Conoscere l’ebraismo
Introduzione a M. Idel – V. Malka, I percorsi della Qabbalah, La parola, Roma 2007.

di Marco Morselli

Che cos’è la Qabbalah?1 La parola significa «ricezione» e indica la tradizione mistica ebraica. Si tratta di una tradizione diffusa ora nei cinque continenti, che suscita ai nostri giorni un interesse crescente negli ambienti più diversi. Pur avendo origini antiche, essa venne alla luce verso la fine del XIII secolo nella Francia meridionale, per poi passare nel secolo successivo in Spagna e di lì diffondersi in varie direzioni. Un ruolo particolarmente importante, che proprio Idel tende a sottolineare, vi riveste l’Italia. Alla fine del Quattrocento la Qabbalah destò l’interesse degli umanisti, e nel Cinquecento vennero anche stampati alcuni manuali cristiani in latino. A metà del secolo, essa conobbe uno sviluppo senza precedenti a Safed, in Galilea, per poi fare da sfondo alla grande avventura sabbatiana e alla successiva fioritura del Hassidismo2.

Il mondo nel quale viviamo costituisce solo una parte di un sistema di mondi molto più vasto. Questi mondi spirituali si compenetrano e interagiscono tra loro e con il mondo materiale, e nella nostra vita quotidiana facciamo esperienza, che ne siamo consapevoli oppure no, di questo scambio di influenze tra le diverse sfere della realtà. Il mondo nel quale viviamo è il mondo dell’azione, al di sopra del quale vi sono il mondo della formazione, della creazione e dell’emanazione. Il mondo della formazione è il mondo delle emozioni, o degli angeli. Il mondo della creazione è il mondo delle intelligenze, o dei serafini. Il mondo dell’emanazione è il più vicino alla Divinità, o forse è la Divinità stessa. Ognuno di questi mondi ha molte dimore, molte sfere di vita. Spazio, tempo e identità sono fattori presenti in tutti e quattro i mondi, ma con significati diversi.

Vi sono anche mondi al di sotto del nostro, dove il male diventa ad ogni livello più potente. Essi sono abitati da angeli di distruzione, che però non sono entità autonome, ma ricevono la loro forza dal nostro mondo, dalle nostre azioni. Per altro verso, essi diventano strumenti per punire coloro che agiscono, parlano, pensano male, noi veniamo colpiti dalle conseguenze delle nostre azioni.

L’En Sof, l’Infinito, benedetto Egli sia, si manifesta attraverso dieci Sefirot, dieci forze fondamentali, canali del flusso divino. Esse sono: Kéter, Hokhmah, Binah, Hésed, Gevurah, Tiféret, Nésah, Hod, Yesod, Malkhut. Insieme, nelle loro interrelazioni, esse formano il collegamento permanente tra il Santo, benedetto Egli sia, e il nostro mondo.

Le miswot, i comandamenti, che sono 613 per chi segua l’alleanza di Mosè e 7 per chi segua l’alleanza di Noè, ci insegnano a fare in modo che le nostre azioni, le nostre parole, i nostri pensieri non interrompano il flusso di energia che scaturisce dalle Sefirot. Lo studio e la pratica della Torah, la preghiera, l’amore, il pentimento mantengono e ripristinano l’ordine all’interno di una complessa relazione di mondi tra loro interconnessi.

Occorre tuttavia sottolineare che, se le preghiere e le invocazioni degli uomini passano attraverso un articolato sistema, non si rivolgono però a quel sistema, ma a D. Le Sefirot non costituiscono in alcun modo un ostacolo all’intima e immediata relazione tra l’uomo e il suo Creatore.



Nel suo libro di memorie Da Berlino a Gerusalemme Gershom Scholem (1897-1982) ricorda l’emozione provata nella primavera del 1913 (aveva allora 16 anni) quando lesse per la prima volta una pagina del Talmud e ascoltò la spiegazione che Rashi elabora dei primi versetti del Genesi. Fu, egli scrive, il primo incontro con la sostanza ebraica della Tradizione: «Ciò che mi affascinò allora, la forza di una tradizione plurimillenaria, era abbastanza forte da determinare la mia vita, e da indurmi a passare da una dedizione nel modo dello studio e dell’apprendimento a un’attività di ricerca e riflessione nella quale sprofondarmi»3. Il contatto con la profondità della Tradizione creò una trasformazione: «Ciò che allora credevo di poter cogliere e afferrare, e su cui ho riempito alcuni quaderni della mia giovinezza, si trasformò in quest’atto di prensione, e il concetto cui tendevo divenne qualcosa che riluttava tanto più energicamente ai concetti, man mano che passavano gli anni, in quanto liberava una vita misteriosa della quale dovevo riconoscere l’impossibilità di essere tradotta in concetti, e appariva tale da poter essere soltanto rappresentata sotto forma di simboli»4.

