La violenza senza emozioni.

Donne e nonviolenza


di Elena Pulcini

[Ringraziamo Elena Pulcini (per contatti: e_pulcini@philos.unifi.it) per questo intervento.

Elena Pulcini e’ professore ordinario di Filosofia sociale presso il Dipartimento di filosofia dell’Universita’ di Firenze; al centro dei suoi interessi e’ il tema delle passioni nell’ambito di una teoria della modernita’ e dell’individualismo moderno, con un’attenzione anche al problema della soggettivita’ femminile; acuta saggista, da anni riflette su decisivi temi morali e politici in dialogo con le esperienze piu’ vive del pensiero delle donne, dei movimenti solleciti del bene comune per l’umanita’ e la biosfera, e della ricerca filosofica, e specificamente assiologica, epistemologica e politica contemporanea; fa parte della redazione della rivista "Iride" (Il Mulino) e del Comitato scientifico della rivista "La societa’ degli individui" (Angeli); fa parte, per l’Universita’ di Firenze, del progetto europeo "Athena" (European Thematic Network Project for Women’s Studies Athena) diretto da Rosi Braidotti (Universita’ di Utrecht); fa parte della Giunta direttiva della Societa’ Italiana di Filosofia Politica (Sifp). Fa parte del gruppo fondatore del "Collegio Italiano di Filosofia Sociale Alfredo Salsano" diretto da Giacomo Marramao; ha curato opere di Rousseau e Bataille. Tra le opere di Elena Pulcini: La famiglia al crepuscolo, Editori Riuniti, Roma 1987; (a cura di), Teorie delle passioni, Kluwer, Dordrecht, Bologna 1989; Amour-passion e amore coniugale. Rousseau e l’origine di un conflitto moderno, Marsilio, Venezia 1990 (trad. francese c/o Champion-Slatkine, Parigi 1998); (a cura di, con P. Messeri), Immagini dell’impensabile. Ricerche interdisciplinari sulla guerra nucleare, Marietti, Genova 1991; L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001 (traduzione tedesca presso l’editore Diaphanes, Berlino 2004; ristampa 2005); (a cura di, con Dimitri D’Andrea), Filosofie della globalizzazione, Ets, Pisa 2001, 2003; Il potere di unire, Bollati Boringhieri, Torino 2003; con Mariapaola Fimiani, Vanna Gessa Kurotschka (a cura di), Umano, post-umano, Editori Riuniti, Roma 2004]


Devo subito premettere che il tema su cui mi si chiede di proporre qualche riflessione - donne e nonviolenza - mi coinvolge "visceralmente", per usare un termine caro a Maria Zambrano.

La violenza infatti prolifera a livello planetario assumendo infinite forme, essa e’ forse l’evento piu’ sconcertante del nostro tempo recente che non ci consente di affidarci ad una illuministica e compiaciuta fiducia negli effetti pacifici della modernita’ e del progresso.

Riemergono passioni arcaiche, quale faccia oscura e inquietante di una crescente a-patia. L’eta’ globale sembra caratterizzata da questa forbice tra, da un lato, un’assenza di pathos alimentata dal consumismo e dall’omologazione, dalla disaffezione alla sfera pubblica e dall’individualismo senza limiti; e dall’altro un eccesso di pathos, che spesso assume le forme assolutistiche della pretesa identitaria e di comunita’ chiuse e regressive.

Conflitti identitari e guerre senza fine, scontri etnico-religiosi e atrocita’ di ogni genere, riemergere della paura come cio’ che piu’ o meno sotterraneamente corrode la vita quotidiana, nuove forme di de-umanizzazione dell’altro e "invenzione" del nemico, sono fenomeni che ci pongono di fronte a sfide inedite cogliendoci di sorpresa, e che affrontiamo malamente con gli strumenti tradizionali della ragionevolezza.

C’e’ inoltre il diffondersi e l’amplificarsi della micro-violenza quotidiana: aggressioni e stupri, molestie sessuali su donne e bambini, mobbing e ricatti in ambito lavorativo, bullismo adolescenziale e delitti perpetrati "per futili motivi"...

Sembra di assistere a quello che freudianamente possiamo definire il "ritorno del rimosso", che del rimosso appunto possiede la potenza e l’incontrollabilita’.

Qual e’ allora il ruolo delle donne in questo scenario?

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Le donne, lo sappiamo, sono sempre state associate alla pace, alle passioni empatiche e relazionali, alla solidarieta’ e alla cura.

