Editoriale
Come ai tempi dell’imperatore Teodosio

di Giovanni Sarubbi

Note su un dibattito sulla Trinità in casa valdese


I testi che di seguito riportiamo sono stati pubblicati nel corso del 2010 sul settimanale Riforma, organo delle chiese battiste, metodiste e valdesi (http://www.riforma.it/ ). Il tema della discussione è la dottrina della trinità. Il dibattito parte apparentemente da una risposta che il teologo Paolo Ricca da ad una lettera di un lettore di Riforma che chiedeva se è possibile essere cristiani senza credere nella trinità. La risposta di Ricca alla domanda del lettore è no anche se si tratta di un no molto articolato. Il suo no è infatti corredato da tutta una serie di dati storici che dicono inequivocabilmente come quella dottrina sia nata alla corte degli imperatori romani, Costantino prima e Teodosio poi, che l’hanno usata come una vera e propria legge penale contro chiunque dicesse il contrario, con tutte le persecuzioni e le morti conseguenti. Abitudine trasmessa poi a tutte le chiese cristiane dei secoli successivi fino ai giorni nostri, siano esse ortodosse, protestanti, o cattoliche (per i protestanti lo stesso Ricca cita il caso di Michele Serveto, un antitrinitario del 1500 fatto bruciare sul rogo a Ginevra da Calvino). Se come insegna l’evangelo di Gesù, l’albero si riconosce dai frutti, allora la dottrina trinitaria è sicuramente un albero maligno, visto tutti i morti gli scannamenti e le divisioni feroci che essa ha provocato nel corso dei secoli.
Nel dibattito sono intervenuti altri tre pastori (Alessandro Esposito, Agostino Garufi e Fulvio Ferrario, quest’ultimo è anche professore di Teologia Sistematica alla facoltà Valdese di Teologia di Roma) e alcuni lettori, fra cui anche il cattolico e filosofo siciliano Augusto Cavadi. Significativo il fatto che l’ultimo articolo, quello di Ferrario, sia stato presentato come “conclusione del dibattito” che, stando a quello che poi è successo dopo ed al suo contenuto, era mirato in realtà a richiamare all’ordine il Pastore Alessandro Esposito che ha espresso tutta una serie di critiche e rilievi sulla questione trinitaria.
Il pastore Esposito, che è pastore Valdese di Trapani e Marsala, non interviene a caso nel dibattito.  All’incirca due anni fa, durante una serie di incontri di studio biblico illustrò alla sua comunità le difficoltà di elaborazione  del dogma trinitario e le varie discussioni sulla divinità di Cristo sviluppatesi nei primi secoli e come la definizione trinitaria del “credo niceno” non sia un dogma assoluto che non possa essere riveduto. Dopo la pubblicazione di tali studi sul sito della chiesa Valdese di Trapani e Marsala(http://www.chiesavaldesetrapani.com/ ), il pastore Esposito fu accusato di negare la trinità e la divinità di Gesù da alcuni esponenti di chiese pentecostali locali, che hanno montato sul caso una vera e propria bagarre in perfetto stile inquisizione. Tutto sarebbe finito lì ed archiviato come un rigurgito di fondamentalismo ma la questione non è così semplice. La Chiesa Valdese ha da tempo aperto un confronto con una serie di Chiese Pentecostali proprio in Sicilia e per tali chiese il dogma trinitario e la divinità di Gesù costituiscono un elemento fondamentale delle proprie credenze. In più nella chiesa Valdese esiste una corrente di destra che sta pesantemente condizionando la vita della chiesa e che fa capo al senatore del PDL Lucio Malan, passato alle cronache per essere uno dei “pianisti del Senato” (pianisti sono definiti coloro che votano oltre che per se anche per altri senatori assenti) e per essersi prodotto in lanci del regolamento del senato contro il presidente Scalfaro. Questa componente di destra, che ha un proprio sito di cui è responsabile proprio il senatore Malan, è uscita pesantemente allo scoperto proprio nello scorso mese di luglio con un documento pubblicato sul numero 30 di Riforma che attaccava proprio il pastore Esposito reo di aver benedetto una coppia omosessuale presso la sua chiesa di Marsala, in violazione, secondo Malan, della confessione di Fede della chiesa Valdese del 1655 su cui giurano i pastori all’atto del loro insediamento e con riferimenti precisi proprio alla questione trinitaria. Pastore quindi da espellere subito e senza indugio, come ai tempi dell’imperatore Teodosio.
Ciò premesso si comprende meglio il senso ed il contenuto dell’articolo conclusivo del dibattito del pastore Ferrario che dal linguaggio teologico iniziale passa in conclusione al personale, citando per nome e cognome il pastore Esposito. L’articolo di Ferrario, in perfetto stile “Congregazione per la dottrina della fede ratzingheriana”, concludeva, infatti, invitando il pastore Esposito ad usare i suoi “doni” per fare riflessioni meno schematiche di quelle fatte fino a quel momento, partendo dall’assunto che non si possono mettere in discussione ciò “che altri più saggi di noi ci hanno aiuta­to a comprendere” (sembra di rileggere Ratzinger nella dichiarazione Dominus Jesus del 2000). E questo dopo aver affermato al primo punto del suo articolo che “il Nuovo Testamento presenti cristologie tra loro molto diverse e, in parte, anche in reciproca tensione, è del tut­to assodato”. Si tratta di un classico della pubblicistica sulla trinità. I dibattiti teologici scadono poi inevitabilmente sul rispetto del dogma o, per dirla con il pastore Ferrario, sul fatto che nella chiesa Valdese (ma ciò vale per tutte le chiese) “nessuno è disponibile a svendere la retta dottrina della chiesa” (dalla lettera di Fulvio Ferrario ai promotori dell’appello al Sinodo Valdese contro la benedizione delle coppie omosessuali). (Per tutta questa vicenda vedi il seguente link )
Per concludere queste nostre note vorremmo riportare la discussione sul piano più propriamente teologico ponendo una domanda che è la seguente: il fatto che una serie di cristologie presenti nei Vangeli da un certo punto in poi della vita delle chiese siano state considerate “eretiche” per effetto della trasformazione della “via di Gesù” in una religione di Stato, rende quelle cristologie indegne di essere riproposte o indagate, visto anche il fallimento, in termini di frutti concreti, dell’unica cristologia trionfante intrisa di potere e di sangue?
Credo sia questa la domanda cui tutto il dibattito sulla trinità che di seguito riportiamo non da alcuna risposta. Dibattito che si conclude con l’ennesima scomunica, seppure velata, di quanti sostengono quelle cristologie pur presenti negli stessi evangeli canonici che vanno interpretati e non presi alla lettera, come hanno rilevato nel dibattito gli interventi di Rizzo e Cavadi.
Ma sulla questione trinità ci permettiamo di aggiungere un ulteriore elemento di riflessione a favore della sua archiviazione fra le dottrine che hanno fatto il loro tempo e non più proponibili alle nuove generazioni.
Nel mio piccolo contributo sul tema dello “spirito”, pubblicato nella collana “Parole delle fedi” della Emi (Editrice Missionaria Italiana) scrivo che la trinità è un «ossimoro e come tutti gli ossimori vuole indicare un movimento, una contraddizione o, ancora, un limite alla propria comprensione o alle conoscenze dell’umanità, un qualcosa su cui continuare ad investigare», cioè qualcosa di lontanissimo da un dogma di cui non si può mettere in discussione nulla. Un ossimoro, aggiungevo, non deve essere mai trasformato in dottrina perché così facendo se ne perde il senso originale di stimolo alla ricerca e di raggiungimento di una conoscenza più profonda. L’ossimoro, come è noto, è costituito da due termini fra loro contrapposti, nel caso della trinità si mette insieme l’Unicità di Dio con il suo essere Tre Persone. Trasformando un ossimoro in una dottrina si rafforza la parte più forte dell’ossimoro a detrimento della parte più debole.  Nel caso della Trinità le Tre Persone sono prevalenti rispetto all’Unico Dio da cui deriva il triteismo che è poi la dottrina che viene correntemente praticata all’interno delle chiese.
La mia definizione  della Trinità come ossimoro è in realtà contenuta già nel “De Trinitate” di Agostino che così scrive: «Quando ci chiedono cosa sono questi Tre noi ci sforziamo di trovare un nome generico o specifico che abbracci i Tre, e non ci viene nulla in mente, poiché l’eccellenza infinita della divinità trascende le possibilità del linguaggio» (De Trinitate VII, 4,7 , ed. Città Nuova, Roma 1998). In un altro passo Agostino dice anche: «Quando ci chiedono chi sono questi Tre, dobbiamo riconoscere l’estrema povertà del nostro linguaggio. Diciamo tre Persone per non fare silenzio, non come se pretendessimo definire la Trinità» (Ivi, V, 9,10). Direbbe Paolo di Tarso “la lettera uccide lo spirito vivifica” o, molto più semplicemente, nessuno o quasi ha mai letto il “De Trinitate” di Agostino e ne ha capito lo spirito.
E’ accettabile una “Trinità” come stimolo alla investigazione, è inaccettabile una “Trinità come dogma di fede”. Una fede che si nutre di dogmi è arida, limitata, assolutamente incapace di descrivere l’infinito con cui  ogni giorno dobbiamo fare i conti magari semplicemente volgendo gli occhi al cielo, meglio ancora se muniti di telescopio.
Credo sia ora di seppellire definitivamente gli imperatori romani e le loro ideologie e prima lo facciamo meglio sarà per tutti.
Giovanni Sarubbi
 

