circostanze umane. Ne consegue che i pensatori e i filosofi considerano loro compito primario trovare la legge permanente da cui trarre quei criteri di ragionevolezza sui quali e attorno ai quali fondare e intessere la vita umana. Una volta riconosciute queste leggi fondamentali, gli uomini potranno avere parametri che permetteranno loro di considerare buoni certi modi di agire, e bassi ed abietti altri comportamenti. Si tratta dunque di trovare qual è il centro immutabile della natura umana, comune a tutti, e da esso dipanare armoniche forme di convivenza codificabili.

Il concetto di legge naturale si identifica per i greci anche con la legge divina. Ciò offre la possibilità di creare un punto di forza per opporsi, in nome di una legge superiore, alle convenzioni e alle leggi esistenti, nel caso in cui le leggi degli uomini risultassero in contrasto con le leggi di natura e, in ultima analisi, con le leggi di Dio. L’esempio classico in proposito, nella letteratura greca, è l’Antigone di Sofocle, una tragedia tutta incentrata sul conflitto tra l’ossequio alla legge umana e quello alla legge divina. Quando Antigone è accusata di aver violato la legge di Creonte, avendo dato sepoltura al fratello, risponde al tiranno che i suoi decreti non sono possenti al punto da fargli trasgredire «le non scritte leggi inconcusse degli eterni dei», che «non da ieri esse esistono, ma da sempre».

La partecipazione

Se la città è il bene supremo per il cittadino, allora la partecipazione alla vita pubblica per il Greco è la condizione essenziale per godere di questo bene. Fare politica dunque è il più appagante e il più nobile degli impegni cui un uomo libero possa applicarsi. La forma delle istituzioni politiche in Atene esprimeva tutta l’importanza che era attribuita alla partecipazione politica. La rotazione delle cariche, il sorteggio per il conferimento delle stesse, l’allargamento dei corpi politici, erano tutti elementi che contribuivano a far partecipe del governo il maggior numero possibile di cittadini. La città-stato era una democrazia perché l’amministrazione era in mano dei molti e non dei pochi. In base alle cifre fornite da Aristotele nella «Costituzione di Atene» si è calcolato che ogni anno un cittadino su sei dovesse partecipare

in qualche modo al governo. E se non ricopriva cariche, aveva diritto di partecipare alla discussione di questioni politiche nell’Assemblea generale dei cittadini, che si riuniva dieci volte l’anno. La discussione, formale o informale, su argomenti pubblici, costituiva uno dei principali piaceri e dei maggiori interessi per il Greco. A buon diritto Pericle può dire che «un cittadino ateniese non trascura lo stato per curare il governo della sua casa». Per contro afferma: «Consideriamo un uomo che non prende interesse alla vita pubblica non una persona dappoco, ma una persona inutile».

Affermare essere la partecipazione il bene supremo per il cittadino portava a concludere che nessuno dovesse essere escluso, per differenze di ricchezza o di grado, dal ricoprire cariche pubbliche. Questo ideale di vita comune espresso dalla partecipazione, presupponeva una valutazione ottimistica della capacità politica naturale dell’uomo medio. Gli Ateniesi pensavano che l’acutezza e l’ingegno potessero sostituirsi all’esperienza scientifica e all’abilità risultante dalla specializzazione.

Il Greco partecipava alla vita pubblica non tanto per proteggere un proprio diritto individuale in antagonismo con lo stato. Per lui il diritto e la giustizia condizionavano la costituzione e l’organizzazione della vita comune, e la legge aveva il compito di assegnare a ciascuno il proprio posto, la propria occupazione, la propria funzione nella vita complessiva della città.

Il cittadino ha dei diritti, certo, ma questi non ineriscono alla sua personalità privata, bensì alla sua posizione entro la città. Egli ha degli obblighi, ma non è forzato dallo stato ad adempierli: essi promanano dal suo bisogno di realizzare le proprie potenzialità entro la comunità. Il cittadino greco era pertanto da un lato libero dall’illusione di avere il diritto di agire come gli piaceva, e dall’altro altrettanto libero dalla pretesa che il suo dovere derivasse dall’imposizione severa di un’autorità avente con lui un rapporto conflittuale.

Entro questa cornice di armonica partecipazione trovano posto due valori politici fondamentali, nel pensiero greco sempre connessi: la libertà e il rispetto per la legge.

