Undicesima Domenica per annum – B - – 14 giugno 2009 –
Solennità del «Corpus Domini»

a cura di Paolo Farinella,prete

* Domenica 11a per annum – B: Solennità del «Corpus Domini»[1]
– 14 giugno 2009 –
I.         Scheda Storica
La solennità del «Corpo del Signore» è stata instaurata in forma privata nei secc. XII-XIII. Una suora ospedaliera belga, Giuliana di Mont-Cornillon, della diocesi di Liegi (Belgio) nel 1208 ebbe una visione in cui le apparve la luna piena con una incrinatura nel disco. Due anni dopo un’altra visione le spiegò che quella incrinatura significava la mancanza di una celebrazione autonoma dell’istituzione dell’Eucaristia. Fino ad allora, infatti, per 1200 anni ca., il «memoriale» dell’Eucaristia si celebrava sempre al giovedì santo, in un clima di mestizia e di sofferenza, dove tutto convergeva naturalmente verso il venerdì santo che prese sempre più piede fino a imporsi sugli altri giorni del triduo pasquale tanto da snaturarne il vero senso. Ciò che la suora belga chiedeva era festa specifica che celebrasse l’istituzione stessa dell’Eucaristia.
Nel 1246 per mezzo del canonico di San Martino di Liegi, Giovanni di Losanna, la suora chiese ufficialmente l’istituzione di questa festa nella sua diocesi e il Vescovo, Roberto di Torote, dopo una discussione teologica l’adottò e con decreto stabilì che la festa si celebrasse il giovedì dopo la Festa della Santa Trinità (60 giorni dopo la Pasqua), anch’essa instaurata per prima dalla stessa diocesi di Liegi che adesso vi legava anche quella della Eucaristia con un intento evidente: tutta la vita trinitaria di Dio si manifesta e si compie nel sacramento del pane e del vino. La suora fece comporre una ufficiatura propria della festa che cominciava con le parole «Animarum cibus», di cui è rimasto solo qualche frammento. La festa fu celebrata solennemente per la prima volta nel 1247 a Liegi.
Con proprio decreto del 29 dicembre 1253 inviato alle autorità religiose e ai fedeli della sua legazione, il card. Ugo di San Caro, legato papale in Germania, non solo confermava il decreto istitutivo della festa del vescovo di Liegi, ma lo estendeva ai territori di sua pertinenza, concedendo anche una speciale indulgenza alle chiese in cui si celebrava la nuova solennità. Partito il legato da Liegi, la festa fu contrastata da molti ecclesiastici che vi si opposero tanto che la celebrazione fu solo officiata nella chiesa di San Martino di Liegi, dove era iniziata. Nel 1258 moriva suor Giuliana di Mont-Cornillon, lasciando l’eredità dell’impegno eucaristico ad una suora di nome Eva e sua confidente. Il 29 agosto 1261 divenne papa Giacomo Pantaleone col nome di Urbano IV che quando era arcidiacono a Liegi aveva conosciuto la beata Giuliana. Su sollecitazione del vescovo suor Eva scrive al papa chiedendo il riconoscimento ufficiale della festa. Il papa non solo istituisce la festa del Corpus Domini, ma l’estende anche a tutta la chiesa.
A questa scelta il papa fu spinto anche da un fatto miracoloso. Un prete boemo, Pietro da Praga, aveva dei dubbi sulla trasformazione dle pane e del vino nel corpo e sangue di Cristo. Nel 1263 mentre celebrava la Messa sulla tomba di Santa Cristina a Bolsena, vide delle gocce di sangue stillare dall’ostia consacrata che si depositarono sul corporale e sul pavimento. Egli corse dal papa Urbano IV che si trovava a Orvieto. Verificato il miracolo e visto il corporale (oggi conservato ad Orvieto), il papa istituì la festa del Corpus Domini.
San Tommaso d’Aquino ricevette l’incarico di comporre l’intero ufficio della festa secondo il rito romano che ancora oggi sostituisce quello originario francese. Si narra che San Tommaso scrisse l’intero ufficio in ginocchio davanti al tabernacolo appoggiandosi direttamente sull’altare. Si stabilì definitivamente che la festa fosse celebrata il giovedì (feria quinta) dopo l’ottava di Pentecoste che coincideva con il giovedì successivo alla festa della Trinità, cioè 60 giorni dopo la Pasqua, come aveva stabilito il vescovo di Liegi. Questo in teoria. Di fatto la norma papale non ebbe seguito a motivo dei torbidi militari che infestavano l’Italia e bisognò aspettare ancora 40 anni prima che il Corpus Domini diventasse di fatto e di diritto festa della chiesa universale per opera di papa Clemente V, ma specialmente di papa Giovanni XXII. Era l’anno 1318. E’ passato più di un secolo dalla visione di suor Giuliana di Mont-Cornillon.
 
