Il Ruanda, incubo per la Chiesa

di Bernard Jouanno, per La Croix, Paris (traduzione dal francese di José F. Padova)

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Come si è posta la Chiesa cattolica nell’orrore del genocidio nel Ruanda, mentre dopo un secolo d’evangelizzazione dei cristiani massacravano altri cristiani? Collusione di certi vescovi col potere, responsabilità dei missionari, silenzio della Chiesa…: queste terribili domande riguardano tutti i cristiani.

Il 7 settembre 1990 Giovanni Paolo II atterra all’aeroporto di Kanonbe a Kigali e calpesta per la prima volta la terra ruandese. L’atmosfera è di festa. Dal momento del suo arrivo il Papa confessa la sua gioia di intraprendere finalmente questa visita pastorale nel «paese delle mille colline». Si dice felice di «trovarsi in questo Paese africano dove il Vangelo è stato accolto con entusiasmo e dove la fede ha progredito rapidamente». I vescovi cattolici del Ruanda sono fieri di presentare al loro ospite un Paese che, in meno di un secolo d’evangelizzazione, conta 3’200’000 cattolici (ovvero quasi il 50% della popolazione), 116 parroccchie, 538 preti (278 ruandesi e 260 stranieri), 1’074 suore (678 ruandesi e 338 straniere) e 233 frati (151 ruandesi e 82 stranieri).

Meno di un mese dopo, il 1 ottobre 1990, il Ruanda subisce i primi sussulti di una nuova guerra civile che, di giorno in giorno e da una settimana all’altra, finirà col genocidio di aprile 1994. In quel giorno, effettivamente, il FPR (Fronte patriottico ruandese), composto da Tutsi rifugiati in Uganda da anni, decide di forzare l’ingresso nel loro Paese, sempre vietato loro. Le ostilità etniche riprendono ancora più forte. Figli di una stessa patria, Hutu e Tutsi ridiventano nemici…
Il 7 aprile 1994, quando il genocidio ha inizio seguendo ordini precisi, molti ruandesi sono sotto choc. Ancora ieir, sulle colline, gli abitanti dei villaggi si recavano insieme nelle loro chiese, per pregare, cantare e lodare il medesimo Signore. Ed ecco che all’improvviso, muniti di fucili e machete, gli uni si precipitano sui loro fratelli e vicini.
Nulla li ferma. Le chiese, le cappelle e i santuari, che gli aggressori non avevano mai osato attaccare nel corso dei precedenti conflitti, sono trasformati, come a Nyamata, a N’tamara  o a Kibeho, in “mattatoi d’innocenti”, secondo le parole del card. Etchegaray. Tutti hanno appreso i comandamenti di Dio: «Onora il padre e la madre! Non ucciderai! Non desidererai la roba d’altri!». Ma le lezioni di catechismo sono fuori stagione. E Dio sembra essere completamente sparito dall’orizzonte.

I vescovi e le diverse commissioni hanno moltiplicato gli interventi per denunciare le situazioni di violenza e di ingiustizia. I responsabili di chiesa assistono, smarriti e impotenti, al genocidio commesso da cristiani contro altri cristiani. I timidi appelli alla pace si perdono fra le voci di odio. E ben presto la Chiesa cattolica e i missionari sono mostrati a dito, accusati di essere all’origine di quei terribili avvenimenti.

La Chiesa cattolica, si dice, avrebbe scavato sotto le fondamenta della società tradizionale. Poi, appoggiandosi ora sui Tutsi e ora sugli Hutu, i missionari avrebbero inoculato nelle popolazioni i germi del razzismo etnico e dell’ideologia del genocidio. La Chiesa è accusata anche di aver preso partito e legato la sua sorte al regime del gen. Habyarimana, un hutu. Mons. Vincente Nsengiyumva, arcivescovo di Kiagli, non è forse stato membro per quattordici anni, dal 1975 al 1989, del comitato centrale del MNRD, il partito unico al potere?