Dialoghi con Paolo Ricca
Si può essere cristiani senza credere nella trinità?
Come credente intendo essere una per­sona in ricerca, non però conformandosi ai dati acquisiti, che spesso hanno il so­stegno dei dogmi, ma non quello delle in­dagini storico-esegetiche. Uno dei quesiti, tra i tanti, che desidero sollevare è quello relativo alla Trinità. Fonti mi dicono che la Chiesa valdese, nella sua confessione di fede del 1655, ha dato il proprio pieno assenso alla formula trinitaria, mentre in precedenza apparteneva alle Chiese Uni­tariane. Ora, nel Nuovo Testamento ci so­no – è vero – formule trinitarie con la menzione esplicita del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ma non vi si legge una sola parola a favore dell’unità delle tre «persone» menzionate: manca insom­ma l’affermazione che queste tre «perso­ne» costituiscono un’unità. E nessuno fi­nora è riuscito a spiegarmi questa figura di tre in uno o uno in tre.
La mia domanda è questa: può essere cristiano a pieno titolo chi non abbraccia la confessione di fede trinitaria? Non è for­se vero che nel primo periodo del cristia­nesimo questo problema non sussisteva?
Giovanni Verbena – Torino
Il problema sussisteva, eccome! È esi­stito fin dagli albori del cristianesimo. Il problema era: come accordare la divinità di Gesù, creduta e confessata dai cristia­ni, con la divinità dell’unico Dio della fe­de ebraica? E come accordare la divinità di Gesù e del Padre con l’esperienza dello Spirito a Pentecoste, vissuta in tutto e per tutto come un’autentica esperienza di Dio? Per dipanare questo problema ci so­no voluti più di tre secoli di discussioni accese e scontri teologici anche violenti, fino a che, nel concilio di Nicea del 325 fu stabilito come dogma, cioè come articolo di fede, la dottrina di Dio uno e trino in­sieme, nei termini seguenti: «Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, crea­tore di tutte le cose visibili e invisibili. Ed in un solo Signore Gesù Cristo, il Figlio di Dio, generato dal Padre, unigenito, della stessa sostanza del Padre, Dio da Dio, lu­ce da luce, Dio vero da Dio vero, genera­to non creato, della stessa sostanza del Padre… E [crediamo] nello Spirito San­to…». Il concilio di Costantinopoli del 381 fece alcune aggiunte; la più impor­tante riguarda l’articolo sullo Spirito San­to, che ora suona così: «[Crediamo] nello Spirito Santo, che è Signore e dà vita, che procede dal Padre, e insieme al Padre e al Figlio dev’essere adorato e glorificato, che ha parlato per mezzo dei profeti». Il dogma trinitario venne imposto a tutta la cristianità come legge statale dall’impe­ratore Teodosio con un editto del 28 febbraio 380, nel quale si dichiara che «secondo la disciplina apostolica e la dottrina evangelica noi crediamo un’unica Divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in uguale maestà e pia trinità». Coloro che non credono nel Dio trinitario sono giudicati nell’editto stesso «dementi e pazzi», porteranno l’infamia dell’ «eresia», i loro locali di culto «non potranno chiamarsi chiese» e su di loro cadrà non solo la «vendetta divina», ma anche la «punizione» dell’imperatore. Così, da quell’anno, non credere nella Trinità divenne non solo una posizione eterodossa, ma un crimine politico di prima grandezza, punito con la pena di morte. Negare la Trinità equivaleva a negare proprio il Dio cristiano, la cui tipica fisionomia trinitaria lo differenziava nettamente dal monoteismo ebraico e, a partire dal VII secolo, da quello musulmano.
Nella chiesa antica e in quella medie­vale il dogma trinitario non sembra es­sere stato messo seriamente in discus­sione, tranne che da alcuni mistici pres­so i quali la Trinità resta in ombra, pur senza essere negata. Lo fu invece aper­tamente nel Cinquecento da una folta schiera di «antitrinitari» (un nome per tutti: Michele Serveto, bruciato a Gine­vra nel 1553); molti erano italiani, e tra questi i senesi Lelio e Fausto Socini (o Sozzini) che, in Polonia, diedero vita a una vera e propria Chiesa Unitariana, ma, dopo una fioritura durata alcuni decenni, dovettero soccombere al pote­re dei gesuiti, che nel 1658 ne ottennero l’espulsione. Benché perseguitato, il «socinianesimo» si diffuse, come dia­spora, in vari paesi d’Europa e negli Sta­ti Uniti, dove esiste tuttora una Chiesa Unitariana, che nel 1961 s’è unita alla «Chiesa Universalista d’America» dan­do vita a una «Associazione Unitaria Universalista» che conta circa 200.000 membri. Il nostro lettore sostiene che certe fonti attesterebbero che anche i valdesi sarebbero stati, all’origine «uni­tari». A me questo non risulta. La «Pro­fessione di fede» di Valdo, per quanto può valere, è trinitaria.
Ma veniamo ai quesiti che il nostro lettore pone. Sono tre: il primo è se la dottrina trinitaria sia biblica oppure no; il secondo è se sia o non sia possibile es­sere cristiani senza credere nella Trinità; il terzo è se sia o non sia possibile spie­gare in qualche modo questa dottrina.