II.    Introduzione alla liturgia
La solennità del Corpus Domini – Corpo del Signore è un ulteriore prolungamento della Pasqua che abbiamo vissuto in una notte di veglia attorno ad un banchetto, consumato «in fretta e con i fianchi cinti» segno e modello di liberazione. Ora siamo seduti attorno al banchetto della alleanza nuova, senza più fretta, ma sempre pronti a ripartire per essere segno e strumento di ogni liberazione in favore di ogni singolo individuo e popolo. E’ il banchetto che anticipa quello finale della fine della storia: è il Corpus Domini. Dal banchetto al banchetto: è questa la dimensione storica della Chiesa pellegrina che di Eucaristia in Eucaristia cammina verso la Gerusalemme celeste. Il banchetto eucaristico è il «memoriale» della consegna a noi del «mistero pasquale» nel sacramento «fonte e culmine» della Chiesa e anticipo del banchetto escatologico alla fine dei tempi.
Oggi operiamo un passaggio: dal simbolo alla realtà e prendiamo coscienza che il banchetto a cui siamo convocati come invitati è partecipazione diretta e attiva alla comunione con il Signore che mette «piatto» la sua stessa vita. L’espressione «carne e sangue» oggi potrebbe fare sorridere perché potrebbe accusarci, come durante le persecuzioni del sec. I, di cannibalismo. E’ un’espressione tipicamente ebraica per dire «fragile vita». Per gli antichi il sangue è sede della vita, mentre «carne» indica tutto ciò che è opposto a «spirito» e quindi fragile, caduco, morituro. Nella «carne e sangue» Dio si fa accessibile a noi perché assume la nostra fragile umanità nella quale trasfonde la sua vita immortale facendosi «comunione» con noi, in noi e per noi.  
Il «mistero» è tutto qui ed è un mistero molto chiaro ed evidente: Dio Padre, Figlio e Spirito Santo restano per sempre con noi, pongono la dimora divina in noi e fanno di noi la tenda del convegno, la tenda dell’incontro e della comunione. Ora noi possiamo accedere al mistero trinitario perché Dio s’incarna ancora una volta nella fragilità della parola annunciata e nella povertà del pane e del vino. Dio consegna a noi la sua vita come nutrimento e noi ne possiamo disporre secondo le nostre esigenze. L’Eucaristia definitivamente strappa da cima a fondo il velo del tempio perché c’introduce nel «sancta sanctorum» dell’intimità con Dio.
La parola «Eucaristia» deriva dal verbo greco «eu-charistèō/rendo grazie» che a sua volta proviene dall’avverbio augurale «eu-…-bene» e «chàirō-rallegrarsi/essere contento». Nei vangeli sinottici al momento della ultima cena (Mt 26,27; Mc 14,23; Lc 22,17.19 [cf Gv 6,11]), Gesù prende il pane e la coppa di vino[2] dopo che «eucharistēsas/avendo reso grazie», da cui ben presto il termine passò ad indicare tutta la celebrazione che vive il «rendimento di grazie» per eccellenza: noi ringraziamo Dio per il dono del Figlio, Parola, Pane e Vino/Relazione, Vita e Sangue, alimento perenne di coloro che vogliono essere nel mondo segni e testimoni dell’amore gratuito di quel Dio che ci ha amati per primo (1Gv 4,19). Entriamo nel clima della liturgia recitando, a cori alterni, la prima parte la prima parte della Sequenza propria di questo giorno.
 
Sequenza I. La sequenza è un genere di componimento melico (dal greco mèlos-canto) di origine religiosa accompagnato da strumenti. Presenta simmetria binaria di serie sillabiche, determinata dal canto. La sequenza ha la struttura propria della lingua latina, per cui in italiano, a volte, stride fortemente dando anche un senso di fastidio. La sequenza è parte della liturgia e dell’ufficio del Corpus Domini composti da san Tommaso d’Aquino, che scrisse materialmente i testi davanti al tabernacolo. Da un punto di vista teologico espone poeticamente e compiutamente tutta la teologia cattolica della «presenza reale».
 