Poi, dapprima con esitazione, intorno al 1915 incominciò a leggere scritti sulla Qabbalah. Provò a cimentarsi con i testi originali, il che comportava non poche difficoltà, perché vi erano allora in Germania talmudisti, ma non cabbalisti: «Ben presto si destò il mio interesse per la Qabbalah, probabilmente attivato dall’unione di motivi molto diversi. Forse – come avrebbero detto i cabbalisti – nella “radice della mia anima” avevo un’affinità con questa sfera; forse concorse il mio bisogno di comprendere il mistero della storia ebraica – e l’esistenza degli ebrei attraverso i millenni è un mistero, checché ne dicano le “spiegazioni” offerte con dovizia»5.

Così dovette cercare di imparare da solo a leggere tali fonti. Si comprò un’edizione dello Zohar, l’opera di Franz Molitor, Philosophie der Geschichte, e alcuni testi del Hassidismo. Tra il 1915 e il 1918 riempì molti quaderni di estratti, riassunti, traduzioni e riflessioni. Nella primavera del 1919 prese la decisione di abbandonare gli studi naturalistici per dedicarsi a uno studioscientifico della Qabbalah.

Nel 1923 compì la sua alyiah, insieme ai duemila volumi della sua biblioteca, e andò ad abitare a Gerusalemme. Dopo essersi sposato, andò ad abitare in via Abissinia, non lontano dal quartiere ortodosso di Meah Shearim, a pochi minuti dalla Biblioteca Nazionale: «La Gerusalemme nella quale arrivai mi era stata destinata dal cielo, per così dire […] Dopo gli anni della Prima guerra mondiale era impregnata di vecchi libri ebraici come una spugna di acqua. Già allora venivano di continuo a Gerusalemme molti ebrei da tutte le parti del mondo, per lo più con i loro libri, per pregare, studiare e morire»6.

Nell’aprile del 1925 assiste all’inaugurazione dell’Università Ebraica sul Mount Scopus, senza immaginare che di lì a pochi mesi (in settembre) vi sarebbe stato assunto come studioso di Qabbalah. Un terreno vergine, dal punto di vista scientifico, si apriva alla sua attività di ricerca.



Mosheh Idel è nato nella Romania comunista nel 1947, in uno shtetl che era forse l’unico villaggio ebraico scampato alla Shoah. Sale in Israele nel 1963, quando ha 16 anni, e va a vivere in un kibbutz7. All’yiddish e al romeno si aggiungono l’ebraico e il francese. Già mentre frequentava il heder, la tradizionale scuola elementare ebraica, apprezzava in modo particolare il fatto che quando uno scolaro aveva imparato la lezione poteva ritornarsene a casa, e lì lui aveva tutto il tempo a sua disposizione per la sua occupazione preferita: la lettura. A 11 anni gli era capitato in mano il primo libro di filosofia. Da adolescente va a comprarsi libri di filosofia e sulle religioni, tra cui le opere di Schweitzer e di Jung, nella libreria francese di Haifa.

Leggendo le opere di Scholem inizia a scoprire la Qabbalah, incontrando un giorno “per caso” Shlomo Pinès (1908-1990, è meno famoso di Scholem, ma non meno straordinario: si dice che parlasse 70 lingue) decide di diventare uno studioso del pensiero ebraico, e sceglie per la sua tesi di occuparsi di Abraham Abulafia (1240-1291)8.

Idel è stato allievo di Pinès, non di Scholem. Idel e Scholem si incontrano per la prima volta nel 1971, e in seguito per una quarantina di volte. Il giovane studioso porta con sé manoscritti cabbalistici, che l’anziano studioso legge con gioia. Discutono per ore. Ripensandoci ora, Idel le considera ore di festa.

Idel legge molto, lavora molto in biblioteca e nel suo studio, ma pubblica il suo primo libro solo nel 1988, dopo la morte di Scholem. Da allora, i libri che ha pubblicato sono molti, tradotti in molte lingue, ma molti altri sono ancora manoscritti e altri ancora sono quelli in progetto. E’ considerato il maggior studioso contemporaneo di Qabbalah.