1.È un fatto che la dottrina della Tri­nità non si ritrova tale e quale nella Sa­cra Scrittura. La parola «trinità» nella Bibbia non c’è. Il primo teologo cristia­no che l’ha adoperata, anzi – a quanto pare – creata è Tertulliano (ca. 155 – ca. 225). Ma soprattutto, la categoria-chia­ve della dottrina trinitaria, cioè «sostan­za» (il Figlio e lo Spirito sono dichiarati «della stessa sostanza» del Padre), non è una categoria biblica. Quanto all’altra categoria ricorrente quando si parla di Trinità, e cioè «persona» («un Dio in tre persone»), è fuorviante perché ha oggi un significato ben diverso da quello che aveva nel IV secolo. Allora significava la maschera che l’attore portava sul volto per interpretare un personaggio. Oggi invece significa un individuo, un sog­getto unico e irriducibile ad altro. Per­ciò, dire oggi «un Dio in tre persone» fa pensare a tre divinità, una accanto all’altra, introducendo così una forma larvata di politeismo. Questa infatti fu una delle accuse rivolte al cristianesimo da illustri pensatori pagani: di avere, con la dottrina trinitaria, fatto rientrare dalla finestra quel politeismo che aveva cacciato dalla porta. Perciò la teologia tende oggi, a proposito di Trinità, a so­stituire il termine «persona» con «modi di essere». Concludo dicendo che il lin­guaggio tradizionale della dottrina trini­taria lascia effettivamente a desiderare e dovrebbe essere ripensato; il suo conte­nuto però è assolutamente conforme al messaggio cristiano. La dottrina trinita­ria è biblica nella sostanza, se non nella forma, anzi è il modo migliore, a mio giudizio, di rendere conto e confessare il Dio della rivelazione ebraico-cristiana nella sua inconfondibile originalità.
2.Al secondo quesito – se sia o non sia possibile essere cristiani se non si crede nella Trinità – risponderei tendenzial­mente di no. Non vorrei però ridurre l’essere o il non essere cristiano all’ac­cettazione o meno di una dottrina, sia pure centrale come quella trinitaria. Per­ciò sospendo la risposta e al nostro letto­re, che – così almeno sembra – non cre­de nel Dio trinitario, chiedo in quale Dio crede, quale Dio confessa. «Nessuno ha mai visto Dio –dice l’evangelista Giovan­ni –; l’unigenito Figlio, che è nel seno del Padre, è quello che lo ha fatto conosce­re» (1, 18). È fondamentale che il Dio creduto e confessato dai cristiani sia quello rivelato da Gesù, e non un altro. Essere cristiani significa credere alla te­stimonianza di Gesù su Dio: chiamando Dio suo «Padre», si è rivelato come Figlio e come tale, al battesimo, ha ricevuto lo Spirito, che si è «fermato» su di lui (Gio­vanni 1, 32): il battesimo di Gesù, come ce lo descrivono gli evangeli, è stato un evento trinitario. È stato proprio Gesù a svelare con molta naturalezza, cioè sen­za forzature e senza minimamente rin­negare il suo monoteismo ebraico, la na­tura trinitaria di Dio, che non traspare solo dalle pagine del Nuovo Testamento, ma anche da quelle dell’Antico. Il Dio d’Israele, in tanti passi, è, per così dire, affiancato dall’«angelo dell’Eterno» (Eso­do 3, 2!), che è il suo alter ego; in altri passi si parla addirittura di «un uomo» (Genesi 32, 24-32), che lotta con Giacob­be come controfigura di Dio, anzi come Dio stesso (v. 28!). E nell’Antico Testa­mento ci sono dei passi sullo Spirito Santo altrettanto «pentecostali» quanto quelli del Nuovo. Il monoteismo biblico è, per così dire, popolato da molte pre­senze e per quanto mi riguarda non co­nosco una dottrina di Dio più bella, più profonda, più accattivante e convincen­te della dottrina trinitaria. Ma essere cri­stiani, cioè credere in Gesù, significa an­che, come lui, fare la volontà di Dio. «Non chiunque mi dice: Signore, Signo­re! Entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Matteo 7, 21). I cristiani si riconoscono dai frutti più che dalle dottrine. Non sa­remo giudicati sulla base delle dottrine, ma su quella della fede e delle opere. Concludo dicendo che la fede cristiana è trinitaria, ma che, come insegna Matteo (25, 31-46), si può fare la volontà di Dio anche senza credere nella Trinità.
3. È possibile, o no, spiegare questa dottrina, che nessuno ha mai spiegato al nostre lettore? Spiegare forse no, ma illustrare forse sì. Ci provo. Ciascuno di noi è, al tempo stesso molte cose, pur essendo e restando una singola perso­na. A esempio, posso essere, al tempo stesso, figlio, padre e zio. Oppure pie­montese, italiano ed europeo. O anco­ra credente (o non credente), cittadino (o immigrato), operaio (o contadino). E così via. Siamo, pur essendo uno, tante cose secondo le tante relazioni che compongono la trama della nostra vita. Ciascuno di noi è, al tempo stesso, uno e molteplice. Questo non compromet­te l’unità della persona, anzi l’arricchi­sce. Così Dio è uno e tre: Padre, Figlio e Spirito Santo, tre modi diversi di essere l’unico Dio. Non c’è separazione, né confusione, né contraddizione. C’è in­vece comunione. La dottrina trinitaria, in fin dei conti, vuol dire proprio que­sto: che Dio è comunione. E questa – mi sembra – è una buona notizia.
 