Le diverse tradizioni del femminismo hanno per lo piu’ confermato questa identificazione. Sia che ci si appelli al materno e all’ontologia della dualita’, sia che si proponga l’idea di un soggetto in relazione, alternativo al soggetto monologico occidentale e moderno, sia che si assumano come portatrici di un’etica della cura che le vede attente all’altro e al contesto, le donne sono sempre state rappresentate come estranee alla violenza, che sembra caratterizzarsi come essenzialmente maschile.

Valorizzare l’eredita’ simbolica della relazione significa poter pensare un’idea di soggettivita’ diversa da quella, egemone, del soggetto occidentale moderno, responsabile delle derive individualistiche e delle patologie che affliggono le nostre societa’ democratiche, segnate dall’atomismo e dall’indifferenza, dal conflitto e da un preoccupante deficit di solidarieta’.

La violenza in altri termini si connota come l’effetto inevitabile del soggetto acquisitivo e predatorio, strumentale e conflittuale, animato dalla passione del potere e dalla brama di dominio che, soprattutto a partire dalla modernita’, ha coinciso con il soggetto maschile e patriarcale. Le donne sono sempre state semmai quelle che subiscono la violenza: sia essa aggressiva o silenziosa, palese o sotterranea. Oggetti di esclusione o di aggressione, di svalutazione o di dominio, le donne, dagli spazi segreti e nascosti della sfera intima fino a quelli piu’ visibili della sfera pubblica, sono vittime di una duplice forma di violenza: quella che si esercita sui corpi (maltrattamenti, molestie, stupri) e quella che si esercita sulle emozioni (sempre per lo piu’ controllate e guidate da un potere maschile geloso della propria egemonia).

Le conquiste innegabili ottenute negli ultimi decenni non bastano a smentire questa realta’, la quale si ripresenta invece ciclicamente a testimonianza di una sua permanente latenza, pronta a manifestarsi di nuovo, e paradossalmente, nei momenti in cui le donne sembrano aver raggiunto traguardi di liberta’ e di dignita’.

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Come ho gia’ avuto modo di sottolineare altrove, le conquiste femminili sembrano possedere la desolante caratteristica di non poter mai essere, neppure nel nostro Occidente compiaciuto dei propri fondamenti progressisti e delle proprie premesse libertarie, considerate definitive, ne’ di poter riposare su traguardi acquisiti. Non solo perche’ si profilano sempre, sul piano politico e legislativo, minacciose inversioni di rotta e sconcertanti ritorni indietro, ma anche perche’ lo stesso tessuto culturale ci pone quotidianamente di fronte a piccole e grandi violenze, soprusi o semplici indifferenze che testimoniano del permanere, piu’ o meno sotterraneo, di pratiche di aggressione e di misconoscimento.

Basti pensare, solo per restare all’Italia, al moltiplicarsi di episodi di violenza (gli stupri a Milano l’estate scorsa, la violenza sessuale a Roma e Napoli, delitti d’amore e di gelosia, molestie e violenza in ambito domestico) che, a dispetto delle conquiste giuridiche, riesplodono per ogni dove, spesso nell’indifferenza generale.

Si tratta inoltre di episodi che non e’ certo possibile scaricare sulla presenza "contaminante" di soggetti e culture altre, ancora dichiaratamente fondate su un atavico potere patriarcale. Nonostante il rumore fatto l’estate scorsa dai mass media sul caso di Hina (uccisa da padre e fratelli in quanto trasgressiva della legge islamica), quale evento simbolico di una "arretratezza" e di una ferocia arcaica da cui l’occidente illuminato sarebbe immune; e malgrado il dilagare del dibattito sulla questione del "velo", dibattito spesso subdolamente connivente con il pericoloso mito dello "scontro di civilta’", non e’ possibile ignorare i tanti episodi di violenza autenticamente nostrana che infestano le nostre citta’ consegnandole, soprattutto per quanto riguarda la popolazione femminile, alla paura e all’insicurezza che spesso pervadono le stesse mura domestiche. Sappiamo infatti che la prima causa di morte e di invalidita’ permanente per le donne europee tra i 16 e i 44 anni e’ la violenza dei mariti, dei compagni, dei padri; che il 90% di stupri, maltrattamenti, violenze fisiche e psicologiche degli uomini sulle donne avviene in casa; che ogni 4 minuti in Italia, e ogni 90 secondi negli Stati Uniti una donna viene stuprata. Insomma violenze e delitti di ogni sorta, a cui va tristemente ad aggiungersi la lista recentissima e quantomai inquietante della violenza fra gli adolescenti, in cui quasi sempre la vittima e’ una giovane teen-ager che diventa malauguratamente ostaggio di piccoli bulli in cerca di una distorta identita’.