Pur riconoscendo che l’immensa opera scientifica di Scholem ha gettato luce su tutti gli aspetti fondamentali del misticismo ebraico, Idel ritiene tuttavia che su una serie di questioni il suo giudizio vada rivisto. In particolare egli ritiene che Scholem abbia privilegiato la corrente teosofico-teurgica rispetto a quella estatica, e sottovalutato gli aspetti magici.

Idel ha imparato dai suoi maestri la libertà di pensiero e di parola. Anche a noi è cara, e ci sia consentito di dissentire allorché egli pone il XIX secolo tra i periodi nei quali la Qabbalah non è stata importante. Nel XIX secolo è vissuto Rav Elia Benamozegh (Livorno 1823-1900), sul quale un grande maestro del XX secolo, Rav Léon Askenazi (1922-1996) si esprime in questi termini: «Duemila anni dopo l’inizio della grande diaspora che è seguita alla distruzione del Secondo Tempio, per la prima volta si fa udire una voce che si riaggancia al tempo dei profeti ebrei. Dopo la lunga parentesi di questa notte diasporica, riprende il tempo in cui i profeti ebrei parlavano simultaneamente in ebraico per Israele e nelle settanta lingue per le nazioni. Dopo un’eclissi di un secolo, ecco che Elia Benamozegh è di nuovo presente, nostro contemporaneo».9



Victor Malka sottolinea il tono sfumato, a mezza voce, delle risposte di Idel, che sono sotto il segno della misura, della concisione e del ritegno: non tre parole, quando due sono sufficienti. Egli si dichiara agnostico, ma osserva la Kasherut, afferma che avrebbe potuto studiare tutt’altro, ma è difficile credere che solo “il caso” lo abbia condotto ad occuparsi di Qabbalah.

Chi dicesse: «Sono un cabbalista!» sarebbe sicuramente un falsario. D’altra parte non basta dichiarare di non esserlo per esserlo in effetti. Tuttavia se qualcuno alla Qabbalah dedica la propria esistenza, almeno un sospetto lo suscita. E se l’accentuato understatement di Idel fosse in effetti una copertura?


Marco Morselli

Università di Modena e Reggio Emilia

Sukkot 5767


Note

1 Idel preferirebbe la domanda: che cosa sono le Qabbalot? Ma anche in una visione pluralista ci si può chiedere ad esempio cosa sia la filosofia, benché le filosofie siano molte e diverse tra loro.

2 A chi si accosti per la prima volta all’argomento potremmo consigliare: G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, tr. di G. Rossi, Introduzione di G. Busi, Einaudi, Torino 1993; A. Steinsaltz, La rosa dai tredici petali, tr. di R. Volponi, Giuntina, Firenze 2000; A. Safran, Saggezza della Cabbalà, tr. di V. Lucattini Vogelmann, Giuntina, Firenze 1998; Mistica ebraica, a cura di G. Busi e E. Loewenthal, Einaudi; Torino 1995 (un’antologia che consente di conoscere alcuni testi fondamentali della tradizione esoterica ebraica, dal Sefer Yesirah al Sefer ha-Bahir, ad alcune parti dello Zohar).

3 G. Scholem, Da Berlino a Gerusalemme, tr. di A. M. Marietti, Einaudi, Torino 1988, p. 46. Una nuova traduzione, a partire dall’edizione ebraica, è stata curata da G. Busi e S. Campanini (Einaudi 2004).

4op. cit., pp. 46-7.

5op. cit., p. 105.

6op. cit., p. 156.

7 Per coloro che amano enfatizzare la differenza tra laici e religiosi: il termine qibbus venne scelto per designare i villaggi socialisti e laici da Yehudah Yaari, recuperandolo dalla tradizione dei hassidim di Nahman di Breslaw.

8 Abulafia nasce nell’anno 5000 della datazione ebraica.

9 L. Askénazi, La Parole et l’Ecrit, Albin Michel, Paris 2005, vol. II, p. 476. Anche se Idel si è occupato in almeno due occasioni di Benamozegh, non ha ancora preso in considerazione le due opere fondamentali Essai sur l’origine des dogmes et de la morale du christianisme (le cui due prime parti sono edite solo in traduzione italiana: Marietti 2002) e Storia degli esseni (1865 e Marietti forthcoming).



Venerd́, 23 novembre 2007