Articolo pubblicato sul settimanale Riforma n. 8 del 2010
 
 

Una riflessione in margine a un recente «Dialogo» con Paolo Ricca
La complessità della questione trinitaria
Ci si può dire cristiani anche se si hanno riserve sul dogma trinitario. Bisogna considerare seriamente che «Gesù è il Figlio e non il Padre», come afferma il teologo Jon Sobrino
ALESSANDRO ESPOSITO
HO letto con grande inte­resse e profitto la rispo­sta che il professor Ricca ha fornito agli interrogativi del signor Giovanni Verbena circa l’annosa e complessa «que­stione trinitaria» (cfr. Riforma n. 8 del 26 febbraio). Vorrei soffermarmi sui contenuti di tale intervento, sottolinean­done gli aspetti indubbia­mente apprezzabili così come le affermazioni che credo possano essere ritenute opi­nabili. Anzitutto, dunque, le considerazioni positive circa la consueta ponderatezza e profondità con cui il professor Ricca affronta l’argomento.
La genesi del dogma
In primo luogo, il profes­sor Ricca ripercorre con estrema capacità di sintesi e onestà intellettuale la genesi storica del dogma trinitario, rimarcando senza tentenna­menti il fatto che esso «ven­ne imposto (...) come legge statale dall’imperatore». Per quanto, difatti, la disputa sia da considerare di natura teo­logica, la sua soluzione con­templò anche aspetti socio­politici: al punto che, come opportunamente ricorda Ricca, «non credere nella tri­nità divenne non solo una posizione eterodossa, ma un crimine politico». Credo si tratti di una sottolineatura fondamentale al fine di evi­tare impropri riferimenti alla «verità» stabilita dal dogma: parola, questa, che sarebbe opportuno utilizzare con più cautela, dal momento che le decisioni dei primi concili determinarono l’affermazio­ne di un’interpretazione del­le Scritture rispetto ad altre, non la sua incontestabile ve­ridicità.
Un linguaggio da ripensare
In seconda istanza, il pro­fessor Ricca riconosce con schiettezza la necessità che «il linguaggio tradizionale della dottrina trinitaria (...) [venga] ripensato», tenendo in debito conto il fatto che «il suo con­tenuto, però, è assolutamente conforme al messaggio cri­stiano». Si tratta, in entrambe i casi, di affermazioni del tut­to condivisibili: a patto che la conformità della dottrina tri­nitaria al messaggio neotesta­mentario non si traduca in una piena coincidenza che ri­vendica assolutezza.
Con l’umiltà che lo con­traddistingue, poi, il professor Ricca afferma che, pur essen­do personalmente dell’idea che non sia possibile dirsi cri­stiani senza credere nella tri­nità, non intende comunque «ridurre l’essere o il non esse­re cristiano all’accettazione o meno di una dottrina», giacché, come dice più avanti, «i cristiani si riconoscono dai frutti più che dalle dottrine». Trovo che questo sia un atteg­giamento che, più di ogni al­tro, consente il dialogo, acco­glie il dissenso quand’esso si riveli argomentato ed evita lo sterile arroccamento su posi­zioni contrapposte.
Vengo dunque ai punti che, a mio giudizio, potreb­bero essere più attentamente discussi e approfonditi.
L’alba del cristianesimo
Che il problema della divi­nità di Gesù (non ancora la sua articolazione nella dot­trina trinitaria), come sostie­ne il professor Ricca, sia sta­to sollevato sin dall’inizio della storia del cristianesi­mo, è senz’altro vero: questo rende necessario che non si trascuri la sua natura, per l’appunto, problematica. Ovverosia: è palese che, trat­tandosi di una vexata quae­stio, di una questione con­troversa, la quale richiese addirittura la convocazione di diversi concili atti a diri­merla, il dubbio sussisteva. E sussisteva, chiaramente, in seno al cristianesimo primi­tivo, non al di fuori di esso. Ragion per cui sembra lecito supporre che almeno una parte del cristianesimo delle origini, in conformità alle sue radici ebraiche, non confessò Gesù come Dio. Questa posizione, inizialmente legittima, fu dichiara­ta eterodossa soltanto in se­guito, giacché l’ortodossia venne configurandosi e defi­nendosi progressivamente, nell’evolversi di un processo articolato, spesso conflittua­le e, in ogni caso, tutt’altro che lineare. Pertanto risulta plausibile immaginare che, originariamente, vi fu una parte del movimento cristia­no che non riconobbe la di­vinità di Gesù: non, almeno, nei termini stabiliti, succes­sivamente, dai consessi con­ciliari, le cui decisioni, come abbiamo accennato, non fu­rono determinate da ragioni esclusivamente teologiche.
Confessare Gesù come Dio?
Ecco perché ritengo, a dif­ferenza di quanto sostiene il professor Ricca, che sia pos­sibile dirsi cristiani anche astenendosi dallo sposare senza riserve la prospettiva trinitaria, così come essa è stata formulata e codificata nell’arco dei primi concili. Pur essendo pienamente d’accordo circa il fatto che sia «fondamentale che il Dio creduto e confessato dai cri­stiani sia quello rivelato da Gesù», sono altresì persuaso che ciò non significhi, neces­sariamente, confessare Gesù come Dio. Al fine di chiarire tale affermazione, lascio che a prestarmi le parole sia il teologo cattolico salvadore­gno Jon Sobrino, di recente sollevato dall’incarico di do­cente di Teologia sistematica proprio a motivo delle sue af­fermazioni cristologiche, giu­dicate non conformi all’orto­dossia: «Bisogna considerare seriamente – sostiene Sobri-no – il fatto che Gesù è il Fi­glio e non il Padre» [da: J. So-brino, Cristologia desde Ame­rica Latina, México, 1977, p. 296 – traduzione mia].
I due Testamenti
Vengo così all’ultimo rilie­vo critico: credo che sia piut­tosto discutibile sostenere, come fa il professor Ricca, che «la natura trinitaria di Dio non traspare solo dalle pagine del Nuovo Testamen­to, ma anche da quelle dell’Antico». Ritengo che si tratti di una tesi piuttosto for­zata, che rischia per alcuni versi di compromettere l’au­spicabile educazione, in am­bito cristiano, a una sensibi­lità progressivamente più at­tenta all’interpretazione ebraica delle pagine veterote­stamentarie. Forse potrebbe rivelarsi più opportuno co­gliere in tutte le Scritture il carattere eminentemente re­lazionale dell’unico Dio: ciò che consentirebbe, credo, di evitare l’appiattimento iden-titario proprio di una certa lettura del dogma trinitario, secondo la quale confessare che Gesù è il figlio di Dio (Mc 1, 1) coincide con l’affermare che egli sia il Dio-figlio.
 