La libertà e il rispetto per la legge

Pericle, nella sua orazione, afferma che «il maggior impedimento all’azione non è la discussione, ma la mancanza di quella conoscenza che si acquista attraverso la discussione che prepara ad agire». La libera discussione politica in tutti i suoi aspetti costituisce la principale condizione affinché le attività cittadine possano svolgersi in un contesto di volontaria collaborazione dei cittadini.

La filosofia politica, che ebbe in Atene la propria culla, nacque da questa fede nella discussione. L’ateniese, afferma Gorge Sabine, viveva in un’atmosfera di discussione e di conversazione orali che l’uomo moderno può difficilmente immaginare. Essa era considerata il mezzo migliore per definire una politica e portarla a realizzazione. Era convinzione diffusa che un provvedimento saggio può sopportare l’esame di parecchie menti. Platone sosteneva che il governo deve fondarsi sulla persuasione e non sulla forza, e che le sue istituzioni esistono per convincere e non per costringere. Ne consegue che la libertà del cittadino dipende dalla sua capacità razionale di convincere e di essere convinto, in un contesto di rapporti liberi con i suoi simili. La libertà così concepita implica il rispetto della legge. Chi riconosce nella norma una legge che lui ha contribuito a definire, gli riconosce il diritto di essere rispettata, e la rispetta liberamente, senza sentirsi costretto all’arbitraria volontà di un altro. Perciò per tutti i pensatori greci la tirannide costituisce il peggiore di tutti i governi. Tirannide, infatti, significa l’applicazione della forza illegale. Anche se risultasse benefica rispetto agli scopi e ai risultati, essa è comunque cattiva, perché nega la libertà e distrugge l’autonomia del cittadino.

In uno stato libero, la legge, e non il capo dello stato, è sovrana, e merita il rispetto del cittadino.

L’ideale ateniese può essere riassunto nella frase «una libera cittadinanza in un libero stato». La libertà per il cittadino è libertà di capire, di discutere, di portare il proprio contributo non in rapporto al suo rango o alla sua ricchezza, ma alla sua innata capacità di partecipare alla cosa pubblica. Il fine è la realizzazione di un’armonica vita in comune in cui si producono e si godono i tesori dell’agiatezza materiale, dell’arte, della religione e del libero sviluppo intellettuale. Entro questa cornice il valore supremo per l’individuo consiste nella sua abilità e nella sua libertà di portare un personale e significativo contributo, di avere una parte, per quanto modesta, nella vita civile.

Socrate, Platone, Aristotele

Alla composizione di questo pensiero politico così ricco ed articolato hanno concorso molti filosofi e pensatori greci. Tra questi i più importanti sono Socrate, Platone ed Aristotele, i cui apporti si integrano e si completano a vicenda.