1. Sion, loda il Salvatore,
la tua guida, il tuo pastore
con inni e cantici.
5. Lode piena e risonante,
gioia nobile e serena
sgorghi oggi dallo spirito.
9. Cristo lascia in sua memoria
ciò che ha fatto nella cena:
noi lo rinnoviamo.
2. Impegna tutto il tuo fervore:
egli supera ogni lode,
non vi è canto che sia degno.
6. Questa è la festa solenne
nella quale celebriamo
la prima sacra cena.
10. Obbedienti al suo comando
consacriamo il pane e il vino,
ostia di salvezza.
3. Pane vivo, che dà vita:
questo è tema del tuo canto,
oggetto della lode
7. È il banchetto del nuovo Re,
nuova pasqua, nuova legge; 
e l’antico è giunto a termine.
11. E certezza a noi cristiani:
si trasforma il pane in carne,
si fa sangue il vino.
4. Veramente fu donato
agli apostoli riuniti
in fraterna e sacra cena.
8. Cede al nuovo il rito antico,
la realtà disperde l’ombra;
luce, non più tenebra.
12. Tu non vedi, non comprendi,
ma la fede ti conferma,
oltre la natura.

 
Mangiare vuol dire diventare «uno» con chi si mangia attraverso ciò che si mangia. Non si mangia tra estranei con i quali tutt’al più si può fare un briefing anonimo o un buffet in piedi. Chi mangia lo stesso pane e beve lo stesso vino sedendo alla stessa mensa esprime una vita di unità con gesti di comunione.
 
Testi biblici
Prima letturaEs 24,3-8. Il brano contiene la versione elohista della celebrazione dell’alleanza, mentre nei vv 1-2 e 9-11, assenti dalla liturgia odierna, si trova la versione jahvista[3]. La tradizione elohista (e jahvista) conclude l’alleanza con un sacrifico e con il rito del sangue, che comprende: la centralità della Parola proclamata e accettata dal popolo (v. 7; cf Dt 27,2-10; Gs 24,19-28), il sacrificio come sigillo di alleanza (vv. 5-6.8) e un segno di testimonianza come una stele, un cippo o, come qui, un altare, a ricordo per i posteri (v. 4; cf Gen 28,18; 31,44-54; Gs 24,26-27). Il rito però sarebbe un contenitore vuoto se non esprimesse una intimità di vita partecipata, qui dichiarata espressamente dal v. 7b: «Quanto il Signore ha ordinato noi faremo e ubbidiremo». Il popolo accoglie Dio e vi aderisce senza condizioni: due vite si uniscono in un rapporto sponsale e la vita è espressa dal sangue (v. 8; cf Lev 17,14) con cui Mosè asperge l’altare, simbolo di Yhwh (cf Gen 15,7-18) e il popolo. Il sangue di Dio è stato versato una sola volta sulla croce, ma la vita permane lungo tutta la storia nell’Eucaristia che celebriamo come alleanza sponsale. Alleanza eterna (Ger 31,31).
 
Dal libro dell’Esodo 24,3-8
In quei giorni, Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose insieme e disse: “Tutti i comandi che ha dati il Signore, noi li eseguiremo!”. Mosè scrisse tutte le parole del Signore, poi si alzò di buon mattino e costruì un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore. Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: “Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo![4]”. Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: “Ecco il sangue dell’alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!”  
 
Salmo responsoriale116/115, 12-13; 15.16bc; 17-18. Il salmo 116 nella Bibbia ebraica è smembrato in due (Sal 114 e 115) nella Bibbia greca della Lxx e in quella latina della Vulgata. E’ un canto di ringraziamento modulato nel Tempio, forse durante un sacrificio in cui il salmista esprime angoscia per il pericolo corso (vv. 1-4), esalta la bontà divina per la liberazione (vv. 5-8), dichiarazione di fiducia in Dio (vv. 10-14) e l’offerta della propria lode celebrata come sacrificio spirituale (vv. 15-19) che apre una prospettiva nuova sulla teologia della preghiera.
 
Rit. Tu ci disseti, Signore, al calice della gioia.

1. 12  Che cosa renderò al Signore
per quanto mi ha dato?