Articolo pubblicato sul settimanale Riforma n. 10 del 2010
 
 

 
Dibattito sulla questione trinitaria
La divinità di Cristo non è controversa
AGOSTINO GARUFI
AVEVO già letto l’ottimo articolo del professore Paolo Ricca nei suoi «Dialo­ghi» sul n. 8 di Riforma dal ti­tolo: «Si può essere cristiani senza credere nella Trinità?», che ho molto apprezzato e condiviso pienamente. Ora leggo sul n. 10 l’articolo del pastore Alessandro Esposito dal titolo: «La complessità della questione trinitaria», in cui questi, riferendosi al sud­detto articolo del professore Ricca, innanzitutto si soffer­ma «sui contenuti», «sottoli­neandone gli aspetti indub­biamente apprezzabili»; poi rileva le altre affermazioni che egli ritiene «opinabili». Tralascio gli apprezzamenti che tutti condividiamo e ven­go a quelli che a suo giudizio sono «i punti che potrebbero essere più attentamente di­scussi e approfonditi».
Innanzitutto la vexata quaestio della divinità di Ge­sù, che egli ritiene «contro­versa chiaramente in seno al cristianesimo primitivo, non al di fuori di esso», supponendo «che almeno una par­te del cristianesimo delle ori­gini, in conformità alle sue radici ebraiche, non confessò Gesù come Dio». Non so da quali documenti originali egli abbia potuto trarre que­sta deduzione che, stando al­lo stesso termine da lui usato («supporre»), è una pura supposizione. Infatti i più antichi documenti cristiani che abbiamo, cioè gli scritti del Nuovo Testamento, atte­stano esattamente il contra­rio. Per non dilungarmi, non posso trascrivere qui tutti quei testi in cui è affermata la divinità di Gesù, veramen­te e pienamente uomo, nel quale la Parola creatrice di Dio, che era nel principio ed era Dio, si è incarnata, ma invito fraternamente questo collega e i lettori a voler ri­prendere in attento esame i seguenti passi dei documenti neotestamentari, apparte­nenti tutti al primo secolo dell’era cristiana. Anche e se si vogliono tralasciare i primi due capitoli di Matteo e Lu­ca, cito Giovanni 1, 1-4. 14 [cfr. Ebr. 1, 1-4; Col. 1, 15-20 e 2, 9]; ancora Giovanni 8, 57-59; 10, 30-31. 38; 14, 6-11; 20, 28; e Giovanni 8, 24. 28. 58, dove Gesù si definisce «Io sono», cioè con lo stesso no­me con cui Dio si è rivelato a Mosè (Esodo 3, 13-14). Inol­tre i testi paolinici di Romani 9, 5 e Filippesi 2, 5-11.
In quest’ultimo, in sinto­nia con Giov. 1, 1-4 e 14, è detto che Gesù, prima di ve­nire nel mondo, «era in for­ma di Dio» ed era «uguale a Dio» e che dopo il suo ab­bassamento fino alla morte in croce, risuscitandolo, Dio lo ha innalzato dandogli un nome che è al di sopra di ogni nome, perché ogni lin­gua lo confessasse quale Si­gnore, nome che corrispon­de ad Adonai, che gli ebrei usavano in sostituzione del nome di Dio, Jahweh, che non osavano pronunciare per puro timore riverenziale. E proprio una delle più anti­che confessioni di fede cri­stiane è appunto: «Gesù Cri­sto è il Signore» (I Corinzi 12, 3). Aggiungo poi che non mi sembra trascurabile il fatto che Gesù è stato «adorato» (sic!) non solo dai Magi (Matteo 2, 2. 8. 11), ma an­che da alcune discepole do­po la sua risurrezione (Mat­teo 28, 9), nell’epistola agli Ebrei (1, 6) dagli angeli e nell’Apocalisse (5, 6-10) da diverse creature celesti. Per­ciò, se Egli non è partecipe della natura divina, questi atti di adorazione sono atti di idolatria.
Certamente la parola «Tri­nità» non esiste in tutta la Bibbia – anche se Padre, Fi­glio e Spirito Santo sono as­sociati nel Nuovo Testamen­to (Matteo 28, 19; II Corinzi 13, 13) – ed è vero che è stata coniata solo nella riflessione teologica posteriore, che ha cercato di definire, con il lin­guaggio del suo tempo, l’in­sondabile realtà dell’unico vero Dio che si è rivelato pie­namente incarnandosi in Ge­sù Cristo, realtà che ci viene ampiamente attestata dagli scritti del Nuovo Testamento.
Circa poi l’affermazione del teologo salvadoregno Jon So-brino che «bisogna considera­re seriamente che Gesù è il Fi­glio non il Padre», che Esposi­to cita e fa sua, non capisco il perché della rilevazione di ta­le ovvietà presente non solo nel Nuovo Testamento ma anche nelle stesse formula­zioni conciliari di cui sopra, nelle quali non è detto affatto che il Figlio è il Padre, ma che è «distinto» dal Padre, pur es­sendo confessato come unito al Padre e in questo senso «consustanziale» con Lui.
Concludo infine dicendo – ovviamente secondo me – che se Dio stesso non fosse venuto a visitarci concreta­mente, incarnandosi effetti­vamente nell’uomo Gesù, per essere veramente e piena­mente l’Emmanuele, cioè «Dio con noi», noi saremmo ancora letteralmente «atei», cioè «senza Dio nel mondo» (Efes. 2, 12), nonostante l’ac­cettazione dei suoi sublimi insegnamenti, perché in lui avremmo soltanto un grande Maestro e non il vero Salva­tore, che lui può essere solo se è il Signore.
 
Articolo pubblicato sul settimanale Riforma n. 13 del 2010
 
 