A partire dal 1990 i vescovi e le diverse commissioni tuttavia hanno moltiplicato i loro interventi per denunciare la situazione di violenza e d’ingiustizia. Così, nell’ottobre 1991, concludendo la loro riunione a Bujumbura (Burundi), i vescovi cattolici del Ruanda, del Burundi, dell’Uganda e dello Zaire constatano che «la sub-regione è malata: malata delle ingiustizie, delle guerre, delle paure, degli scoraggiamenti. Le cause di questa malattia sono il razzismo e il tribalismo».

Nel maggio dell’anno seguente il Servizio di promozione teologica (SAT), istanza cattolica a Butare, fa osservare che: «Nessuno più è in sicurezza in nessun luogo, neppure il ministro nella sua casa… Non è la vita e la pace dei cittadini che si cerca, è la loro morte e il loro terrore che sono coltivati accuratamente». Ma chi ascolta queste parole?

In ogni campo vi erano preti, suori, battezzati…

Effettivamente nella cultura ruandese la contestazione dei superiori non ha diritto di cittadinanza. «Tradizionalmente, spiega l’abate Kizito Bahujimihigo (attuale vescovo di Ruhengeri), ogni responsabile è un padrone assoluto, al quale i subalterni devono un’obbedienza cieca». Lo stesso accade nella Chiesa. Come può il fedele mettere in discussione ciò che essa dice e fa? «La parole che essa trasmette è del tutto divina: come, prosegue l’abate Kizito, il battezzato si permetterebbe di criticarla, lui che, per tradizione, non deve aprire bocca quando il superiore parla?».

«Il genocidio è un avvenimento che ha toccato il mondo, osserva il pastore Richard Murigande, segretario generale del Consiglio protestante del Ruanda (CPR). Nessuna istituzione ne è stata risparmiata. Alcuni sostengono che le Chiese si siano impegnate nel genocidio. No! Non è vero. Non conosco alcuna Chiesa che abbia predicato il genocidio. Si è confuso il silenzio delle Chiese con la complicità».

Nella letetra pastorale che hanno appena pubblicato in occasione del 10° anniversario del genocidio, i vescovi ruandesi riconoscono «la partecipazione di alcuni nostri fedeli ai massacri», mentre ricordano che, nello stesso tempo, la Chiesa non ha mai cessato di chiedere la fine dei massacri. Ma l’isteria criminale ha spazzato via tutto al suo passaggio. «Il Paese è stato devastato e saccheggiato, aggiungono i vescovi. Molti suoi figli sono morti, altri sono stati profondamente colpiti, moralmente, fisicamente, psicologicamente. Alcuni sono stati anche scossi nella loro fede e hanno concluso che Dio li aveva abbandonati o che non esisteva più».

In qualche mese le Chiese sono state completamente destrutturate; i vincoli sociali, pure molto forti sulel colline e nelle comunità, si sono rotti; la diffidenza e la paura hanno invaso i cuori e le emnti. Quanto vale questa religione che, dopo 100 anni, semina l’odio e la morte?


 In entrambi i campi c’erano preti, suore, battezzati. Almeno complici; qualcuno è arrivato a uccidere; molti sono in prigione, rifugiati, esiliati. Altri, scampati, hanno ritrovato le loro colline e ricominciano a vivere. «Nel corso di questi avvenimenti, testimonia Dina Martines, missionaria spagnola, direttrice a Kigali di un centro medico-sociale, e lei stessa scampata, abbiamo visto il peggio e il meglio dell’essere umano. Sono persuasa che un giorno si identificheranno dei santi fra quegli uomini e donne che hanno dato la vita perché altri esseri vivano. Ma non è questo il momento, è troppo presto…».

 

Una Chiesa decapitata

Secondo l’abate Joseph Ngomanzungu, professore di storia, 246 consacrati sono stato portati via dall’uragano omicida fra il 1990 e il 2000, senza contare i 70 seminaristi, i novizi e gli ausiliari dell’apostolato.