Si assiste inoltre al permanere di un altro tipo di violenza, meno eclatante e piu’ indiretta, ma non per questo meno efficace, che e’ quella della mercificazione e spettacolarizzazione dell’immagine e del corpo femminile che continua indisturbata ad imporsi, veicolata attraverso schermi di ogni tipo (la tv, il cinema, internet); violenza tutt’altro che nuova, bensi’ coeva a quella "societa’ dello spettacolo" che da tempo erode ogni contenuto e valore, ma che attinge oggi nuovo vigore dall’imperversare di una logica competitiva selvaggia, alimentata dal modello delle "sfide" televisive e del "saranno famosi", spingendo le donne, soprattutto le piu’ giovani, ad inseguire il sogno postmoderno di almeno un frammento di visibilita’. Da sponde apparentemente opposte, queste due forme di violenza finiscono di fatto per convergere nel riconfermare, ancora una volta, quel pernicioso e secolare pregiudizio che consiste nella identificazione delle donne con il corpo, con il loro corpo; il quale, velato o scoperto, ammirato o violato, assoggettato o trasgressivo, continua ad essere, sempre e comunque, il fondamento granitico su cui, attraverso le culture, viene costruita l’identita’ femminile.

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Le donne dunque, da sempre oggetto di violenza, sono anche coloro che hanno imparato a costruire forme di resistenza e a proporre modelli, e soprattutto pratiche, alternativi: modelli e pratiche fondate su una diversa relazione con l’altro e sui valori dell’attenzione e della cura, a partire, prioritariamente, dal riconoscimento della ontologica dipendenza del soggetto e della figura dell’altro come cio’ che intimamente ci costituisce. Eppure assistiamo oggi ad un evento nuovo che vede le donne stesse artefici di violenza: madri assassine e sfruttatrici dei propri figli, donne che immolandosi compiono stragi di innocenti ed inermi, donne aguzzine e torturatrici.

La tentazione, di fronte a quest’orrore, e’ quella di non vedere, di rimuovere, di ricondurre ogni caso al parametro dell’eccezionalita’. Ma la rimozione, lo dicevo sopra, non e’ mai una buona scelta. Meglio, invece, cercare un senso a tutto questo. E cercare un senso significa, a mio avviso, in primo luogo distinguere tra le diverse epifanie della violenza al femminile.

Se e’ vero infatti che l’immagine della madre assassina e’ uno dei piu’ potenti tabu’ che non riusciamo a metabolizzare nelle nostre coscienze, e’ vero anche che spesso dietro quest’immagine si cela un vissuto di sofferenza, di umiliazione e di ferite che riesce ad assumere solo le forme distorte del sacrificio di cio’ che e’ (dovrebbe essere) quanto di piu’ caro.

Forse qui il ricorso al mito ci puo’ aiutare: quando Medea compie il piu’ atroce degli atti uccidendo i propri figli, lo fa perche’ si ribella alla scelta di Giasone di sposare Creusa, figlia di Creonte: una scelta (quella di Giasone) che e’ dettata non dall’amore ma dalla brama di potere, e che tradisce la sacralita’ della relazione d’amore. Medea punisce Giasone non per l’abbandono, ma per il tradimento della relazione, che equivale a negare lei stessa come soggetto d’amore, come soggetto di passione.

Si tratta allora di scoprire un senso anche laddove si viene piu’ acutamente invasi dall’orrore, come tuttora accade, e sempre piu’ frequentemente, di fronte alle cronache giornalistiche di madri assassine, che ci confermano la triste attualita’ della figura di Medea. Piu’ bisognosa di pietas che di condanna, Medea ci costringe a superare la ripulsa di fronte al piu’ potente dei tabu’, rivelando alla nostra coscienza contemporanea gli esiti fatalmente nefasti di quella che per le donne e’ la fonte piu’ atroce della sofferenza: il tradimento della relazione.

Si tratta dunque di una violenza che ha ancora una fonte emotiva, che trova origine in un, sia pur distorto e distruttivo, pathos. Potremmo dire lo stesso di quelle donne-bomba che, fuori dall’Occidente, si sacrificano immolandosi e trascinano con se’ nel proprio destino vittime innocenti. Anche qui c’e’ a monte una ferita, una condizione umiliante e intollerabile che trova un atroce sollievo in un atto disperato di condivisione del sangue e della morte.