 
Il dibattito sulla Trinità
Ma la divinità di Cristo è un’altra cosa
FRANCO RIZZO
Ho letto su Riforma del 2 aprile (p. 10) il contribu­to di Agostino Garufi al dibat­tito sulla questione trinitaria. Mi compiaccio che in un mondo sempre più secolariz­zato e relativista ci sia ancora chi presta attenzione a una questione del genere. Tutta­via mi si permetta qualche puntualizzazione.
Sicuramente la natura di­vina del Cristo glorificato non può essere posta in dub­bio. Prima di manifestarsi a noi il Figlio di Dio possedeva la natura divina e tale è la sua attuale natura. Stando alla Scrittura (Filippesi 2, 6) egli esisteva «in forma di Dio»‚ e dopo la sua risurre­zione è stato innalzato alla posizione di «Signore alla gloria di Dio Padre» (Filippe-si 2, 11). Già quest’ultima espressione pone in dubbio la sua uguaglianza trinitaria con il Padre, in quanto l’Es­sere supremo non potrebbe essere posto a gloria di un al­tro. D’altra parte Pietro (II Pietro 1, 4) assicura la parte­cipazione futura alla natura divina anche ai seguaci di Cristo, che membri della Tri­nità non saranno mai. In­somma, sì alla divinità di Cristo, no alla sua parità con l’Essere supremo.
I documenti originali del cristianesimo primitivo che contrastano l’ipotesi trinita­ria esistono e sono le Sacre Scritture medesime. A una condizione: quella di non anteporre i passi di significa­to oscuro per spiegare quelli chiari. Basta leggere I Corin­zi 8, 5.6; 11, 3; 15, 28; Gio­vanni 17, 3; Apocalisse 3, 12, eccetera. È molto sospetto che, vista la successiva, vio­lenta controversia ariana, non ci sia giunto nessun te­sto antitrinitario dei tempi immediatamente successivi agli apostoli. Distruggere li­bri invisi deve essere stato uno sport assai antico.
Che i primi cristiani abbia­no assunto il titolo «Signore» per designare l’Essere supre­mo, come nel tardo giudai­smo, e trarne la conclusione che «Signore» applicato a Ge­sù equivale a «Jahweh», è tutto da dimostrare. Nel primo vo­lume della sua monumentale opera Alle origini della Chiesa (Libreria Editrice vaticana, 1981) l’archeologo Bellarmino Bagatti fornisce la prova che i membri delle primitive comu­nità cristiane della Palestina conservavano nei loro libri il nome specifico di Dio. San Gerolamo afferma che ancora nel quarto secolo esistevano libri con il nome «ineffabile» di Dio. Che un Dio innomina­to potesse in seguito adattarsi meglio al dogma trinitario è fuori dubbio ma che tale ano­nimato risalga ai primi cristia­ni lo è altrettanto.
Infine, l’auto-rivendicazio­ne dell’identità con Dio da parte dello stesso Gesù Cristo con l’«io sono» di Giovanni 8, 24.28.58 (ai quali aggiungerei Giovanni 18, 5.8) che sarebbe uguale al nome rivelato da Dio a Mosè nell’Esodo (3, 13-14) non quadra: Gesù dice «egò eim컂 cioè «sono io»; in Eso­do, stando al greco della Ver­sione dei Settanta, Dio si iden­tifica come «o on», cioè l’«es-sente». Espressione verbale nel caso di Gesù, espressione nominale nel caso di Dio.
In conclusione direi che di­vinità di Cristo e dogma trini­tario sono due concetti ben diversi e che, per questa ra­gione, si può essere cristiani senza credere nella Trinità.
 
Articolo pubblicato sul settimanale Riforma n. 17 del 2010
 
 

Il dibattito sulla Trinità
C’è ancora spazio per una fede plurale?
ALESSANDRO ESPOSITO
HO apprezzato molto il di­battito relativo alla te­matica trinitaria che ha ani­mato in questi ultimi due me­si le pagine del nostro setti­manale. Ciò detto, però, sono persuaso che alcuni chiari­menti vadano effettuati, onde evitare, fin dove è possibile, fraintendimenti. Vista la na­tura della questione, vorrei li­mitarmi a tre considerazioni.
1. Credo che alcuni inter­venti critici circa le tesi non trinitarie non abbiano tenuto in debito conto la domanda da cui il dibattito ha inteso prendere le mosse; pertanto la rammento: «Si può essere cristiani senza credere nella trinità?». Cristiani: non valde­si o riformati. Il professor Ricca si era espresso in pro­posito, con l’umiltà che lo contraddistingue, con un «tendenzialmente no» dai to­ni rispettosi, di cui si assume­va la paternità, nella piena consapevolezza che, comun­que, ciò che definisce l’essere o meno cristiano sia determi­nato dalla prassi assai più che dalla dottrina
2. Ogni cristallizzazione dottrinale difatti, ivi incluse quelle conciliari, forma parte di quella tradizione che, se­condo la teologia protestante, è sempre discutibile e rifor­mabile. Si tratta, come ha op­portunamente scritto il pa­store Adamo (n. 19, p. 15), di una riflessione da condurre «senza improvvisazioni e sen­za scandalizzare nessuno». Faccio presente, però, che sia in ambito esegetico sia nella ricerca storica tale ripensa­mento della tradizione è già in atto da tempo: si tratta di comprendere in che modo sia possibile declinarlo e ap­profondirlo in seno alle co­munità, alle quali vanno for­niti strumenti, non rassicura­zioni. La serietà di molti di questi storici ed esegeti è fuo­ri discussione, abbastanza, quantomeno, da sgombrare il campo da ogni timore relati­vo all’improvvisazione teolo­gica. Quanto alle conseguen­ze in ambito ecclesiastico, non sarei catastrofista: non si tratta di demolire la tradizio­ne, ma di confrontarvisi e, in alcuni casi, di ridiscuterla e ridefinirla. Interrogarsi, anche su quelli che riteniamo essere i fondamenti della no­stra fede, è un atteggiamento che, in quanto protestanti, non dobbiamo mai temere e men che meno sconsigliare: scandaloso, a mio giudizio, sarebbe soltanto il fatto di non poterne discutere.
3. E la discussione, secon­do la prassi protestante, av­viene nel rispetto di due sole istanze: la plausibilità degli argomenti portati a sostegno di una tesi (sia essa conforme o meno all’ortodossia vigen­te) e il loro radicamento nelle Scritture. Ora, però, è neces­sario capirsi: nessuno inten­de negare la legittimità della confessione di fede trinitaria né, tantomeno, la sua deriva­zione da una lettura conse­guente del Secondo Testa­mento. Quel che, personal­mente, non mi sento di con­dividere è la sua pretesa di univocità. L’esegesi contem­poranea si sta orientando sempre più nella direzione di un pluralismo anche per ciò che riguarda le cristologie e i ritratti di Gesù che emergono dal (composito) canone neo­testamentario: tentare una lettura d’insieme di tale com­plessità è possibile, credo, soltanto a patto di mantener­ne la polifonia, senza cercare di ricondurre a una e una so­la le interpretazioni plausibi­li. In tal senso sarei più cauto nell’affermare, come alcuni hanno fatto nel corso del no­stro dibattito, che «la divinità [intesa come natura divina] di Gesù è stata oggetto di fe­de da parte della Chiesa sin dall’inizio (...) ed è chiara­mente testimoniata nel Nuo­vo Testamento (...) rispetto al quale le numerose dichiara­zioni conciliari in tal senso si trovano in continuità». Que­ste, nella loro rigida lettera-lità, le parole indirizzate al teologo Jon Sobrino in rispo­sta alla prospettiva cristologi-ca da lui illustrata e giudicata non conforme all’ortodossia conciliare. Si tratta, in gergo tecnico, di una notificatio, in­viata al teologo salvadoregno con il duplice intento di rile­vare «le imprecisioni e gli er­rori» riscontrati nei suoi scrit­ti e di «poter offrire ai fedeli un criterio di giudizio sicu­ro». Firmato: Congregazione per la Dottrina della Fede.
 