13  Alzerò il calice della salvezza
e invocherò il nome del Signore.
Rit.
16 Io sono tuo servo, figlio della tua ancella;
hai spezzato le mie catene.
Rit.
3. 17 A te offrirò sacrifici di lode
e invocherò il nome del Signore
2. 15  Preziosa agli occhi del Signore
è la morte dei suoi fedeli.
18 Adempirò i miei voti al Signor
davanti a tutto il suo popolo. Rit.

 
Seconda lettura Eb 9,11-15. La lettera agli Ebrei è una omelia liturgia, redatta verso la fine del sec. I da un sacerdote giudeo divenuto cristiano. Egli dedica tutto il cap. 9 della lettera a dimostrare ai giudei-cristiani la superiorità del sacerdozio di Cristo sul sacerdozio dell’AT. Cristo vi è descritto come il Sommo Sacerdote eterno della nuova alleanza. Il brano della liturgia di oggi riporta la seconda parte di questo confronto, quello cioè relativo a Cristo, mentre omette la parte che riguarda il sacerdozio dell’AT (vv. 1-10) che sarebbero da leggere in parallelo. L’idea nuova comunque che affiora da questo passo è il passaggio dalla «materialità» del sacrificio (versamento del sangue di animali) alla spiritualizzazione e interiorizzazione del sacrifico della nuova alleanza perché in Cristo la sua umanità offerta una sola volta acquista un valore eterno e universale irripetibile e quindi dichiara superati i sacrifici ripetitivi. Celebrando l’Eucaristia noi entriamo e dimoriamo nell’unico ed eterno sacrificio di Cristo che è contemporaneamente vittima e sacerdote.
 
Dalla lettera agli Ebrei Eb 9,11-15
Fratelli, 11 Cristo, venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una Tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa creazione, 12 entrò una volta per sempre nel santuario, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue, dopo averci ottenuto una redenzione eterna. 13 Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca sparsi su quelli che sono contaminati, li santificano, purificandoli nella carne, 14 quanto più il sangue di Cristo, il quale con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente? 15 Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza, perché, essendo ormai intervenuta la sua morte in redenzione delle colpe commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa.
 
 
Vangelo Mc 14,12-16.22-26.Il brano del vangelo di oggi è molto complesso e difficile da un punto di vista redazionale. Se confrontiamo Lc con Mc (da cui il primo dipende) ci accorgiamo facilmente che in origine Mc, come Gv, non riportava le parole dell’Eucaristia, ma descriveva solo il banchetto pasquale di Gesù con i suoi discepoli. Lc però come discepolo di Paolo conosce anche la tradizione eucaristica paolina (1Cor 11,23-27) che integra con quella pasquale di Mc. Infine, in fase finale di redazione dei quattro vangeli un redattore finale ha armonizzato Mc con Lc e Mt, aggiungendo i vv. 22 e 24b che trasformano il racconto pasquale primitivo in racconto eucaristico. I primi cristiani non hanno capito subito il valore eucaristico dell’ultima cena di Gesù, di cui non hanno conservato nemmeno le parole dell’istituzione (ne restano tre versioni). Il merito della memoria eucaristica deve attribuirsi a san Paolo e alle sue comunità che ben presto si sono liberati dal condizionamento del Tempio e dei suoi sacrifici. Sono di fatto i cristiani provenienti dal paganesimo che hanno svelato il senso «nuovo» dell’ultima cena. L’Eucaristia stessa ci spinge a cogliere le «novità» di Dio nella storia come integrazioni necessarie alla rivelazione strettamente detta.
 
 
 
Dal Vangelo secondo Marco 14,12-16.22-26.
12 Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: “Dove vuoi che andiamo a preparare perché tu possa mangiare la Pasqua?”. 13 Allora mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: “Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo 14 e là dove entrerà dite al padrone di casa: il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, perché io vi possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli? 15 Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala con i tappeti, già pronta; là preparate per noi”. 16 I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono per la Pasqua. 22 Mentre mangiavano prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: “Prendete, questo è il mio corpo”. 23 Poi prese il calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. 24 E disse: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti. 25 In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio”. 26 E dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
 
