Il ripensamento femminista

"L’aborto, una risposta violenta e mortifera" - (documento femminista del 1975)


di Luisa Muraro

[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo questo intervento di Luisa Muraro. Luisa Muraro insegna all’Universita’ di Verona, fa parte della comunita’ filosofica femminile di "Diotima"; dal sito delle sue "Lezioni sul femminismo" riportiamo la seguente scheda biobibliografica: "Luisa Muraro, sesta di undici figli, sei sorelle e cinque fratelli, e’ nata nel 1940 a Montecchio Maggiore (Vicenza), in una regione allora povera. Si e’ laureata in filosofia all’Universita’ Cattolica di Milano e la’, su invito di Gustavo Bontadini, ha iniziato una carriera accademica presto interrotta dal Sessantotto. Passata ad insegnare nella scuola dell’obbligo, dal 1976 lavora nel dipartimento di filosofia dell’Universita’ di Verona. Ha partecipato al progetto conosciuto come Erba Voglio, di Elvio Fachinelli. Poco dopo coinvolta nel movimento femminista dal gruppo "Demau" di Lia Cigarini e Daniela Pellegrini e’ rimasta fedele al femminismo delle origini, che poi sara’ chiamato femminismo della differenza, al quale si ispira buona parte della sua produzione successiva: La Signora del gioco (Feltrinelli, Milano 1976), Maglia o uncinetto (1981, ristampato nel 1998 dalla Manifestolibri), Guglielma e Maifreda (La Tartaruga, Milano 1985), L’ordine simbolico della madre (Editori Riuniti, Roma 1991), Lingua materna scienza divina (D’Auria, Napoli 1995), La folla nel cuore (Pratiche, Milano 2000). Con altre, ha dato vita alla Libreria delle Donne di Milano (1975), che pubblica la rivista trimestrale "Via Dogana" e il foglio "Sottosopra", ed alla comunita’ filosofica Diotima (1984), di cui sono finora usciti sei volumi collettanei (da Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987, a Il profumo della maestra, Liguori, Napoli 1999). E’ diventata madre nel 1966 e nonna nel 1997"]


"L’aborto, una risposta violenta e mortifera"

(documento femminista del 1975)

Quelle e quelli che parlano di un ripensamento femminista sull’aborto (e che poi lamentano che non abbiamo il coraggio di sostenerlo), rispetto alle posizioni degli anni Settanta, fanno un madornale errore: confondono la battaglia impostata dai radicali (fra i quali spiccava Emma Bonino) per il diritto d’aborto, con il movimento femminista, che non aveva questa impostazione individualistica e liberistica. Non c’e’ dubbio che la battaglia dei radicali sia stata sostenuta anche da molte femministe, specialmente a Roma, ma, primo, cio’ non vuol dire che quelle femministe ne condividessero l’ideologia, secondo, il pensiero politico femminista, quando si e’ espresso con documenti suoi, non era d’accordo perche’ vedeva nell’aborto, legale o illegale che fosse, una conseguenza di una sessualita’ femminile subordinata a quella maschile e lavorava intanto perche’ la questione trovasse risposta in una piu’ ampia concezione della liberta’ femminile.

Cito da un documento del 1971: "Una procreazione coatta e ripetitiva ha consegnato la specie femminile nelle mani dell’uomo di cui ha costituito la prima base di potere. Ma oggi anche una procreazione ’per libera scelta’, quale contenuto liberatorio puo’ avere in un mondo dove la cultura incarna esclusivamente il punto di vista maschile sull’esistenza?" (Rivolta femminile). E da un documento del 1973: "Per gli uomini l’aborto e’ questione di legge, di scienza, di morale, per noi donne e’ questione di violenza e sofferenza. Mentre chiediamo l’abrogazione di tutte le leggi punitive dell’aborto e la realizzazione di strutture dove sostenerlo in condizioni ottimali, ci rifiutiamo di considerare questo problema separatamente da tutti gli altri nostri problemi, dalla sessualita’, maternita’, socializzazione dei bambini, ecc." (Collettivo di Via Cherubini). Lo stesso collettivo, in un documento del 1975, intitolato "Noi sull’aborto facciamo un lavoro politico diverso" (sottinteso: da quello che fanno i radicali con le manifestazioni di piazza), scrivera’ che "l’aborto di massa negli ospedali non rappresenta una conquista di civilta’ perche’ e’ una risposta violenta e mortifera al problema della gravidanza e, per di piu’, colpevolizza ulteriormente il corpo della donna". Smetto di citare; per un racconto piu’ dettagliato si puo’ leggere il capitolo secondo di Non credere di avere dei diritti della Libreria delle donne di Milano (Rosenberg e Sellier, 1987, 1998). Puo’ bastare, credo, a far capire il senso della reazione di molte femministe alla tesi del "ripensamento": nessuna di noi nega che, con i cambiamenti di cultura in corso, possa esserci e anzi debba esserci un arricchimento del pensiero femminista. Ma nel senso di una ripresa e di un approfondimento, unicamente.