Articolo pubblicato sul settimanale Riforma n. 22 del 2010
 

 
Un dibattito importante a partire dalla trinità
La natura divina di Gesù Cristo
AUGUSTO CAVADI
HO seguito con molto inte­resse il dibattito sulla divi­nità di Cristo avviato dalla ri­sposta del prof. Paolo Ricca a un lettore e proseguito con l’in­tervento del pastore Alessandro Esposito, prima, e del pastore Agostino Garufi, dopo. Devo subito dichiarare la mia ammi­razione per il tono davvero alto e civile della discussione: pro­vengo dal mondo cattolico e, in anni passati (quando la censu­ra vaticana non era così oc­chiuta da estirpare alla radice ogni controversia teologica), ho assistito a scambi di opinioni sul medesimo tema molto me­no sereni e rispettosi.
Con animus altrettanto co­struttivo, rispetto agli illustri interlocutori che mi hanno preceduto, mi sembrerebbe opportuno evidenziare che gli interrogativi sollevati da Espo­sito sul modo di intendere la natura divina di Gesù e, conse­guentemente, il suo rapporto con il Padre e con lo Spirito non sono in alcun modo cata­logabili come dubbi privati o supposizioni individuali. Basta leggere testi, tutto sommato, divulgativi come Cristianesimo di Hans Küng per apprendere come il dibattito intra-ecclesiale su queste tematiche sia stato assai vivo nelle chiese del primo millennio e che nessu­na definizione dogmatica è riuscita a spegnerlo del tutto neppure nel secondo millen­nio. Anche modestissimi letto­ri di cose teologiche, come me, quando scrivono di cristiane­simo non possono fare a meno di mettere a fuoco la distanza davvero impressionante fra la ragionevolezza dell’annunzio evangelico originario e la com­plicatissima elucubrazione dottrinaria successiva su Dio uno e trino, sulla circuminsessione, sul filioque e così via. E mi pare di qualche significato che studiosi ben informati, co­me Vito Mancuso, discutendo con Corrado Augias (nella re­cente Disputa su Dio) abbiano potuto individuare, in testi co­me il mio In verità ci disse al­tro. Oltre i fondamentalismi cristiani, la testimonianza di domande diffuse fra gli stessi credenti del XXI secolo.
Non pretendo certo di en­trare qui nel merito delle obie­zioni rivolte dal pastore Garufi al pastore Esposito. Mi limito a una sola osservazione di fondo e, in qualche misura, di meto­do. Quando si citano brani bi­blici, a favore o contro una de­terminata tesi teologica, non lo si può fare con l’ingenuità esegetica con cui lo facevamo sino a trenta o quaranta anni fa: sappiamo in maniera in­controvertibile che, per fortu­na o per sfortuna, quando il Gesù dei vangeli – soprattutto il Gesù di Giovanni – afferma qualcosa di sé e del suo miste­ro, stiamo ascoltando non gli ipsissima verba (proprio le stesse parole) del Cristo, bensì la loro «traduzione»: non solo dall’aramaico al greco, ma – quel che più conta – da un re­gistro linguistico giudaico a un registro linguistico ellenistico (in cui i condizionamenti cul­turali della metafisica classica e dello gnosticismo sono inci­sivamente operanti).
Quel che mi conforta è che, al di là delle ricerche filologi­che e delle ipotesi ermeneuti­che, nessuno ha potuto sinora mettere in dubbio che il cuore del messaggio evangelico sia l’imminenza del Regno di Dio quale lievito dinamico, anzi ri­voluzionario, della pasta mon­dana. In questo amore di Dio, nel Cristo, per il mondo credo che noi tutti – al di là delle di­verse letture teologiche – pos­siamo trovare una ragione di impegno per l’umanità e, con­seguentemente, di comunione fraterna fra noi.
 
Articolo pubblicato sul settimanale Riforma n. 23 del 2010
 
 

Il caso Serveto
Riflettendo sulle celebra­zioni per il 5° centenario del­la nascita di Giovanni Calvi­no, desideravo esprimere al­cune considerazioni al ri­guardo, soffermandomi in particolare sul caso di Miche­le Serveto. A questo proposi­to vorrei esternare la mia profonda amarezza e delu­sione, nel constatare come, nel moltiplicarsi delle cele­brazioni in onore di Calvino, non si sia reso, riguardo al suddetto caso, un buon servi­zio alla verità. Da quanto ho potuto riscontrare, è emersa, infatti, a mio avviso, in tali occasioni, una presa di posi­zione unanimemente favore­vole a Calvino, tendente a di­sconoscerne la responsabilità nella condanna a morte del riformatore spagnolo.
Ma le affermazioni portate a suffragio di tale posizione, come a esempio quella che Calvino fosse figlio del suo tempo, risultano prive di fon­damento, in quanto palese­mente in contrasto con la realtà storica. I documenti dell’epoca dimostrano chia­ramente che figlio di quello stesso tempo, oltre allo stesso Serveto, fu anche Sébastien Castellion, vittima dell’intol­leranza di Calvino e autore di opere dalle quali risulta evi­dente oltre che la superiore statura morale e intellettuale dell’uomo, anche l’ipocrisia della società ginevrina. Come è già stato osservato su que­sto settimanale, nella tragica vicenda di Michele Serveto non si può non constatare, purtroppo, la mancata coincidenza di cristianità e cri­stianesimo. Da qui il mio in­vito a guardare alla figura di Giovanni Calvino con mag­giore obbiettività.
Ivana Viola – Palermo
Articolo pubblicato sul settimanale Riforma n. 23 del 2010 nella sezione delle lettere
 

 
La questione trinitaria
Mi permetto di intervenire nel dibattito in corso sulla Trinità. Non posso compete­re con teologi e pastori, ma vorrei fare alcune considera­zioni spicciole come sempli­ce membro di chiesa. Natu­ralmente vi possono essere «altre interpretazioni plausi­bili» e capisco che la «pretesa di univocità» possa dare fa­stidio a chi non si sente di credere alla Trinità, per ri­prendere due espressioni di Alessandro Esposito sul nu­mero del 4 giugno di Rifor­ma. Sta di fatto che la Trinità è un concetto fondamentale della nostra fede riformata.
Quando ho aderito alla chie­sa valdese, l’ho fatto sapendo che le chiese metodiste e val­desi erano chiese riformate, e quindi trinitarie. Magari se queste chiese avessero avuto una teologia antitrinitaria, avrei aderito a un’altra confes­sione. Mi chiedo come reagirei se nella nostra chiesa venisse un pastore antitrinitario. Pro­verei ancora interesse per lo studio biblico? Ma soprattutto, che cosa avverrebbe nel culto? Con che spirito ascolterei dei sermoni che si basano su una teologia così diversa da ciò in cui credo? E la liturgia? Le no­stre liturgie sono tutte basate sulla Trinità. Dunque, come si comporterebbe un pastore an­titrinitario? Farebbe finta di niente, tenendo le sue idee per sé, o imporrebbe il suo credo all’assemblea?
Francesca Sini – Genova
 
Articolo pubblicato sul settimanale Riforma n. 24 del 2010 nella sezione delle lettere
 
 

Concludiamo con questo intervento il dibattito iniziato sul n. 10
Trinità, un linguaggio paradossale
In modo un po’ irriverente si potrebbe applicare al dogma trinitario quanto Churchill diceva della democrazia: è la peggiore soluzione possibile, tranne tutte le altre!
 