 

Uccisi

Sacerdoti, 135 (104 fra l’aprile e il luglio 1994). Di cui 4 vescovi.

Frati: 43.

Suore: 74.

 

Imprigionati

27 preti, 5 frati e 10 suore. Nel 2002 erano ancora in prigione 11 preti, 1 frate e 4 suore.
Sarebbe interessante, suggerisce l’abate Ngomanzungu, riscontrare gli abbandoni dalla vita sacerdotale e religiosa di coloro che sono stati ordinati o hanno fatto la professione nel 1994.

 

Una storia di 100 anni

1900. Fondazione da parte dei Padri Bianchi della prima parrocchia a Save, nel sud del Paese.

1909. Arrivo delle Suore missionarie d’Africa.

1919. Mons. Hirth fonda la prima congregazione locale femminile, le Suore Benebikira.

1929. Mons. Classe fonda la prima congregazione locale maschile, i Frati di S. Giuseppe.

1931. Conversione del re (mwami) Mutara III Rudahigwa. Battesimi e conversioni in massa.

1946. Consacrazione del Ruanda a Cristo re.

1950. Giubileo d’oro della Chiesa ruandese.

1959. Roma cambia il Vicariato apostolico del Ruanda in Provincia ecclesiastica.

1961. Proclamazione della Repubblica.

1962. Dichiarazione dell’indipendenza. La Chiesa del Ruanda conta 4 diocesi: Nyundo, Kabgayi, Ruhengeri e Butare.
1973. Colpo di Stato del generale Habyarimana.

1975. 75° anniversario della Chiesa. In 25 anni i battezzati sono passati dal 25% al 51% della popolazione totale.

1990. (7-9 settembre). Visita pastorale di Giovanni Paolo II.

1994. Genocidio. Apertura a Roma del sinodo dell’Africa. I vescovi ruandesi non possono parteciparvi.

1997-2000. Sinodo straordinario, celebrazione del centenario della Chiesa in Ruanda.

 

Testo originale:

 

Le Rwanda, cauchemar pour l’Eglise
par Bernard JOUANNO - La meilleur élève de l’Eglise africaine devenue son cauchemar (1er-04-04) 1495373


Comment s’est située l’Église catholique dans l’horreur du génocide au Rwanda alors qu’après un siècle d’évangélisation, des chrétiens massacrèrent d’autres chrétiens ? Collusion de certains évêques avec le pouvoir, responsabilité des missionnaires, silence de l’Église … : ces questions, terribles concernent tous les chrétiens

Le 7 septembre 1990 , Jean-Paul II atterrit à l’aéroport de Kanombe à Kigali et foule pour la première fois la terre rwandaise. L’ambiance est à la fête. Dès son arrivée, le Pape avoue sa joie d’entreprendre enfin cette visite pastorale au «pays des mille collines». Il se dit heureux de «se trouver dans ce pays africain où l’Évangile a été accueilli avec enthousiasme et où la foi a progressé rapidement». Les évêques catholiques du Rwanda sont fiers de présenter à leur hôte un pays qui, en moins d’un siècle d’évangélisation, compte 3.200.000 catholiques (soit près de 50% de la population), 116 paroisses, 538 prêtres (278 Rwandais et 260 étrangers), 1.074 religieuses (678 Rwandaises et 338 étrangères) et 233 Frères (151 Rwandais et 82 étrangers).

Moins d’un mois plus tard, le 1er octobre 1990 , le Rwanda connaît les premiers soubresauts d’une nouvelle guerre civile qui, de jour en jour et de semaine en semaine, aboutira au génocide d’avril 1994. Ce jour-là en effet, le FPR (Front patriotique rwandais) composé de Tutsis réfugiés en Ouganda depuis des années, décide de forcer la porte de leur pays qui leur est toujours interdite. Les hostilités ethniques reprennent de plus belle. Enfants d’une même patrie, les Hutus et les Tutsis redeviennent ennemis…

Le 7 avril 1994, lorsque le génocide commence, obéissant à des consignes précises, beaucoup de Rwandais sont sous le choc. Hier encore, sur les collines, les villageois se rendaient ensemble dans les églises, pour prier, chanter et louer le même Seigneur. Et voici que subitement, munis de fusils et de machettes, les uns se ruent sur leurs frères et voisins.