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C’e’ un problema a monte di questo fasullo "ripensamento", che forse e’ venuto il momento di affrontare. Ed e’ che il pensiero politico delle donne ha interessato - ed e’ stato registrato, dalla cultura ufficiale, sia politica sia giornalistica - nella misura in cui stava dentro al quadro che questa cultura aveva gia’ presente.

Dicevamo: l’aborto esorbita dalle cose che il diritto puo’ regolare, per tutto quello che chiama in causa della sessualita’ umana e per tutto quello che significa nell’esperienza femminile. Ma questa posizione non interessava ne’ i sostenitori di una legge sull’aborto ne’ il fronte contrapposto dei sostenitori di una legge contro l’aborto. E cosi’ si e’ continuato a discutere a forza di contrapposizioni e con ripetute semplificazioni, attraverso gli anni Ottanta e Novanta.

Adesso, quelle nostre parole sull’aborto "risposta violenta e mortifera", che ho dissepolto dall’ignoranza storica dei piu’, tornerebbero buone, buonissime, ad alcuni di questi piu’, ma solo per usarle dentro un altro schieramento, e siamo daccapo con l’operazione di tacitare esperienza e pensiero di donne.

Dicendo questo, rovescio in parte la posizione di Lucetta Scaraffia (sul "Corriere della sera" del 6 febbraio): secondo lei ci sarebbe stato un conformismo della parola pubblica femminista che ha occultato la complessita’ del pensiero che certo gruppi portavano avanti. A me risulta che l’opera di semplificazione non sia venuta dal femminismo, ma al contrario da chi del femminismo conosceva poco e capiva meno ancora. A me risulta, per esempio, che gli intellettuali, con qualche eccezione, gli hanno prestato scarsa attenzione, che i giornali e la televisione lo hanno divulgato secondo stereotipi pigri e qualche volta stupidi, e che la politica ufficiale, quella delle scadenze elettorali, lo ha assimilato in una versione semplificata e direi quasi mutilata.

E’ successo cosi’ che e’ mancato, alla cultura politica generale, un incontro e confronto fecondo con il pensiero che il movimento delle donne ha prodotto. Per tre quarti, lo dico senza esagerare, e’ una questione di linguaggio: quello che le donne hanno da dire a questo tipo di civilta’, e che, bene o male, hanno cominciato a dire, sporge fuori dai suoi quadri. E non si puo’ scrivere sugli striscioni, come vorrebbe una simpatica giornalista del "Foglio": bisogna farsi l’orecchio per intenderlo. Non si dimentichi che, se noi femministe abbiamo detto qualcosa, lo abbiamo potuto dire grazie ad un ascolto fine di noi stesse e delle altre. E che molto resta nel silenzio.

Ora ci chiediamo, e da almeno vent’anni cerchiamo risposte, se e come quella capacita’ di ascolto e quel qualcosa che siamo riuscite a formulare, possano diventare un’eredita’ per le nuove generazioni, che rischiano altrimenti di ereditare il femminismo ultrasemplificato che sta dentro al quadro del consumismo e delle "facilita’" di una societa’ opulenta.

Il dibattito in corso puo’ essere visto come il segnale che qualcosa sta cambiando? Si’, mi sento di rispondere, purche’ migliori nettamente la qualita’ dell’ascolto degli uomini nei confronti della parola delle donne: la parola delle femministe, per cominciare, ma anche quella piu’ corrente delle donne che essi incontrano nei luoghi della vita lavorativa e familiare. Siamo ancora distanti da cio’. Un esempio? Nell’intervista sul "Corriere della sera" del 10 febbraio, l’on. Martinazzoli, che ha fama di attento e riflessivo, ha creduto di leggere un ripensamento femminista sull’aborto ("non un’abiura, ma piu’ prudenza, piu’ dubbi"), che e’ parecchio distante da quello che e’ venuto invece fuori dal dibattito, il presunto ripensamento essendo comunque moneta buona, per lui, da spendere nella prossima campagna referendaria.

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Torna insomma ad agire il quadro dentro il quale dovremmo esprimerci per esserci e contare, lasciando fuori un certo numero di "cose". Fuori dal quadro del "pensiero cattolico", per esempio, restano quelle femministe cattoliche che hanno parlato e scritto in favore della legge 194. Fuori dal quadro resta, per fare un altro esempio, il fatto che alcune femministe si sono espresse contro il ricorso allo strumento referendario per cambiare o migliorare l’attuale legge sulla procreazione assistita. Fuori dal quadro resta la nostra consapevolezza che in queste materie la macchina politica degli schieramenti contrapposti e’ deleteria. Fuori dal quadro restano le pratiche che abbiamo inventato. Fuori dal quadro continua in sostanza a restare la differenza femminile.

Tratto da
LA NONVIOLENZA E’ IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 846 del 20 febbraio 2005



Luned́, 28 febbraio 2005