FULVIO FERRARIO
MI rallegra il fatto che di­versi interlocutori abbia­no apprezzato quello che è sta­to chiamato un «dibattito sulla Trinità». Personalmente, l’ho seguito con sentimenti contra­stanti. Da un lato, è bene che si discuta di questioni teologiche di tale rilievo: è un piccolo se­gno, se mai ve ne fosse biso­gno, che non si tratta di fumi­sterie, bensì di fede. Dall’altro, ho a volte l’impressione che al­cune semplificazioni, per quanto bene intenzionate, non ci aiutino a progredire nell’in­telligenza della fede. In linea di principio, non avrei nulla da aggiungere a quanto a suo tempo scritto da Paolo Ricca. Poiché però quel discorso ha suscitato alcune obiezioni, vor­rei riformularne alcuni aspetti, tenendo conto del dibattito.
1)Che il Nuovo Testamento presenti cristologie tra loro molto diverse e, in parte, anche in reciproca tensione, è del tut­to assodato. Che esso non con­tenga il dogma della consu-stanzialità di Gesù con il Padre, come l’ha espresso il Concilio di Nicea; o quello delle due na­ture di Cristo, come lo formula Calcedonia, è altrettanto sicu­ro: talmente sicuro, mi permet­to di dire, che sentirlo procla­mare come se fosse una sco­perta mi stupisce alquanto.
2)Certamente il Gesù ter­reno annunciava il regno di Dio, non se stesso. Con la Pa­squa, l’Annunciante diventa il contenuto dell’annuncio (non lo dice l’Ortodossia pro­testante del Seicento, bensì Bultmann, che in fatto di cri­tica biblica non era una mammoletta). Perché?
3)Su questo, tutte le cristo­logie del Nuovo Testamento, anche le primissime, che ci so­no note da frammenti poi ri­presi negli scritti canonici, so­no convergenti. La risurrezio­ne di Gesù Cristo è stata inter­pretata dalla chiesa primitiva in questo modo: da allora in poi, il Nome del Dio di Israele non può essere separato dalla storia dell’uomo di Nazareth, la quale, in tutto e per tutto, è frutto dell’azione dello Spirito di Colui che Gesù chiama il Padre. Detto in altre parole: la risurrezione del Crocifisso ri­vela, nella potenza dello Spiri­to Santo, il volto eterno del -l’unico Dio. Questo è il noccio­lo dell’annuncio cristiano.
4)E questo affermano i dog­mi cristologici e quello trinita­rio. Il carattere complesso del­le formulazioni della chiesa antica è dovuto a due fattori. In primo luogo, esso utilizza un linguaggio storicamente condizionato (come ogni altro, compresi quelli dei testi biblici), sempre bisognoso di rilettura; inoltre e soprattutto, la chiesa preferisce alcune for­mulazioni tese, paradossali (Dio «uno e trino»; due «natu­re» e una «Persona», e simili), ad altre, concettualmente più lineari, ma ritenute incapaci di rendere conto della pienez­za della testimonianza biblica.
5)È del tutto evidente (e, ancora una volta, ovvio) che una lettura di tipo storico-cri­tico del Nuovo Testamento individua accenti diversi ri­spetto a quelli della teologia della chiesa antica. Lo è an­che il fatto che le domande oggi poste alla fede cristiana (e, più in radice, dalla fede stessa) non coincidono piena­mente con quelle dei primi secoli. La rilettura del patri­monio dogmatico, in un rin­novato ascolto della Scrittura, è dunque necessaria e, per quel che capisco, è quanto la teologia ha sempre fatto. Nel­la comprensione protestante, questo implica anche che il dogma è, in linea di principio, sempre rivedibile, sulla base del messaggio biblico.
6)L’essenziale è che tali riletture siano in grado di espri­mere quanto affermato al punto 3. Se ciò non accade, siamo di fronte a «un altro evangelo» (Gal. 1, 8 s.).
7)L’esperienza sembra di­mostrare che, con tutti i suoi limiti, il dogma della chiesa antica ha saputo formulare il nocciolo dell’annuncio in ter­mini assai raffinati e accorti, circoscrivendo uno spazio di riflessione entro il quale si so­no mossi la fede e il pensiero da essa generato. In modo un poco irriverente, ma forse non del tutto balordo, si potrebbe applicare al dogma quanto Churchill diceva della demo­crazia: è la peggiore soluzione possibile, tranne tutte le altre.
8)Dagli interventi di Ales­sandro Esposito, non mi pare emergano ragioni per afferma­re che la chiesa antica abbia frainteso il Nuovo Testamen­to. Detto questo, il compito per formulare una cristologia che risponda anche a proble­mi diversi rispetto a quelli che hanno generato il dogma, co­stituisce per Esposito, come per altri, uno spazio di ricerca, il che significa anche di libertà.
9)Vivere teologicamente in tale spazio richiede, a mio sommesso avviso, almeno due elementi: a) una conoscenza non superficiale del portato dell’esegesi biblica degli ulti­mi secoli e delle dinamiche spirituali e intellettuali che hanno condotto alle formula­zioni dogmatiche; b) un forte senso di responsabilità (che forse si potrebbe chiamare «amore») per le parole, teolo­giche e liturgiche, mediante le quali la chiesa ha espresso la propria fede nei secoli.
10) Poiché non ho alcun motivo anche solo per sospet­tare che Alessandro Esposito disponga di questi doni in mi­sura men che rilevante, atten­do con fiducia di vederli ope­rare in termini meno schema­tici di quanto abbia potuto constatare finora. Questo per­ché se, invece di affrontare i nuovi problemi che oggi si pongono alla cristologia, si ria­prono quelli vecchi, che altri più saggi di noi ci hanno aiuta­to a comprendere, è possibile generare confusione e, forse, anche un certo disorienta­mento, che non è detto aiuti un processo di crescita nella consapevolezza teologica.
 
Articolo pubblicato sul settimanale Riforma n. 25 del 2010
 

 



Venerdì 27 Agosto,2010 Ore: 15:45