Spunti di omelia
Oggi celebriamo il corpo, anzi la carne. La parola carne, in ebr. basàr e in gr. sarx,  indica in rapporto ai viventi tutto ciò che è corruttibile, fragile, mortale. Carne si oppone a Dio che è eterno, onnipotente e spirituale. Nel NT la parola carne ricorre 158 volte circa e ha sempre il significato di creaturalità/uomo/essere vivente finito. Il suo opposto è tutto ciò che si riferisce a «spirito/spirituale». Tutta la fede cristiana è una tensione tra carnalità e spiritualità: questa tensione non si risolve nella negazione della prima a vantaggio della seconda perché la fede cristiana è tutta carnalità e tutta spiritualità, in forza dell’audace affermazione di Gv 1,14: «Il Lògos-carne fu fatto».
La solennità del Corpo e del sangue del Signore ci conferma in questa prospettiva e ci obbliga a prendere coscienza che l’Eucaristia è il sacramento principe di questa realtà «materiale». Il Cristianesimo non è nemico della materia, del corpo e della sensibilità, al contrario esso valorizza ciò che è materiale perché lo riconosce e lo assume nella sua creaturalità, svuotandolo di ogni presunzione di sacralità. Oggi, infatti, noi celebriamo il «pane», il «vino» o per usare un linguaggio biblico: « la carne e il sangue».
La solennità del «corpus domini» è quindi l’immersione nella materia fisica, anzi nella gracilità della condizione umana che ora è anche la dimensione di Dio, l’eterno incarnato nella fragile consistenza di un pane e di un vino poveri alimenti della mensa dei poveri. Non è un banchetto succulento o ricco, è solo un pane e un vino: la desolazione della povertà.
Nel sacramento dell’Eucaristia come in tutti i sacramenti, la materia simbolica che esprime il senso profondo della realtà è sempre un elemento della natura che è anche alimento dell’umanità come l’acqua, l’olio, il pane, il vino oppure elementi portanti della relazione umana, come il perdono e l’amore. Il senso di questi elementi/alimenti/relazione è rivelato da una parola formale che nel momento in cui li sottrae al loro significato materiale, li svela e li rivela come veicoli di un senso nuovo e vitale: «Questa è la mia carne… questo è il mio sangue» sono affermazioni da brivido che non possono essere più intese nel senso materiale, ma siamo costretti dalle parole stesse ad entrare in una dimensione nuova che solo la rivelazione può esprimere: carne e sangue sono la natura del Figlio di Dio, la sua vita e questa vita comunicata a noi in forma di cibo che alimenta la vita. Si forma così un circuito di comunione che alimenta in forma costante vita da vita.
Nulla è estraneo a Dio, non lo spirito, non la materia, non il nostro corpo che partecipa della sua stessa identità. Ogni giorno facendo la comunione, noi diventiamo «Corpo di Cristo» e nel momento in cui lo riceviamo noi ne prendiamo atto e con una parola solenne di fede rispondiamo:: «Amen/Tu, mio Dio, sei il mio Re Fedele», inserendoci così anche noi in una dimensione di fedeltà. Il nostro corpo è anche sede di passioni, di tendenze, di fratture, di ansie, di bisogni, di aneliti, di stanchezze, di malattie, di fatica, di pesantezza, di forza, di gioia, di tenerezza… tutto ciò fa parte della fragilità umana e in quanto tale appartiene a Dio perché oggi «nella carne di Dio» noi celebriamo «un Dio di carne».
In ebraico la parola «cuore» si dice «lebab» (pronuncia: levav) e insegnano i rabbini che le due «b» stanno a significare le due tendenze che animano il cuore umano: quella verso il bene e quella verso il male che non possono essere estirpate per cui bisogna amare Dio con tutte e due le tendenze, anche con la tendenza verso il male. Per questo nello Shemà Israel si dice «amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze (= tutti i tuoi averi)» (Dt 4,5). Coloro che separano lo spirito dalla carne, l’anima dal corpo fanno un’operazione antistorica e contraria alla fede. Oggi è il giorno della «fisicità» di Dio il quale raggiunge il culmine di un lungo processo di incarnazione iniziata nell’esodo attraverso segni anticipatori del sacramento che oggi viviamo come realtà di fede.
Tutta la storia della salvezza prepara al punto di arrivo che è il discorso del «pane » di Gv 6. Un lungo percorso per giungere alla carnalità di Dio:
 