Rien ne les arrête. Les églises, les chapelles et les sanctuaires que les agresseurs n’avaient jamais osé attaquer au cours des conflits précédents sont transformés, comme à Nyamata, à N’tamara ou à Kibeho, en «abattoirs d’innocents» selon l’expression du cardinal Etchegaray. Tous ont appris les commandements de Dieu : «Honore ton père et ta mère ! Tu ne tueras pas ! Tu ne désireras rien de ce qui est à ton prochain !» Mais les leçons du catéchisme ne sont pas de saison. Et Dieu semble avoir complètement disparu de l’horizon.

Les évêques et les différentes commissions ont multiplié les interventions pour dénoncer les situations de violence et d’injustice

Les responsables d’Églises assistent, désemparés et impuissants, au génocide commis par des chrétiens contre d’autres chrétiens. Leurs timides appels à la paix se perdent dans les rumeurs haineuses. Et très vite l’Église catholique et les missionnaires sont montrés du doigt, accusés d’être à l’origine de ces terribles événements.

L’Église catholique aurait, dit-on, sapé les fondements de la société traditionnelle. Puis, s’appuyant tantôt sur les Tutsis tantôt sur les Hutus, les missionnaires auraient inoculé dans les populations les germes de l’ethnisme et de l’idéologie génocidaire. L’Église est aussi accusée d’avoir pris parti et lié son sort au régime du général Habyarimana, un Hutu. Mgr Vincent Nsengiyumva, archevêque de Kigali, n’a-t-il pas été pendant quatorze ans, de 1975 à 1989, membre du comité central du MNRD, le parti unique au pouvoir ?

À partir de 1990, les évêques et les différentes commissions ont pourtant multiplié les interventions pour dénoncer les situations de violence et d’injustice. Ainsi, en octobre 1991, à l’issue de leur réunion à Bujumbura (Burundi), les évêques catholiques du Rwanda, du Burundi, de l’Ouganda et du Zaïre constatent que «la sous-région est malade : malade des injustices, des guerres, des peurs, des découragements. Les causes de cette maladie, c’est le racisme et le tribalisme.»

En mai de l’année suivante, le Service d’animation théologique (SAT), instance catholique à Butare, fait remarquer que : «Plus personne n’est en sécurité nulle part, même pas le ministre dans sa propre maison… Ce n’est pas la vie et la paix des citoyens que l’on cherche, c’est leur mort et leur panique que l’on cultive soigneusement.» Mais qui entend ces paroles ?

Dans chaque camp, il y avait des prêtres, des religieux, des baptisés...

Dans la culture rwandaise en effet, la contestation des supérieurs n’a pas droit de cité. «Traditionnellement, explique l’abbé Kizito Bahujimihigo (actuel évêque de Ruhengeri), tout responsable est un maître absolu à qui ses subalternes doivent une obéissance aveugle.» Il en va de même dans l’Église. Comment le fidèle pourrait-il mettre en cause ce qu’elle dit et fait ? «La parole qu’elle transmet est toute divine : comment, poursuit l’abbé Kizito, le baptisé se permettrait-il de la critiquer, lui qui, par tradition, ne doit pas élever la voix quand le supérieur parle ?»

«Le génocide, c’est un événement qui a touché tout le monde, observe le pasteur Richard Murigande, secrétaire général du Conseil protestant du Rwanda (CPR). Aucune institution n’a été épargnée. Certains soutiennent que les Églises ont été engagées dans le génocide. Non ! Ce n’est pas vrai. Je ne connais pas une Église qui ait prêché le génocide. On a confondu le silence des Églises avec de la complicité.»