L’aspetto più caratteristico del contributo di Socrate (469-399 a. C.) è la convinzione che la virtù sia conoscenza. La virtù perciò può essere appresa ed insegnata. Posta questa premessa ne deriva la non impossibilità di scoprire una norma valida generale dell’agire, e la possibilità di impartirla e trasmetterla mediante l’educazione. In altre parole, se i principi etici che regolano la vita sociale possono essere definiti e diventare scienza politica, è anche possibile una loro applicazione. Tale scienza perciò può servire per realizzare una società razionale. Sulla scia di questa convinzione si pone Platone (427-347 a. C.), discepolo di Socrate. Egli ritiene possibile giungere a pensare e ad organizzare una vita oggettivamente buona, tanto per l’individuo quanto per lo stato. Però non condivide l’entusiasmo di Pericle sulla capacità politica naturale dell’uomo medio, essendo stato testimone delle lotte delle città greche, culminate nella disastrosa guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta. Per giungere a delineare le linee portanti di questa vita oggettivamente buona è necessario uno studio, da intraprendersi con procedimenti intellettuali metodici, da compiersi attraverso l’investigazione razionale e la logica. Tutto ciò non può essere lasciato alla massa, che procede invece per intuizioni e congetture intrise spesso di passionalità. Si richiede invece una cultura superiore. Ne consegue per Platone che una buona politica si avrà solo se l’autorità in materia l’avranno «coloro che seguono la vera e genuina filosofia», oppure solo se i responsabili politici diventeranno «una classe di filosofi». In altre parole, solo l’uomo che «conosce», cioè il filosofo, lo studioso, lo scienziato, dovrebbero avere un potere decisivo nel governo della città; solo la «conoscenza» dà il diritto di governare. Egli pone così il principio del dispotismo illuminato. All’insegnamento di Platone si rifà il più grande dei suoi discepoli, Aristotele (384-322 a. C.), che concentrò la sua attenzione sulle forme di governo e sull’arte di governare per realizzare lo stato ideale. Egli approfondì il concetto di bene politico, non solo in assoluto, ma anche relativamente a situazioni non ideali dal punto di vista etico, che pur vanno affrontate politicamente. Discostandosi dal suo maestro, egli erge a ideale il governo costituzionale, e non il governo dispotico, fosse pure il dispotismo illuminato di un re-filosofo. Lo stato è buono quando la sovranità assoluta è riposta nella legge e non in una persona. Le leggi migliori sono preferibili all’uomo migliore. Anche il reggitore più saggio non può fare a meno della legge, perché la legge ha un’oggettività che nessun uomo, per quanto buono, può esprimere. Per lui la legge è «la ragione non influenzata dal desiderio». Solo il governo costituzionale è compatibile con la dignità del suddito, perché il capo costituzionale governa su sudditi che lo accettano. Inoltre tale governo trae la sua legittimità dal fatto che è regolato da leggi generali e non da decreti arbitrari. Per Aristotele, infine, la saggezza collettiva di un popolo nel fare le leggi, è superiore a quella del più saggio legislatore. Aristotele torna a concordare con il proprio maestro quando affida allo stato un fine etico. Per lui lo stato deve tendere al progresso morale dei suoi cittadini, essendo esso un’associazione di uomini che vivono insieme per raggiungere la migliore vita possibile.

Un nobile insuccesso

Paradossalmente, la filosofia politica di Platone ed Aristotele, che ancora oggi a distanza di più di venti secoli costituisce la struttura della filosofia politica europea, ebbe un successo immediato limitato, sia in teoria che in pratica. In generale le città-stato erano preda di fazioni rivali in aspra lotta tra di loro. Tucidide constata che: «L’amore della violenza aveva sempre fortuna, il vincolo di parte era più forte di quello del sangue». Solo molto più tardi pensatori e politici tornarono a riconsiderare e sviluppare le grandi potenzialità dei valori politici contenuti negli scritti di questi pensatori. Nell’ambito della stessa cultura greca, il concetto fondante la città-stato - cioè che la vita buona si ha solamente nella vita comune, vista come il massimo dei beni umani, a cui i singoli partecipano attraverso la cittadinanza, il che implica essere l’autosufficienza un attributo dello stato -, questo concetto fu contestato allorché l’autosufficienza venne considerata un attributo dell’individuo. Furono soprattutto gli epicurei e i cinici che posero il «bene» non più nella polis, ma nel privato. Insegnando i primi che il ben vivere consiste nel godimento del piacere, e nell’evitare tutte le pene, le noie e le ansietà, ne scaturì la logica conseguenza che la felicità implica un allontanamento dalle preoccupazioni della vita pubblica. Il saggio, perciò, non si occupa di politica. Anche i cinici propugnavano una filosofia di evasione, sebbene di genere diverso. La loro evasione consisteva nella rinuncia a tutti i beni della vita (compresi cittadinanza, famiglia, cultura) e nel livellamento di tutte le distinzioni sociali: il saggio deve bastare pienamente a se stesso, il pensiero e il carattere dovrebbero essere sufficienti al ben vivere. In entrambi i casi si ha un rifiuto della città-stato, gli epicurei sulla base di motivazioni estetiche, i cinici per motivi ascetici.

Ma la città-stato greca, in pratica, soccombette perché l’autosufficienza, il postulato teoretico su cui si fondava, comportava come conseguenza l’isolamento dal resto del mondo. Ma l’isolamento porta inevitabilmente all’asfissia economica e sociale. La grandezza del pensiero greco in politica è attestata comunque dal fatto che, nei secoli successivi, nessun popolo che si sia posto l’ideale della libertà civica, ha potuto prescindere dalla filosofia e dalle istituzioni ateniesi.

Bibliografia essenziale

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Martedì, 06 aprile 2004