-    Nel deserto il popolo è nutrito con la manna che Dio provvede (Es 16,13-15), quasi a dire che il sostentamento della vita e la vita stessa sono opera esclusiva di Dio. L’esodo della libertà è segnato e nutrito dal pane e dall’acqua che piovono dal cielo, senza concorso umano. Si direbbe che l’esodo è la fatica di Dio che porta il peso della sopravvivenza del suo popolo. Nell’esodo Dio si fa manna.
-    Pane al mattino e carne alla sera ricevette anche Elia, quando fuggì dalla regina Gezabele e rifece al contrario il cammino del suo popolo: dalla terra promessa alla montagna di Dio, l’Oreb nel Sinai (1Re 17,6). Camminare verso la montagna di Dio non è una passeggiata, ma un esodo che impegna la vita stesa e bisogna essere equipaggiati per non morire lungo la strada: «Alzati, mangia perché il cammino è troppo lungo per te. Si alzò, mangiò, bevve e camminò con la forza di quel cibo quaranta giorni e quaranta notti verso il monte di Dio, l’Oreb» (1Re 19,7-8).
-    La vedova di Zarepta prepara un pane per il profeta Elia. anticipo del pane eterno perché la farina della sua madia non si esaurì (1Re 17,11-16).
-   Gesù stesso ricorda la manna come anticipazione del pane disceso dal cielo che ora è lui stesso, mandato dal Padre a nutrire gli uomini con la sua volontà di salvezza(Gv 6,31-33).
 
Ogni volta che celebriamo l’eucaristia facendo memoria condivisa del pasto di Gesù in cui volle «legarsi» definitivamente a noi e alla dimensione della nostra vita umana, noi entriamo nel «mistero pasquale» della passione, della morte, della risurrezione, dell’ascensione e della pentecoste e sperimentiamo la vita di Dio come alimento, cibo e bevanda, comunione di vita, sacramento di unità, anticipo della vita eterna.
Nel giorno in cui veneriamo e viviamo Dio in quanto corpo/carne, non possiamo non pensare ed essere uniti e solidali con tutti i corpi/carne dilaniati, squartati, violati, violentati e stuprati nel mondo. Oggi il nostro cuore è accanto ai bambini e alle bambine vittime della pedofilia, di cui si rendono colpevoli anche coloro che dovrebbero maestri e custodi dei corpi indifesi.
Oggi vogliamo essere accanto e solidali con le donne violate e vilipese nel loro corpo e quindi nella loro anima. Vogliamo essere un argine alle violenze immonde e per questo chiediamo di diventare «ostie» di frumento fragile e fragrante, simbolo di fedeltà alla Vita.
            Celebrare il «corpo del Signore» significa anche prendere coscienza che questo «corpo» di Dio patisce la fame a causa della miseria causata da sistemi d’ingiustizia e di potere che si autodefiniscono cristiani. La fame di tanta parte dell’umanità, dopo duemila anni dall’incarnazione di Cristo nella nostra umanità, è la bestemmia più grave che grida al cospetto di Dio. «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» è ancora l’urlo dei «corpi di Cristo» abbandonati alla morte per fame e miseria: fame di dignità e di decoro, fame di giustizia e decenza, fame di diritti e di ospitalità, fame di vita e di amore.
Nel ricevere «il corpo e il sangue di Cristo» nella comunione, prendiamo consapevolezza e coscienza di essere responsabili di quella di affamati nel corpo da non avere nemmeno la forza di accorgersi di avere un’anima. La nostra dimensione, quando sperimentiamo l’impotenza e la solitudine di fronte alle grandi sfide della storia, non può essere che la prospettiva sacerdotale della lettera agli Ebrei 10,5-8, quella prospettiva esige da noi che diventiamo come Lui «corpo e sangue» che si spezza e si effonde per la condivisione dei poveri:
 
«5 Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. 6 Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. 7 Allora io dico: Ecco, io vengo – perché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà».
 
Queste parole, oggi, solennità del Corpus Domini, sono Parola di Dio, profezia annunciata su ciascuno di noi, perché ora, qui e adesso, nel momento della comunione con la Sua Carne e il Suo Sangue, ciascuno possa dire:  «Ecco, io vengo, o mio Re Fedele, per fare la Tua Volontà!», cioè «Amen!Amen!».
 