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Il problema si fa invece piu’ grave laddove ci troviamo in presenza di una forma inedita di violenza: quella che vorrei definire la violenza senza emozioni, di cui un caso emblematico e’ quello delle donne aguzzine e torturatrici.

Pensiamo alle immagini di Abu Graib... La soldatessa americana che poggia il piede su un mucchio di corpi iracheni torturati e che si fa fotografare sorridendo, e’ un’immagine ancora piu’ inquietante del nazista che spinge grappoli di ebrei nella camera a gas. Perche’ nel primo caso c’e’ appunto, piu’ che l’odio per il nemico ideologicamente legittimato, una sorta di autocompiacimento indifferente che consente di spettacolarizzare la sofferenza e la morte, svuotandole di ogni tipo di partecipazione emotiva. Il processo di de-umanizzazione in cui la riduzione dell’altro ad una non-persona si compie attraverso l’umiliazione e la mortificazione del corpo non e’ qualcosa di nuovo. Si tratta di un fenomeno che gia’ conosciamo, basti, appunto, pensare ad Auschwitz e alle immagini desolanti di corpi scheletrici ammucchiati in ammassi anonimi ed informi.

Ma qui c’e’ qualcosa di piu’, qualcosa che ci impietrisce perche’ non riusciamo a intravvederne il senso, neppure un senso distruttivo e terribile: qualcosa che vorrei chiamare una anestesia delle emozioni. Qui noi avvertiamo oscuramente il pericolo di essere inghiottiti dall’assenza di ragioni e di passioni, da un meccanismo anestetico che appiattisce ogni esperienza, anche la piu’ estrema, in una indifferenziazione senza pathos e senza dramma, per la quale non disponiamo neppure di figure mitiche che in qualche modo ci aiutino a trovare un senso.

E’ questa la violenza - certo non solo femminile, ma che e’ oggi arrivata a contaminare anche le donne - che piu’ di ogni altra dobbiamo temere, perche’ la perdita di contatto con le proprie emozioni e’ il piu’ orribile spettro da esorcizzare e da affrontare.

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Quali risorse abbiamo, e in particolare, quali risorse hanno le donne per contrastare questa angosciante deriva?

Forse e’ proprio quella prossimita’ alle emozioni che le donne hanno potuto e saputo conservare grazie, paradossalmente, alla loro marginalita’ ed esclusione; ma che sembra oggi richiedere un impegno ulteriore, una rinnovata e tenace capacita’ di custodire, contro la deriva dell’indifferenza, un bene prezioso, un dono da non sperperare.

Bisogna preservare e alimentare l’Antigone che abita dentro ognuna di noi, rafforzarne la potenza per riattivare, sempre ed ovunque, la forza dirompente della sua pietas e la sua capacita’ di commuoversi.

La pietas di Antigone e’ testimonianza simbolica della capacita’ di identificarsi con l’altro a partire dalla condivisione della sofferenza, della debolezza e della fragilita’ dell’altro che diventa specchio della nostra stessa sofferenza, debolezza, fragilita’. E’ dunque attenzione alla singolarita’ dell’altro, e proprio in questo senso essa puo’ costituire un efficace antidoto alla violenza senza emozioni, la quale al contrario e’ diniego della singolarita’ dell’altro, aggressione dettata dall’indifferenziazione, oltraggio verso qualcuno che e’ stato preventivamente spogliato del nome e del volto.

Dobbiamo pero’ fare un passo ulteriore: perche’ non si deve dimenticare che Antigone si commuove per qualcuno che ama, che le e’ familiare, a cui la lega addirittura un legame di sangue. Noi oggi non possiamo piu’ limitarci ad una pietas verso l’oggetto d’amore, verso l’altro vicino ed amato, ma siamo chiamati(e) ad una commozione che investe anche l’altro remoto, l’altro sconosciuto che tuttavia, con la pura e scarna potenza del suo "volto", direbbe Levinas, ci chiama a rispondere della sua sofferenza e ci chiede di rompere la spirale della violenza.

Tratto da
LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA

Supplemento Supplemento domenicale de "La nonviolenza e’ in cammino"
La nonviolenza è in cammino

Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Arretrati in:
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Numero 110 del 6 maggio 2007



Luned́, 07 maggio 2007