Dans la lettre pastorale qu’ils viennent de publier à l’occasion du 10e anniversaire du génocide, les évêques rwandais reconnaissent «la participation de certains de nos fidèles aux tueries», tout en rappelant que, dans le même temps, l’Église n’a jamais cessé de demander l’arrêt des massacres. Mais l’hystérie criminelle a tout balayé sur son passage. «Le pays a été dévasté et pillé, ajoutent les évêques. Beaucoup de ses enfants sont morts, d’autres ont été profondément affectés, moralement, physiquement, psychologiquement. Certains ont même été ébranlés dans leur foi et ont conclu que Dieu les avait abandonnés ou qu’il n’existait plus.»

En quelques mois, les Églises ont été complètement déstructurées ; les liens sociaux pourtant très forts sur les collines et dans les communautés se sont rompus ; la méfiance et la peur ont envahi les cœurs et les esprits. Que vaut cette religion qui, au bout de 100 ans, sème la haine et la mort ?

Dans chaque camp, il y avait des prêtres, des religieux, des religieuses, des baptisés. Au moins complices ; certains sont allés jusqu’à tuer ; beaucoup sont en prison, réfugiés, exilés. D’autres, rescapés, ont retrouvé leurs collines et recommencent à vivre. «Au cours de ces événements, témoigne Dina Martines, missionnaire espagnole, directrice à Kigali d’un centre médico-social, et elle-même rescapée, nous avons vu le pire et le meilleur de l’être humain. Je suis persuadée qu’un jour on reconnaîtra des saints parmi ces hommes et des femmes qui ont donné leur vie pour que d’autres vivent. Mais ce n’est pas le moment, c’est encore trop tôt…»
Bernard JOUANNO

 

 

 

 

Une Église décapitée

Selon l’abbé Joseph Ngomanzungu, professeur d’histoire, 246 consacrés ont été emportés par l’ouragan meurtrier, entre 1990 et 2000 sans compter les 70 grands séminaristes, les novices et les auxiliaires de l’apostolat.

Tués :

- Prêtres, 135 (104 entre avril et juillet 1994). Dont 4 évêques.
- Frères : 43, dont 27 joséphites.
- Religieuses : 74, dont 21 benibikiras et 14 bizeramariyas (congrégations locales)

Emprisonnés :

27 prêtres, 5 frères et 10 religieuses. En 2002, étaient encore en prison 11 prêtres, 1 frère, 4 religieuses.
Il serait par ailleurs intéressant, suggère l’abbé Ngomanzungu, de relever les abandons de la vie sacerdotale et religieuse de ceux qui ont été ordonnés ou ont fait les professions en 1994.

Une histoire de cent ans

1900. Fondation par les Pères Blancs de la première paroisse à Save (sud du pays).

1909. Arrivée des Sœurs missionnaires d’Afrique.

1919. Fondation par Mgr Hirth de la première congrégation locale féminine, les Sœurs Benebikira.

1929. Fondation par Mgr Classe de la première congrégation locale masculine, les Frères Joséphites.

1931. Conversion du roi (mwami) Mutara III Rudahigwa. Baptêmes et conversions en masse.

1946. Consécration du Rwanda au Christ Roi.

1950. Jubilé d’or de l’Église rwandaise

1959. Rome change le Vicariat apostolique du Rwanda en Province ecclésiastique.

1961. Proclamation de la République.

1962. Déclaration d’indépendance. L’Église du Rwanda compte 4 diocèses : Nyundo, Kabgayi, Ruhengeri et Butare.

1973. Coup d’État du général Habyarimana.

1975. 75e anniversaire de l’Église. En 25 ans, les baptisés sont passés de 25 % à 51 % de la population totale.

1990. (7-9 septembre ). Visite pastorale de Jean-Paul II.

1994. Génocide.Ouverture à Rome du synode sur l’Afrique. Les évêques rwandais ne peuvent pas s’y rendre.

1997-2000. Synode extraordinaire, célébration du centenaire de l’Église au Rwanda.



Mercoledì, 05 gennaio 2005