 
Dopo la Comunine
Mons. Oscar, Arnulfo Romero, Omelia per i funerali di P. Alfonso Navarro[5]
«Raccontano che una comitiva, guidata da un beduino, assetata e disperata cercava   acqua inseguendo i miraggi del deserto; e la guida diceva: “Non di là, di qua!” Questo, molte volte, finché qualcuno della comitiva, disilluso, estrae una pistola e spara alla guida che, già agonizzante, in un ultimo sforzo, tende la mano per dire: “ Non di là, ma di qua”. E così muore, indicando il cammino. La leggenda diventa realtà: un sacerdote crivellato di colpi, che muore perdonando, che muore pregando, propone a tutti noi che siamo ora qui riuniti per i suoi funerali il suo messaggio, che noi vogliamo far nostro. [...] Desidero ringraziare la testimonianza della donna buona che lo ha soccorso agonizzante coperto di sangue, a cui, quando lei gli chiede se senta dolore, padre Alfonso risponde: “Non al punto di impedirmi di perdonare ai miei assassini, a chi mi ha sparato, e non tanto come il dolore che sento per i miei peccati. E che il Signore mi perdoni”. E ha cominciato a pregare. È così che muoiono coloro che credono in Dio, sia pure con le loro manchevolezze umane e i loro peccati. [...] Crediamo in Dio, predichiamo la speranza e moriamo convinti di questa speranza. E questo è il secondo aspetto del messaggio di Alfonso Navarro: è un ideale che non muore, è una mano tesa come quella del beduino che nel deserto continua a dire: “Non di là, non inseguendo i miraggi dell’odio, non con questa logica dell’occhio per occhio e dente per dente, che è criminale, ma con quest’altra: Amatevi gli uni gli altri”. Non lungo i sentieri del peccato, della violenza, si costruisce un mondo nuovo, ma lungo i sentieri dell’amore».
 
_______________________________
© Nota: L’uso di questi commenti è consentito citandone la fonte bibliografica
Domenica 11a del Tempo Ordinario – B, Solennità del Corpus Domini
Paolo Farinella, prete – 14/06/2009 – San Torpete – Genova 


[1] I testi liturgici sono tratti dal nuovo lezionario, entrato in vigore con la 1a domenica di Avvento-A (2007).
[2] La terza coppa che il banchetto ebraico dedica alla venuta del Messia.
[3] Si chiama tradizione eloista (sigla: E) o jahvista (siglsa: J) perché nell’indicare Dio la prima lo chiama Elohim e la seconda Yhwh. Accanto a queste due, vi sono anche la tradizione Presbiterale o Sacerdotale (sigla: S) perché composta durante l’esilio di Babilonia in ambiente rituale/sacerdotale e la tradizione deuteronomica (= D) perché si trova solo nel libro del Deuteronomio. J è del IX-X sec. a.C.; E del sec. VIII a.C. D del sec. VII a.C. e S sec.V a.C. Con la fine dell’esilio e il ritorno a Gerusalemme, le quattro correnti di pensiero furono integrate insieme e nel 444 a.C. si formò il libro della Toràh ebraica o Pentateuco greco e latino che abbiamo oggi.
[4] Alla lettera: noi faremo e ascolteremo! – na‘assèh wenishma‘.
[5] Alfonso Navarro era un prete salvadoregno, parroco a San Juan de Opico, dove si era dedicato a rafforzare la locale cooperativa dei piccoli contadini e a formare operatori di pastorale, soprattutto giovani. La sua predicazione e la sua attuazione indispettirono presto i latifondisti della zona, che presero ad accusarlo di essere sovversivo e comunista, minacciandolo di morte. Questo spinse il suo vescovo a trasferirlo alla parrocchia di Colônia Miramonte, in una zona residenziale di San Salvador. Ma anche lì, padre Alfonso continuò quello di sempre, proponendosi di aiutare la gente a scoprire la dimensione fraterna della comunione. E questo suonava male all’orecchio dell’oligarchia locale. Nel gennaio 1977 una bomba fu collocata nel garage della casa parrocchiale, la sua automobili finì distrutta, ma il prete si salvò per una questione di attimi. L’11 maggio dello stesso anno, quattro uomini armati penetrarono in casa. Con un colpo di karaté gli spezzarono un braccio, lo crivellarono con sette proiettili e, prima di uscire, spararono a bruciapelo alla testa di Luis Torre, Luisito, di 14 anni, uccidendolo sul colpo. Un altro dei giovani compagni che era subito accorso per prestare assistenza al prete, lo udì sussurrare: «Muoio per aver annunciato il Vangelo. So chi mi ha ucciso. Sappiano che li perdono». Alfonso Navarro aveva 35 anni.


Giovedì 11 Giugno,2009 Ore: 15:29